30 dicembre 2008

un sereno 2009

Questa sera ho voluto rileggere i post del nostro blog, seguendo dapprima l’ordine cronologico, poi in modo del tutto casuale e mi sono accorto di provare le stesse emozioni che avevo sperimentato la prima volta. Gli scritti mi sono apparsi freschi, mai banali, piacevoli e ricchi di spunti di riflessione. Una cosa ben fatta, insomma. La rete trabocca di blog, in gran parte appena abbozzati e spesso gonfi di orpelli inutili, anche se di richiamo. Altri invece sono particolarmente complessi e ben curati e puntano ad incrementare il contatore dei commenti, limitati a piccoli flash, ma che sono indicativi del grado di popolarità del blog. Se scrivere un post può sembrare impegnativo (ma vi assicuro che, superato l’impatto della novità, così non è), aggiungere un commento richiede un impegno nettamente inferiore e può comunque favorire l’instaurarsi di un dialogo tra i lettori.
“Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma noi siamo scienza, non fantascienza” recitava lo slogan di una vecchia pubblicità ed in noi, oltre all’inesperienza nell’uso dello strumento, è prevalsa la volontà di creare un ambiente rilassante, accattivante come il salotto di una biblioteca, dove, chi vuole, può sedersi a leggere o scrivere senza il timore di essere disturbato. A me sembra che ci siamo riusciti e gran parte del merito va dato a
Cristina che ha preso a cuore questa creatura, quasi si trattasse dell’assunzione di un nuovo servizio di volontariato. Per superare gli inevitabili momenti di scoramento era importante mantenere vivo il blog, continuare ad alimentarlo con sempre nuovi post ed è ciò che abbiamo cercato di fare. Non per dovere, ma perché il farlo ci procurava piacere. Il giorno in cui mi accorgessi di non divertirmi più, vi scriverei un post di saluto e farei dell’altro. È nata così anche l’idea del “book-club” (dopo il libro “Oscar e la dama in rosa” proveremo, a febbraio, a proporne un secondo) ed è in cantiere l’ipotesi di realizzare un vero e-book (un libro da sfogliare in rete) confezionato, capitolo dopo capitolo, con i testi prodotti dai volontari (non è una novità, altri l’hanno fatto e tecnicamente non presenta grossi problemi). Parlando degli aspetti tecnici, credo che la diffusione di internet all’interno delle famiglie e, magari, un piccolo sforzo promozionale, potranno fare crescere la famiglia degli “autori” di nuovi post. Già oggi la lettura e l’inserimento di commenti sono liberi a tutto il web (salvo un doveroso filtro per evitare danni d’immagine): credo che il prossimo passo debba essere l’apertura ad altri settori del volontariato anche per quanto riguarda l’abilitazione alla scrittura di nuovi testi. Prima di ringraziare tutti voi per l’attenzione che riservate a questo nostro blog, ed in particolare a quanti si adoperano per agevolarne la diffusione, mi preme sottolineare che nessuno deve sentirsi giudicato per la qualità estetica o per i contenuti di ciò che propone. Ognuno ha un proprio stile, e nessuno deve sentirsi frenato nella possibilità di esprimersi a causa della convinzione di “non essere all’altezza. Ciò che conta è la volontà di rendere partecipi gli altri delle proprie emozioni. Parliamo di “scrittura emotiva”, non di prosa da premio Nobel per la letteratura. Spesso, sono proprio le cose dette in modo semplice e diretto quelle che restano impresse e che ci aiutano a crescere. A volte le tante citazioni, più o meno dotte, (ed io sono uno che non si tira certo indietro) se da un lato denotano la volontà di approfondire le tematiche trattate, dall’altro rischiano di fare restare le emozioni in superficie senza che incidano nel profondo del cuore.
Non fate mancare il vostro prezioso contributo!
Un sereno 2009 a voi, alle vostre famiglie, ed ai vostri assistiti.
Gianpietro 

29 dicembre 2008

Troppo tardi

Una delle prime cose che chi vive un'esperienza assistenziale con malati gravi impara è che certe occasioni, nella vita, non si ripetono: c'è un limite oltre il quale è troppo tardi. Se ne accorse subito la psichiatra svizzera Elisabeth Kubler-Ross, che dedicò la vita allo studio della psicologia dei malati in fase avanzata. Un malato aveva chiesto di parlare con lei, un'occasione che la dottoressa aspettava da tempo, perché l'uomo, chiuso nel suo dolore, non voleva parlare con nessuno, ma la sua agenda era piena di impegni e lei gli riservò la prima data libera. L'incontro però non avvenne mai, perché il malato, nel frattempo, morì. Nel suo libro "La morte e il morire", scrisse che da quell'esperienza imparò che, in questa fase della malattia, ogni momento è prezioso e irripetibile. Il primo servizio che mi venne affidato fu la supplenza di una volontaria che andava da una malata oncologica in fase avanzata. Il figlio di questa signora viveva all'estero e non venne mai a trovare la madre durante la sua malattia, venne soltanto per il funerale e, in quella occasione, chiese di poter parlare con la volontaria che aveva assistito la madre, per sapere dei suoi ultimi mesi di vita. La volontaria gli negò il colloquio dicendogli, al telefono, che era troppo tardi. Cristina

24 dicembre 2008

il taschino sul cuore

Da una persona, cui tengo molto, ho ricevuto in regalo un libro. Lo leggerò. Non so se mi piacerà, ma non sarà importante. Il vero regalo è la dedica, che prendo a prestito per farne il mio augurio a tutti voi.
“Non smetterò mai di pensare e di sentire che siamo persone meravigliose. Tutti. Sono gli abiti che indossiamo, gli ‘straccetti’ cuciti su misura da noi e per noi che ci ingannano oscurando la luce che siamo. Siamo nati per essere felici, ma ci comportiamo come se mirassimo al risultato opposto. È come se cercassimo la felicità nelle tasche dei pantaloni o in quelle esterne del nostro cappotto. Lì troviamo solo superficialità ed inganno materiale. È dal taschino interno, quello che si appoggia sul cuore, che dobbiamo togliere il telefonino ed al suo posto mettere un biglietto con su scritto – qui sta la mia felicità: qui sotto, qui dentro. – Con l’abitudine del gesto pian piano ci ricorderemo chi siamo e chi torneremo ad essere. Ho voglia di riascoltare le cose buone che indica il cuore. Questo è anche il mio augurio per te.”
Grazie, Gianpietro

23 dicembre 2008

Esageruma nenta

Nel suo ultimo libro “Il pane di ieri”, Enzo Bianchi ricorda l'aspra concretezza della vita contadina da cui proviene e le lezioni e gli insegnamenti che lo hanno plasmato. Per l’età, mio fratello maggiore ha vissuto gli stessi anni difficili di una società povera, che usciva dalla guerra e affrontava il cambiamento, quando l’università, per chi veniva da una famiglia modesta come la nostra, era accessibile solo con borse di studio e presalari, e a patto di restare sempre in pari con gli esami. Nel libro di Enzo Bianchi, ritrovo la stessa sapienza, povera e ruvida, che ha sempre guidato anche la mia famiglia, che io però ho sempre contestato, trovandola priva di tenerezza. In particolare, mi ha colpito una frase, che lui dice faceva parte del lessico familiare di quella società contadina del Monferrato: Esageruma nenta che significa “Non esageriamo”, secco invito al ridimensionamento, atteggiamento di cui la società di oggi è particolarmente carente. Anni fa, dopo una vita tutto sommato facile, in cui tutto era sempre andato abbastanza bene, ebbi un anno disgraziato, tra malattie e tutto il resto, in cui venni sottoposta a quattro interventi, uno più doloroso dell’altro. Esasperata dalle malattie e dalle convalescenze, decisi di concedermi quella che avrebbe dovuto essere una lunga vacanza in Messico, ma dopo soli cinque giorni ebbi un gravissimo incidente, con l’auto presa a noleggio, e finii di nuovo in ospedale. Venni rimpatriata, immobilizzata in un gesso, che avrei dovuto tenere per novanta lunghi giorni, in aereo fino a Milano, poi in ambulanza a casa, dove raccontai tutto a mia madre, piangendo. Mia madre sbuffò e, in dialetto, linguaggio che usava quando era arrabbiata, mi chiese se pensavo fosse proprio il caso di piangere, soltanto per una gamba rotta. Io penso che ognuno di noi dovrebbe fare memoria di questo pane di ieri, senza idealizzare il passato, perché, come dice Enzo Bianchi, la miseria difficilmente rende gli uomini migliori, e non bisogna dimenticare che la violenza nella famiglia era ancora più diffusa ieri di oggi, però bisogna tenere conto della cultura da cui veniamo e che, in qualche modo, ci ha formato. Cristina

Tu che vuoi venire volontario

"Tu che vuoi venire volontario, dì a te stesso che il tuo vero servizio di volontario incomincerà solamente il giorno dopo quello in cui, completamente stufo sarai deciso a fare le valigie e ad andartene, e tuttavia resterai. Da quel momento tu sarai veramente volontario" (Abbé Pierre). Ho già riportato questa citazione, ma mi viene in mente tutte le volte che, come oggi, incontro un volontario che mi dice che è arrivato ad un punto in cui sente, in modo più insistente, il desiderio di lasciare il servizio e se ne vergogna. Un po’ di tempo fa, un’altra volontaria mi disse che, dopo dieci anni che andava dalla stessa persona, non la sopportava più, ma non riusciva a confidarlo a nessuno. Le possibilità di comunicare che hanno i volontari non sono tantissime, ma ci sono, perché ci si ritrova alle riunioni, ci vengono richiesti, talvolta, degli articoli da pubblicare sul giornalino, e poi c’è il blog, che è lo strumento che, più di tutti, assicura un’informazione costante, essendo un diario, e un riscontro immediato, perché c’è sempre almeno una persona che lo legge subito. Il mio è solo un invito a sfruttare meglio questa opportunità, perché non sono certa che sia stata completamente compresa. Anch’io, durante quest’anno, ho fatto le valigie diverse volte, pensando di smettere di scrivere sul blog, visto che non sembrava interessare nessuno, ma poi dopo un po’ tornavo a scrivere, perché quando si pensa che un progetto è importante, abbandonarlo è più difficile che cominciarlo. Cristina

18 dicembre 2008

Il neonato

Tra i quadri che rappresentano il Natale, trovo molto suggestivo “Il neonato” di Georges de La Tour, pittore francese del ‘600. La scena della natività è proposta in modo semplice, quotidiano, senza angeli, aureole, né pose estatiche. Lo sfondo è scuro e rappresenta l’oscurità e il mistero della nostra vita, che spesso non comprendiamo e ci sembra, per questo, senza scopo, né speranza. In primo piano, due donne, sedute quasi una di fronte all’altra, occupano la scena: una tiene in braccio un bambino, avvolto in fasce come una piccola mummia; l’altra tiene una candela in una mano e con l’altra, con un gesto che sembra quasi una benedizione, protegge la fiamma dallo sguardo dell’osservatore, che si dirige, invece, verso il volto del bimbo, pieno di luce, come se fosse egli stesso sorgente luminosa per le due donne. Quello che mi colpisce sono le fasce: simbolo di un’umanità fragile, quella del neonato, questo Dio bambino che è sceso nella storia, ma anche nostra e della sofferenza, dentro e fuori di noi, che ogni giorno dobbiamo affrontare. Penso alle malattie di tante persone, che vivono perennemente in un letto, ma penso anche alle malattie dell’anima, che ci paralizzano e spesso ci sembra impossibile superare. Le fasce sono anche il simbolo della condizione in cui una società disumana tiene i detenuti; sono le camicie di contenzione che immobilizzano i malati del carcere psichiatrico giudiziario; sono le catene invisibili delle ragazze di strada, ridotte in schiavitù da quelli che le sfruttano e, soprattutto, da quelli che le comprano. Su tutti noi, però, brillano quelle due luci: la luce della candela, che è quella della carità fraterna, offerta e condivisa, e quella del volto del bambino, sofferenza umana trasfigurata, che ogni vita, anche la più fragile, offre come un dono e una possibilità di riscatto a tutte le altre. Cristina

15 dicembre 2008

Incontro

Sabato pomeriggio ho incontrato, per la prima volta, la referente di zona che ha sostituito la mia, non più in servizio, e i volontari che vanno dalla stessa persona da cui vado io, per il servizio EmmauS. Sono emersi alcuni problemi, in parte dovuti al fatto che non c’era stata molta condivisione, all’interno della nostra associazione, su questo caso, e ognuno di noi conosceva solo una parte di questa storia assistenziale. Uno dei problemi, che mi è sembrato preoccupare maggiormente, è stato quello che alcuni volontari svolgono dei servizi che vanno oltre il normale intrattenimento del malato, che dovrebbe consistere, essenzialmente, nella conversazione, nella lettura, o nella semplice presenza fisica. Una volontaria ha chiesto fino a che punto si può spostare una persona completamente immobile, senza rischiare un danno per la stessa, considerando la mancanza di competenza del volontario. Un’altra, invece, si è trovata in difficoltà perché io svolgo, all’occorrenza, piccoli lavori domestici, come stirare, cucinare, pulire e questo finisce per creare nell’assistito delle aspettative che non tutti riescono a soddisfare. Una delle volontarie, che è medico, ci ha aiutato a distinguere le semplici operazioni, che può fare chiunque, da quelle che, invece, è meglio lasciare al personale infermieristico. Sui lavori domestici, siamo poi rimaste d’accordo che, anche questi, devono limitarsi a piccoli servizi di supporto, e non a vere e proprie faccende, e in ogni caso non devono avere carattere continuativo, ma eccezionale. Una volontaria ha poi espresso il suo disagio e senso di colpa, perché, dai due servizi, che faceva in una settimana, è passata ad uno solo e, adesso, vorrebbe alternare questo, molto pesante, con uno più leggero, presso un’altra persona, in modo da andare ogni quindici giorni. Si è sentita molto sollevata, quando le ho detto che io avevo fatto lo stesso, senza sensi di colpa, ma pensando che sia sempre necessario trovare un equilibrio tra una situazione di bisogno e la nostra disponibilità. Cristina

11 dicembre 2008

OSCAR e i pensieri

(pag. 18) Diventerai una discarica di vecchi pensieri che puzzano, se non parli.

“I pensieri che non dici sono pensieri che pesano, che si incrostano, che ti opprimono, che immobilizzano, che prendono il posto delle idee nuove e che ti infettano. Diventerai una discarica di vecchi pensieri che puzzano, se non parli.” Questa è la frase completa che accompagna l’invito formulato dalla dama in rosa ad OSCAR affinché avvii un dialogo con Dio. I termini usati dall’autore appaiono molto coloriti e – non tenendo conto che potrebbe trattarsi di una scelta funzionale al racconto - mi verrebbe spontaneo contestarli. O almeno, cosa che faccio, riconsiderarli. Non credo sia questione di possedere un carattere più o meno riservato e non è detto che occorra essere estroversi (chiacchieroni) per produrre sempre nuovi pensieri, anzi, è proprio all’introverso (taciturno) che vengono attribuite maggiori capacità riflessive. Ritengo infatti che un pensiero abbia più probabilità di nascere quando vi è un’area di coltura pronta ad ospitarlo ed il terreno diventa fertile solo se viene curato con pazienza, passione e serietà. Un pensiero ha bisogno di maturare, di legarsi ad altri pensieri, di riaffiorare alla mente per essere analizzato, completato e verificato, in tempi che possono anche essere lunghi. I pensieri nascono dalle esperienze individuali, ma per maturare hanno bisogno del confronto e del dialogo. Tre sono gli strumenti utili al loro arricchimento. Le letture prima di tutto: poiché esse (quelle che contano) nascono da pensieri già elaborati e sedimentati per un tempo adeguato a giustificarne la divulgazione. Il dialogo: meglio se attraverso un ciclo alternato di esposizione e di ascolto, in un gioco che non è a somma zero poiché chi cede non perde mai e chi riceve guadagna sempre. La loro scrittura infine: personale dapprima e pubblica poi. Solo scrivendo si dà corpo al pensiero, in una forma inizialmente grezza, poi ripulita dalle scorie, residuo di pregiudizi e di convenzioni. Rimosse le imperfezioni e le inutilità si può scegliere di condividerli chiudendo così il ciclo del loro formarsi. Tornando alla frase del libro, ritengo che i pensieri che contano debbano pesare, poichè se non pesano si tratta, probabilmente, di sensazioni superficiali, ancora da approfondire: non devono incrostarsi, è vero, ma sedimentare si; mai immobilizzare, ma favorire l’apertura di nuovi orizzonti; opprimere, a volte, se serve a dare la misura della loro rilevanza. In questo modo favoriranno il sorgere di idee nuove (lo spazio non rappresenta certo un problema, vista la bassa percentuale di materia grigia che utilizziamo). E credo proprio che a puzzare siano altre discariche. Gianpietro

9 dicembre 2008

OSCAR e l'accoglienza

(pag. 61) … già che c’erano (i genitori) non avevano che da sostituirmi con un figlioletto nuovo di zecca (a proposito del cambio di un pupazzo malridotto).
(pag. 71) La mia malattia fa parte di me. Non devono (i genitori) comportarsi in modo diverso perché sono malato, o possono amare solo un figlio in buona salute?

Non esiste un unico modo di vivere la genitorialità. Essere genitori è qualcosa che va oltre le dimensioni del partorire e del “fare”. Appartiene alla pura dimensione umana del bisogno dell’essere per “essere felici”. Padri e madri non sono solo produttori di nuove vite, ma condizionatori di altri esseri umani. Allora la genitorialità è dimensione più complessa ed allargata e va intesa come presa in carico di altre debolezze; non solo delle nostre, perché, comunque, anche quelle ci riguardano. Presuppone il passaggio dal preoccuparci di nostro figlio all’occuparci del suo mondo e del suo benessere. Presuppone di trasformare il concetto di “appartenenza” ad una famiglia con quello di “sentirsi parte” di essa; dove il senso di proprietà lascia il posto alla pienezza del poter contare nella condivisione dell’affetto, dinamica che, in genere, nasce solo nei percorsi di accoglienza. E in questo caso l’accoglienza non è riferita a elementi esterni alla nostra famiglia. Spesso i nostri figli sono “nostri” senza essere da noi accolti. Non accogliamo le loro diversità, non accogliamo i loro punti di vista, che generano bisogni così distanti dai nostri, non accogliamo soprattutto ciò che crediamo siano limiti, difetti, fragilità, malattie. Per definizione accolgo un ospite per farlo stare bene, cerco perciò di mettermi in comunicazione con lui, per capire come per fami capire, per farlo stare meglio come per stare meglio. Non accolgo un figlio con lo stesso spirito. L’idea che provenga da me genera un diritto di proprietà divina che sancisce il nostro legame escludendo l’accoglienza. L’accoglienza è riservata agli estranei. Eppure i nostri figli ci sono estranei, ci dovrebbero essere estranei per poterli amare di più. La loro estraneità si acclama soprattutto durante l’adolescenza, ma oggi, sempre più spesso, anche la gestione di semplici regole educative nell’infanzia porta alla rivelazione di un’identità sconosciuta a noi genitori. Pensiamo che debbano ubbidirci per diritto divino, che la nostra volontà di condizionamento passi attraverso l’atto generativo e la gestazione, o attraverso un atto di tribunale. L’accoglienza diventa perciò determinante quando da proprietari dei nostri figli (mio figlio/a) diventiamo genitori dei nostri ragazzi. Il limite fisico causato da una malattia, le difficoltà nell’educare un bambino difficile, gli abusi e le sregolatezze a cui si sottopongono, ci schiaffeggiano pesantemente, ricordandoci non solo che questi ragazzi non ci piacciono, ma che proprio così mio figlio non lo volevo e soprattutto non accetto il cambiamento che in lui è avvenuto al di fuori della mia volontà e del mio controllo. Possiamo allora difenderci e chiuderci all’interno nel nostro bisogno egoistico di sicurezza, oppure possiamo divenire consapevoli di essere stati lo strumento biologico per generare una vita, ma che l’amore, l’affetto, insomma l’essere genitore, passa soprattutto attraverso la conoscenza del suo mondo e di ciò che mi spaventa perché sento appartiene a lui ed a lei, ma non a me. Anche perché le difficoltà manifestate, il problema, la malattia, non riguardano solo me, ma riguardano soprattutto la sua vita, e conseguentemente l’unico modo per farlo stare bene è accoglierla quella vita, con tutte le sue interazioni e le sue contraddizioni, comunicando, condizionando e facendomi condizionare da esse, senza la pretesa di “sostituirlo con uno nuovo di zecca”. Debbo accoglierlo. Per spirito di beneficenza? Per immolarmi su un altare di fatiche pensando ad un premio ultraterreno? Per puro egoismo affettivo? No, perché lui/lei si aspetta che il nostro essere genitori prescinda dai gradi misurati con il termometro. Gianpietro

8 dicembre 2008

OSCAR e i regolamenti

(pag. 52) Dovete soddisfare i pazienti o attenervi al regolamento?
Non so se per indole, sicuramente per formazione professionale, sono portato ad apprezzare, e, quando coinvolto, a rispettare i “regolamenti”. Ritengo infatti che le manifestazioni di ciascun individuo siano il risultato di esperienze, culture, retaggi storici, sociali e familiari unici ed irripetibili. Nei rapporti interpersonali vengono pertanto a confronto sensibilità, stati emotivi, abitudini, chiavi interpretative, pregiudizi, spesso in contrasto con il corrispondente sentire di chi ci sta di fronte. Considerando infine che obiettivi e priorità, il più delle volte, confliggono, dovrebbe apparire evidente la necessità di regole alle quali uniformare i comportamenti, onde rimuovere quante più cause possibili di snervanti e improduttivi contenziosi. Nulla di tutto ciò necessiterebbe se, all’interesse dell’uno, corrispondesse sempre anche il bene dell’altro. Ipotesi questa alla base del miraggio utopico dell’anarchia, vista come unica legge di natura, o quello, parimenti utopico, dell’amore universale, laddove il bene dell’altro fa premio sul proprio. Ma così non è. Ecco allora che “attenersi al regolamento” non dovrebbe essere, nella fattispecie citata nel libro, in antitesi con la “soddisfazione del paziente”, e nemmeno con la “migliore esecuzione del servizio”, o con “il buon clima lavorativo del personale”, ma neppure con “l’efficienza del reparto”, né con la “massimizzazione dei profitti per l’azienda”, ecc … ecc … Emotivamente, alla domanda della dama in rosa, si è portati a confermare che c’è una sola risposta esatta, ma così non credo che sia. Non consideriamo le inefficienze legate alla qualità del servizio (termometri dimenticati tra le lenzuola, carenze igieniche, ritardata somministrazione delle terapie …), sino ai più gravi episodi di malasanità, che nulla hanno a che vedere con il rispetto dei regolamenti, ma basterebbe osservare le ammucchiate di parenti e di amici intorno e sul letto del malato, o l’andirivieni di persone lungo i corridoi impegnate in monologhi al cellulare, dribblando i carrelli delle medicine, o i vassoi dei pasti, per rendersi conto di come questi comportamenti, classificabili come esempi di violazione a semplici norme di buon senso, diventano spunto per diatribe e ripicche. Se poi il regolamento (chiamato, per definizione, a mediare tra differenti esigenze) contiene anche delle “castronerie”, queste vanno, semplicemente, rimosse. Gianpietro

7 dicembre 2008

OSCAR e l'ospedale

(pag. 16) Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire.
Nella quotidianità ci si rivolge all’ospedale nella speranza che chi vi lavora disponga delle conoscenze e degli strumenti idonei a salvarci la vita, allorchè riteniamo che altrimenti, nel mondo esterno, sarebbe in pericolo. Non sempre ciò è possibile ed ecco che allora l’ospedale può diventare il luogo nel quale si muore. Non “ci si va per morire”, non con quella intenzione almeno, ed anzi, quando la morte è prossima, viene talvolta offerta la possibilità che il rito si consumi nell’intimità della famiglia, o in altre strutture appositamente create. L’ospedale tuttavia, con la sua disciplina, costituisce una naturale cornice posta intorno alla morte dell’uomo. Una specie di trampolino di lancio, quasi ad agevolargli il distacco, ma lasciandolo sempre più solo dinanzi alla solitudine suprema. Nessuno dovrebbe essere privato della propria morte, per quanto atroce, dolorosa, o sconcia essa sia. Se ci viene riconosciuto il diritto di scegliere il tipo di vita che più ci aggrada, di decidere con quali esperienze misurarci, a maggior ragione dovrebbe esserci consentito di scegliere, per quanto concesso dalla natura, come affrontare la morte. Morire è l’ultima testimonianza che possiamo dare e non dovrebbe spettare ad alcuno il diritto di giudicare quale mostrare e quale no. Solo chi considera la morte sconveniente, alla stregua delle secrezioni del corpo, può sostenere che morire in pubblico sia indecente. Nasce da questo erroneo pudore il divieto di insegnarla ai giovani e, quando essa giunge, la tentazione di nasconderla, magari dietro il paravento di una stanza d’ospedale. Gianpietro

6 dicembre 2008

OSCAR e la medicina

(pag. 11) Sono diventato un cattivo malato, un malato che impedisce di credere che la medicina sia straordinaria.
(pag. 79) Non è colpa sua (dottore) se è costretto ad annunciare brutte notizie alle persone … non è lei a comandare alla natura. Lei è solo un riparatore.

Per guarire devi metterci anche del tuo. Senza uno sforzo da parte tua, senza un po’ di buona volontà, le medicine da sole non bastano.” Quante volte abbiamo sentito, e a nostra volta ripetuto, questa espressione! Il medico, con la sua scienza, non ha compiuto il miracolo della guarigione, ma la responsabilità finale è anche del malato che non ha saputo combattere con tutte le sue forze, che non ha messo l’impegno necessario per guarire. “Noi abbiamo fatto il possibile, ma lui non ha reagito alle sollecitazioni come ci saremmo aspettati” se vai alla ricerca del responsabile … Ma qualunque insuccesso, anche quelli maggiormente amplificati dai media, non devono farci dimenticare che la medicina è “veramente straordinaria”. Noi, popoli fortunati che la possediamo più di tanti altri, fatichiamo a rendercene conto. Basterebbe scorrere le tabelle sull’aspettativa di vita nelle varie epoche per accorgersi dell’impennata del grafico, assicurata dalle migliorate condizioni igieniche ed alimentari. Basterebbe leggere l’elenco delle malattie una volta incurabili ed oggi trasformate in innocui fastidi stagionali. Basterebbe pensare ai vaccini che hanno debellato virus e batteri fonti di micidiali epidemie solo pochi decenni fa. Ormai non si parla più solo della terza età (divenuto il più corposo serbatoio di consensi elettorali), ma di quarta età, spesso attraversata in condizioni di salute invidiabili.
Forse è proprio la consapevolezza dei successi conseguiti nel campo sanitario che rischia di portare più di un medico a vivere in un delirio di onnipotenza, trasformandolo da semplice “riparatore” in “controllore della natura”. Il dispiacere per un insuccesso può diventare allora causa di patologia se, da utile occasione di riflessione e di crescita, si trasforma in rancore per essere usciti sconfitti dall’impari lotta con la natura, vera madre del nostro corpo. A volte ho il sospetto che ad avere paura della morte, siano, più di chiunque altro, proprio coloro che le vivono accanto per scelta professionale. Un medico ospedaliero, se non ha ancora trasformato in noiosa routine la passeggiata mattutina lungo i corridoi dei degenti, non può non sapere che dentro ogni cartella clinica può celarsi una sentenza che tutto il suo sapere non riuscirà a modificare. Se così non è, c'è allora bisogno di un OSCAR che gli dica: “Non è colpa sua dottore, lei è solo un riparatore … e non tutto è riparabile … almeno per ora.” Gianpietro

5 dicembre 2008

OSCAR e la morte

(pag. 15) Ma perché non mi dicono semplicemente che morirò?
(pag. 16) Facciamo tutti finta di essere immortali dimenticando che la vita è fragile, friabile, effimera.
.
Credo che il segreto stia tutto nell’avverbio “semplicemente”. Visitiamo un ammalato e sappiamo solo inventarci che: “ha una bella cera”, che: “lo troviamo meglio di ieri”, che: “la medicina oggi fa miracoli”, che: “se ne sono viste di peggio”, che: “la speranza è l’ultima a morire”. “Perché rattristarlo, poverino” ci viene rimproverato, come se per esorcizzare la morte bastasse non nominarla. Eppure tutti sanno che moriremo tutti. Non sarebbe più semplice allora andarle incontro conoscendola? Il filosofo greco Epicuro sosteneva: “Il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi poiché quando noi siamo, la morte non c’è, e quando c’è la morte, allora non siamo più. E così essa nulla importa, né ai vivi, né ai morti; perché in quelli non c’è, mentre questi non sono più.” E per il credente, a renderla attraente, si aggiunge la convinzione che solo attraversando quel varco si ottiene la vita eterna. È naturale allora che si giunga ad averne paura se, fin da piccoli, ci viene impedito di parlarne con semplicità e con amore. Fin che la morte ci appare lontana, ci sentiamo dispensati dal pensare a quel che ci attende, e si nutre una mostruosa, perché contro natura e contro ragione, sensibilità per le minime cose e una strana insensibilità per le più grandi. Ci insegnano a vivere come se fosse per sempre, eppure la morte, “nostra sorella morte”, ci è accanto in ogni momento dell’esistenza. Si incomincia a morire nell’attimo stesso in cui si nasce. Le cellule dell’organismo si rigenerano in continuazione, ed il nostro corpo di domani non è più lo stesso che avevamo ieri. A chi il compito del “memento mori”? Non basta certo lo schiavo che segue il cocchio del vincitore, meglio allora sperare in una “dama in rosa” che ci aiuti a capirla ed accettarla, perché sono privi di futuro gli uomini che: “ … non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici.” (Blaise Pascal, Pensieri) Gianpietro

4 dicembre 2008

OSCAR e Dio

(pag. 17) Ogni volta che crederai in Lui esisterà un po’ di più.
Oscar e la dama in rosa” è solo un piccolo libro, ma è anche un ricco concentrato di spunti di riflessione. La frase che dà il titolo a questo post richiama, pur senza citarlo direttamente, uno dei più noti “pensieri” del matematico e filosofo francese Blaise Pascal. La sua provocazione, ricordata come il “pari”, può essere così sintetizzata: “Scommetti su Dio, abbi fede come se Dio esistesse e provvedesse a te in ogni istante. Vivi, lavora e prega come se Dio operasse ora nella tua vita e vedrai che, nel tempo otterrai la fede.” (ed è quello che la dama in rosa suggerisce ad Oscar). Visti gli scarsi risultati ottenuti da quanti cercavano di dimostrare l’esistenza di Dio, questa scommessa vuole convincere coloro che non hanno la fede con una semplice considerazione di convenienza. Meglio credere in Dio perché poi, nel caso ci sia un aldilà avremo la vita eterna. In caso contrario abbiamo sprecato una vita il cui valore è pari a zero. Sembra una proposta intelligente. Se l’obiettivo di Pascal era quello di scuotere l’uomo dall’indifferenza, invitandolo a cominciare un cammino, a decidere di “prendere partito” scrollandosi di dosso l’ignavia, allora l’esortazione a vivere almeno nell’orizzonte del problema di Dio è condivisibile. Se invece si analizza il pensiero di Pascal sul piano strettamente matematico, ci si accorge che esso non regge. Il “pari” può essere letto infatti anche così: “Dio è una promessa infinita di felicità. Ad un gioco nel quale si punta un bene o una somma di beni finiti per avere in cambio un bene infinito conviene partecipare, purché la probabilità di vincita sia essa stessa un numero finito.” Secondo Pascal dinanzi all’infinito promesso, la vita da scommettere non può valere che nulla “… vedrete tanta certezza di guadagno e tanta nullità in ciò che rischiate …”, “ … se vincete, guadagnate tutto, e se perdete, non perdete niente: scommettete dunque, senza esitare, che egli esiste ...” Ma se la vita non vale nulla allora non c’è nulla da scommettere. La scommessa infatti è davvero conveniente solo se quel che si punta è pari a nulla, ma se è pari a nulla non si tratta affatto di una scommessa. Nessuno tuttavia attribuirebbe valore nullo alla propria vita, come Pascal pretenderebbe, se non confidasse già in partenza nell’altra vita. Costui dunque non scommetterebbe affatto perché crederebbe già. La scommessa è cioè una cartina di tornasole: rivela a chi è disposto a scommettere che è per ciò stesso un credente; e a chi non è disposto, perché per lui la vita è tutto e non c’è probabilità di un’altra vita che possa essere più grande del tutto della vita terrena, che è un non credente. Lungi dall’essere un gioco decisivo, la scommessa mostra quello che si è già deciso. In conclusione fare come se Dio ci fosse riesce davvero solo a chi già crede che c’è. Gianpietro

2 dicembre 2008

OSCAR e la scrittura

(pag. 9) Scrivere è soltanto una bugia che abbellisce la realtà, una cosa da adulti.

Nel racconto, l’espressione è collegata alla descrizione “edulcorata” che Oscar fa del proprio aspetto fisico, contrapposta all’immagine reale. Gli adulti ricorrono spesso a questa finzione, i ragazzi, dovrei dire i bambini, risultano meno condizionati. Loro, fortunatamente, sanno ancora gridare “Il re è nudo!”. Una volta adulti diventiamo invece molto attenti ai termini che adoperiamo giustificandone la scelta con il desiderio di non ferire, di non risultare troppo crudi, o, più semplicemente, per esorcizzare la paura di vederci respinti. Essere almeno “obiettivi” nello scrivere, assunto che l’oggettività è un ossimoro stante l’incompatibilità con la posizione di soggetto scrivente, è compito arduo, ma non impossibile. A bene osservare non sempre ci avvaliamo delle parole per “abbellire” la realtà. Al contrario, spesso, ci capita di usare delle lenti molto scure, specie quando le teniamo appoggiate su un cuore turbato o stanco. In quei momenti, se raccontiamo delle “bugie”, si tratta, il più delle volte, di mezze verità. O almeno tali ci appaiono. Gianpietro

Il presepe vuoto

Siamo di nuovo in Avvento, anche se molti dicono che questa festa non significa più tanto nemmeno per i cristiani, che sembrano non aspettare più niente, come tutti gli altri. Sabato, sono andata alla festa annuale dei volontari della Caritas, festa alla quale mancavano stranamente i poveri. A questa considerazione e alla mia proposta di una maggior condivisione con questi nostri fratelli, una signora ha obiettato che questo li metterebbe in imbarazzo. Sono sempre tanti i motivi per i quali resto un po’ delusa nelle mie aspettative; poi ci sono, invece, dei periodi in cui, quando meno me lo aspetto, tutti sembrano cambiare idea e fare quello che ho sempre desiderato. Questa settimana è incominciata molto bene, con il perdono, molto atteso, da parte di una persona che avevo trattato con molta durezza. Poi, mi ha telefonato la referente EmmauS, della zona in cui abita la persona da cui vado per il servizio, invitandomi ad un incontro con gli altri volontari: era tanto che attendevo questo invito e avevo finito per rassegnarmi che non sarebbe mai stato possibile. Poi è successo qualcosa di brutto, perché mia madre si è sentita molto male; però nel pomeriggio che io e mio fratello abbiamo passato vicino a lei, facendoci coraggio a vicenda e affrontando con molta cura la situazione, ho pensato a quanto siano cambiati i nostri rapporti familiari e a quanto siano migliori rispetto ad un tempo. Per finire queste mie riflessioni d'Avvento, credo proprio che se, a volte, smettiamo di sperare, è perché in questo presepe che è la nostra vita, siamo noi, per primi, ad avere escluso tante persone e che l’unica felicità che dobbiamo attendere, sia quella di vederle prima o poi tornare a prendere il loro posto accanto a noi. Cristina

1 dicembre 2008

Il silenzio non significa indifferenza

Questa mia vuole essere un’ammenda pubblica rivolta a tutti coloro che hanno scritto e che scrivono sul blog e verso Gianpietro che ha sempre dimostrato professionalità e costanza nel non mollare la presa, degne di un encomio particolare. Pensando a tutti voi e leggendovi, pur nelle diversità dei vostri testi, mi sento orgoglioso di appartenere a Emmaus. Lo so, tre pugni sul petto non bastano per farmi perdonare per il passato, per il presente e per il futuro di non scrittore sul blog. Ma ho apprezzato moltissimo gli interventi che ho letto e le iniziative che sono state proposte da Cristina e da Patrizia. Tanto che meritano di essere divulgate con ogni mezzo a nostra disposizione come ad esempio al prossimo staff delle referenti, con un “volantino proposta” da mettere sul sito, alla prossima assemblea ecc. Non dovete lasciarvi scoraggiare dal tempo che scorre vuoto dalla proposta. Per i risultati occorre avere l’umiltà dell’esercizio della pazienza. Perché “la pazienza è la virtù più grande”. Detta dai latini “maxima enim, patienta virtus”. Forse alcuni di voi me l’hanno già sentita dire: Edison prima di avere successo con la lampadina fece 1.500 esperimenti!! Andrea

30 novembre 2008

verbale, non verbale

Il caso assegnatomi presenta caratteristiche particolari. La persona che assisto non é in grado di parlare, non comunica ed é difficile sapere quanto possa comprendere ciò che gli dici. L’impossibilità di un’interazione verbale crea una situazione molto specifica sul piano comunicativo. I miei rapporti con le persone hanno sempre fatto leva sulla comunicazione verbale, più che su quella non verbale. E’ attraverso lo strumento del linguaggio che, anche per mia formazione, ho sempre gestito le relazioni, i rapporti con le persone. I miei pensieri e i pensieri dell’altro, hanno sempre trovato nel linguaggio la possibilità di esprimersi, di confrontarsi, di arrivare a delle sintesi condivise, anche in situazioni molto difficili. Questa impossibilità di dialogare, ha costituito per me, da subito, un problema non indifferente. Parlare senza avere un ritorno, un feedback della comprensione e della significatività di quanto hai detto, ti mette in una condizione psicologica d’incertezza e di disagio. L’unica reazione del mio interlocutore é il sorriso, che, di per sé, non significa che abbia compreso quanto gli hai detto. Ma c’é un elemento molto importante, a mio parere, da tenere in considerazione: cioè il fatto che mentre gli parli, lui ti guarda negli occhi e sembra ti ascolti. Infatti, per tutto il tempo in cui gli stai parlando, lui continua a stare attento, a guardarti senza mai distrarsi o voltarsi altrove. Dopo il disagio iniziale, ho cominciato a prendere in considerazione questi aspetti. E’ il suo atteggiamento non verbale, infatti, che ora mi motiva a comunicare con lui. Questo, in un qualche modo, mi basta, o me lo faccio bastare. E’ difficile superare l’idea, che da una vita mi porto dietro, che la comunicazione verbale é lo strumento fondamentale nella relazione d’aiuto. Qualche carezza sulle guance e sulla fronte, ho la sensazione che possa essere gradita. E questo mi motiva a farlo. Inoltre, per come sono fatto io, ho sempre avuto bisogno di assegnare e di trovare un senso in ciò che facevo, a come utilizzavo il tempo. Non dico di aver risolto questo problema, di aver modificato completamente questo aspetto, ma questa esperienza mi ha fatto riflettere sulla classica frase “il tempo é denaro”. Se il tempo lo vivi sempre in questa dimensione, le conseguenze sono negative per te e per gli altri. E’ abbastanza semplice da capire, ma é l’esperienza diretta che trasforma i concetti in vissuto. E’ strano, ma stare con il mio assistito, paradossalmente, vuol dire privilegiare il rapporto con le persone, in una situazione apparentemente senza rapporto. E così, quando sono con lui, non ci sono altre interferenze e mi rapporto considerando l’esistenza di una sua ricettività. Ma se anche qualche volta il dubbio ritorna, ora il senso del rapporto non ne risente ed io sono sereno e convinto di spendere bene il tempo a lui dedicato. Pino

3 novembre 2008

Memorie

Quest’anno, per la prima volta, mi sono dedicata alla cura delle tombe di famiglia, occupazione che finora era stata di mia madre. E’ stata l’occasione per una piccola ricerca sulle mie radici, in quanto le mie conoscenze non andavano oltre la generazione dei nonni, che ho conosciuto. Questa cosa ha stimolato anche la mia curiosità di conoscere meglio le persone che ho incontrato negli ultimi anni, per il servizio che svolgo, soprattutto all’hospice, e che sono morte. Alcune di queste ci hanno lasciato delle memorie: diari, quadri, sculture, album fotografici, libri della loro biblioteca, che recano ancora la dedica affettuosa di qualcuno. Sabato pomeriggio, mi sono messa a leggere un diario, pubblicato da una piccola e sconosciuta casa editrice, dove una signora, che è stata ospite di questa casa, scriveva della sua vita difficile, di emigrante in Svizzera, alla fine della guerra, poi delle sue battaglie politiche, e dei suoi viaggi. Ho riflettuto sul fatto che, piuttosto spesso, quando incontriamo, per la prima volta, persone ammalate, tendiamo ad identificarle con la loro malattia, considerandole un gruppo omogeneo. Parlando, diciamo: gli "oncologici", i "depressi", gli "psichici", ma tutti questi ammalati hanno alle spalle storie molto diverse tra loro e, talvolta, anche culture, che sarebbe interessante conoscere: la loro esperienza di vita è un dono che ci fanno, anche a nome di quelli che non hanno voce per farlo. Cristina

28 ottobre 2008

C'è un muro del pianto

Una sera alla settimana, svolgo un piccolo servizio in una cappella dedicata alla preghiera continua. Una giovane donna, inginocchiata, piange silenziosamente. Non è una scena inconsueta, in questo luogo. Eppure stride, in modo particolare, con il resto della mia giornata, e mi fa pensare ad una citazione di Elias Canetti, che ho letto oggi su un quotidiano, riportata dalla scrittrice Laura Bosio: «C'è un muro del pianto dell'umanità, e io gli sto accanto». Nel pomeriggio, con alcune amiche, sono andata alla conferenza di uno scrittore israeliano e, alla fine, ci siamo ritrovate, con alcuni conoscenti, nel foyer del teatro, a commentare l’incontro. Hanno incominciato tutti a discutere animatamente e rabbiosamente, dicendone di tutti i colori, tirando fuori questioni politiche fuori tema, mettendo addirittura in bocca a questo scrittore inesattezze letterarie e storiche, che lui non si era mai sognato di dire, e pur parlando un inglese molto chiaro e comprensibile. Uscendo, ci siamo imbattute in un gruppo di studenti universitari, e una mia amica, che era stata la loro insegnante al liceo, ha ricordato loro lo sciopero generale, pur senza sapere bene di cosa si trattasse, e che cosa questo sciopero, esattamente, rivendicasse, quando le ho posto questa domanda. Buona parte della nostra giornata, anche sul lavoro, si svolge così: tra liti, sterili discussioni e rivendicazioni. Poi, ogni tanto, accade qualcosa, nella nostra vita, che blocca tutto questo chiasso, e ci fa stare così, in silenzio, a piangere sommessamente, e ci rendiamo conto che di tutto quello per cui abbiamo litigato, discusso, gridato non ci importava poi granché. Cristina

24 ottobre 2008

Il "care-giver"

Ieri sera ho partecipato ad una riunione, dove un "counsellor" spiegava ai volontari del "front office" come accogliere i "care-givers". Se c'è una cosa che mi manda in confusione è ascoltare due lingue contemporaneamente: sembra che il mio sistema neurologico non abbia la flessibilità necessaria per passare velocemente da una all'altra. E' pur vero, però, quello che hanno risposto alla mia obiezione: alcuni termini non sono facilmente traducibili. Il "care-giver" ha assunto la funzione del familiare, nel momento in cui la famiglia ha cessato di essere un nucleo sociale autosufficiente. Quando ho iniziato ad andare a scuola, venivo accompagnata dalla nonna paterna, mentre una zia materna, non sposata, si prendeva cura dell'altra nonna, invalida. Quando la zia materna e la nonna paterna si ammalarono, a loro volta, in casa non c'era più nessuno che si occupasse di loro. Da qui, la necessità di un aiuto esterno, al di fuori della famiglia: vicini di casa, assistenti domiciliari, volontari, insieme ai familiari, quando ci sono, formano la categoria dei "care-givers", letteralmente "quelli che si prendono cura". Dalla persona da cui vado per il servizio EmmauS, i "care-givers" sono dodici, di cui dieci esterni alla famiglia; si prendono cura dell'ammalato per il trenta per cento delle ore in cui è sveglio, ma non si conoscono tra di loro. Io penso sia piuttosto utile, per il volontario, avere una visione dell'insieme delle risorse che si occupano della persona che gli viene affidata, soprattutto nella circostanza in cui non ci sia una famiglia che vive con l'ammalato. La prima persona che mi venne affidata viveva da sola, e i vicini di casa furono una risorsa straordinaria, in un momento di crisi personale; poi l'ammalata venne ricoverata in una struttura, e quando morì, non pensai ad avvertire i vicini, i quali mi telefonarono, dopo alcuni mesi, dispiaciuti per essere stati così ingiustamente negletti. Cristina

23 ottobre 2008

La gratitudine

Guardo stupita il mendicante che mi ringrazia e mi benedice, per avergli dato qualche moneta: la gratitudine è qualcosa che oggi non siamo più abituati né a dare, né a ricevere, essendo diventati tutti piuttosto rivendicativi. Si va in chiesa, luogo per eccellenza del rendimento di grazie, per ricevere invece un servizio: essere ascoltati, se non da Dio, almeno dal parroco. Se il servizio non è all’altezza delle nostre aspettative, ci lamentiamo, dimenticando che la Chiesa è il popolo di Dio, e quindi siamo tutti noi. Anche il nostro far parte di un’associazione di volontariato manca spesso della consapevolezza che siamo noi, a dare contenuto e sostanza a questa organizzazione, e anziché lamentarci che il trattamento che riceviamo non è quello che avremmo desiderato, dovremmo contribuire a renderlo migliore, se necessario, compensando le mancanze che abbiamo creduto di trovare. Anni fa, ho lavorato per una società americana che ha lasciato a casa tutti i dipendenti, per spostare la produzione in oriente. Poi, questa società ha riaperto, grazie ad un’operazione finanziaria complicata, all'intelligenza di un anziano imprenditore, che ha creduto e investito in questa azienda, e all’opera instancabile di una sindacalista straordinaria, che è riuscita ad avere il supporto di tutte le risorse del territorio. A nessuno dei lavoratori che hanno ripreso il lavoro, è mai venuto in mente di ringraziare qualcuno, tanto meno l’imprenditore, di cui oggi si parla soltanto come di uno che è riuscito a fare un grande affare. E’ pur vero che l’interesse personale determina gran parte delle nostre azioni, ed è quindi legittimo pensare che, mancando questo, nessuno muoverebbe un dito, ma invece di pensare sempre al vantaggio che il nostro prossimo può ottenere da una buona azione, io penso che ringraziare sia una bella consuetudine, che ci abitua, se non altro, a non dare sempre tutto per scontato. Cristina

21 ottobre 2008

Oscar e la dama in rosa

Come primo libro per il nostro book club, avevo pensato a Oscar e la dama in rosa di Eric-Emmanuel Schmitt. Il breve romanzo si svolge durante gli ultimi tredici giorni di vita di un bambino di dieci anni malato di leucemia, Oscar, e la dama in rosa del titolo è un’anziana volontaria dell’ospedale, in camice rosa, che rappresenta per il bambino l’unico interlocutore in grado di dare un significato alla fase finale della sua vita, perché sia i genitori, annichiliti dal dolore, sia i medici, delusi dalla loro stessa impotenza, evitano di parlare sinceramente con lui, impedendo ogni spontaneità di rapporto. Per vedere se questa idea del book club funziona, propongo di fare una piccola prova: a chi ne facesse richiesta, all’indirizzo e-mail che Gianpietro ha fornito, sulla pagina iniziale di questo blog, invierò gratuitamente questo libro, corredato anche di un CD audio, con la voce di Paola Gassmann, così chi preferisce potrà ascoltare, invece di leggere il libro. Ai lettori verrà solo richiesto il piccolo impegno di mettere una breve riflessione o commento a questo post, sulle emozioni che questa lettura avrà suscitato. Cristina

book club

Nei giorni scorsi Cristina, in uno scambio di messaggi al di fuori del blog, ha ipotizzato la creazione di un “book club” all’interno di EmmauS. Si sceglie un libro, lo si legge e ad una data prefissata ci si incontra per parlarne. Un salotto letterario, magari alla buona, aperto a chiunque fosse interessato. Un differente sviluppo del progetto di scrittura (lettura) emotiva avviato 18 mesi fa e che non sembra aver trovato nel blog la prosecuzione che ci si aspettava. Stupidamente, lo riconosco, ho subito pensato a tutte le controindicazioni di una simile proposta e le ho snocciolate a Cristina senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità che a qualcuno l’idea potesse interessare. Ma Cristina è una persona tenace, molto tenace ed alla mia domanda: “Ma tu ci credi, veramente?” ha risposto: “Quello che mi appassiona è la sfida di creare un po’ di fraternità all’interno di questo gruppo … per me è come diceva uno scrittore ebreo – se non hai fede, vivi come se ci credessi, la fede verrà dopo -.” Mi ha convinto: “… non scartiamo l’idea già in partenza, pensiamoci almeno come ad una possibilità …” (sono sempre parole sue). Lasciatemi tuttavia un’ultima perplessità: se leggere e scrivere sul blog è fatica … Gianpietro

14 ottobre 2008

La domanda

Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle”. Nel suo libro “C’è nessuno?”, lo scrittore norvegese Jostein Gaarder, sostiene che una risposta, per quanto intelligente e giusta ci possa sembrare, non merita mai un inchino. La domanda, invece, punta avanti, apre un futuro, mette in moto la nostra vita, impedisce che ci addormentiamo, che ci chiudiamo in noi stessi. Sulla base di queste considerazioni, ho ripensato un po’ alle nostre piccole discussioni, su alcuni temi trattati in questo blog, come il senso della vita o la speranza, ma anche molti altri, come la domanda che siamo soliti fare di fronte alla sofferenza, sempre la stessa: “Dov’è Dio?”. E Dio sembra rispondere, con un’altra domanda: “Dov’è l’uomo?” o “Dove sei tu?”, gettando un seme nel nostro cuore, che ci muove, ci esorta a fare qualcosa per gli altri e anche per noi stessi. La domanda apre nella nostra vita una possibilità, ma noi siamo sempre invece portati a pensare che una risposta ci aiuterebbe a vivere meglio, e spesso ci accontentiamo di risposte facili, che ci danno l'illusione di un sollievo temporaneo, ma poi spengono in noi il gusto per la vita, che sta sempre più nel desiderare (e la domanda è un desiderio), che nel realizzare. Cristina

13 ottobre 2008

Il linguaggio camaleontico

Entrando in casa, sento mio fratello che parla a voce molto alta, scandendo bene tutte le sillabe: è il suo modo di comunicare con le persone molto anziane, incurante del fatto che mia madre abbia un apparecchio acustico, e sia perfettamente in grado di seguire qualunque tipo di conversazione. Lui e la moglie hanno avuto una discendenza molto prolifica e, di conseguenza, in casa loro, c’è sempre qualche bambino che incomincia a parlare: loro ne imitano le voci, emettendo dei suoni ridicoli e incomprensibili, per i quali, in presenza di estranei, io e mia madre ci vergogniamo sempre molto. Per lavoro, mio fratello tiene talvolta delle conferenze stampa in due lingue, e in queste circostanze usa un terzo lessico, completamente diverso dai primi due. Purtroppo, non è il solo ad usare questo linguaggio camaleontico per comunicare. Da una stessa associazione, ricevo in regalo due periodici: una rivista molto bella, con la copertina patinata, articoli scritti con un linguaggio tecnico e professionale, che si vende nelle librerie e viene inviata, in abbonamento, a lettori selezionati, e un giornalino molto modesto, i cui articoli sono scritti usando un linguaggio zuccheroso, che si suppone piaccia molto ai volontari, ai quali è rivolto. Per me il linguaggio deve essere uno solo, e prendere come base la capacità di comprensione di un ragazzo di dodici anni, che frequenti la scuola media. Non credo esista argomento che non possa essere trattato usando un linguaggio semplice, comprensibile a tutti. Cristina

9 ottobre 2008

La reciprocità

Anche il linguaggio spirituale si rinnova. Quando ho iniziato a fare volontariato, si parlava molto di gratuità. Non c'era riunione, corso, dibattito, in cui questo tema non venisse ampiamente trattato. Veniva anche richiesta un'attenzione particolare, per evitare la tentazione di cercare forme più nascoste di ricompensa, in quello che si faceva. Se ne è tanto parlato e discusso, che ad un certo punto si è anche cominciato a vedere i limiti di un atteggiamento unilaterale, che finisce per sottovalutare il nostro prossimo, come se non fosse in grado di capire, prima o poi, che stiamo facendo una fatica per lui. A dire il vero, molte persone, anche di cultura, continuano a rimanere in questa logica, un po' nichilista, della gratuità, per cui vale solo quello che fai a perdere, e non devi aspettarti, né pretendere nulla. Altre, invece, preferiscono, adesso, parlare di reciprocità, atteggiamento che riconosce all'altro la dignità di avere qualcosa da offrire in cambio, anche se la ricompensa non è sempre immediata, almeno nella circostanza di chi ha rapporti inusuali con situazioni che non sono immediatamente condivisibili. Si apre un gesto di bontà, di generosità, e non è detto che sia ricambiato subito: rimane uno spazio di attesa, che ha bisogno di essere attraversato, anche con fatica, perché la reciprocità ha bisogna di libertà, per cui il riconoscimento può non esserci subito, ma è comunque lecito aspettarselo. Penso che questo atteggiamento sia molto simile a quello di un padre e una madre, che danno una buona educazione al figlio, e se anche questo, soprattutto se si trova nel periodo della ribellione adolescenziale, non lo riconosce subito, prima o poi se ne vedranno i frutti. Cristina

8 ottobre 2008

Esiste davvero l'umiltà?

La parola “servizio” non ci deve trarre in inganno, perché, anche se usiamo spesso questa parola, dell’umiltà del servo a noi non è rimasto niente. La mia prima referente EmmauS era la moglie di un medico importante; lei stessa si era molto distinta come crocerossina, ai tempi in cui questa era l’attività delle ragazze di buona famiglia e, nonostante i numerosi figli e impegni familiari, continuò fino all’ultimo a fare volontariato. Il primo caso che mi venne affidato era complesso, e richiedeva che si facessero degli incontri tra il medico, l’assistente sociale, il volontario e questa referente che, ricordo, si indignava molto, quando qualcuno in quelle riunioni, riferendosi a lei in terza persona, usava il suo nome di battesimo, anziché il cognome del marito, preceduto dal rispettoso appellativo di signora. Mi stupiva inoltre notare come, all’assistita, lei si rivolgesse con il tu, e questa, invece, le rispondesse usando il lei. Dopo alcuni incontri, io ho accolto con molto piacere la proposta della mia assistita di passare al tu reciproco. Tra colleghi volontari, poi, mi è sempre sembrata ben accetta la spontaneità di un tu, che mostrasse di andare un po’ verso quella fraternità, alla quale tutti diciamo sempre di aspirare, ma che poi non riusciamo mai a realizzare. Vengo invece a sapere, da un incontro con un’esperta di organizzazione, che si occupa in modo specifico della organizzazione delle associazioni di volontariato e delle cooperative, che il tu deve essere di nuovo bandito: ci ha esortato a smetterla con questa familiarità da compagni di scuola. Qualche giorno fa, mi sono rivolta con il tu ad una psicologa dell’hospice, che vedo da un po' di tempo, ma, in effetti, non conosco molto bene. Lei mi ha guardato stupita e, andandosene, mi ha salutato rimarcando bene l’appellativo di signora, e da allora la chiamo rispettosamente dottoressa. Nell’azienda in cui lavoro, i titoli vennero rigorosamente vietati dieci anni fa, venne addirittura distribuita una circolare a questo proposito, perché un nuovo e importante partner americano esigeva che i rapporti fossero meno formali; in realtà, i ruoli rimasero ben distinti, ma devo ammettere che i rapporti sono notevolmente migliorati, e si lavora, con qualche eccezione, in un clima di maggior distensione. Per concludere un po’ questo discorso, penso che la società cambi spesso idea su questa materia, a volte anche sulla base un po' superficiale delle mode, ma per il volontario debba valere la regola del buon senso e della buona educazione, lasciando sempre che sia l’altro a decidere sull’aspetto formale della relazione. Cristina

6 ottobre 2008

danza lenta

Oggi abbiamo ripreso contatto con la danza. A dire il vero si è trattato solo di fare la conoscenza con una nuova istruttrice e riabituare i nostri corpi ad occupare tutti gli spazi della palestra. È stata un’esperienza ricca di emozioni e che tutti i ragazzi della comunità hanno vissuto mostrando una disciplina insperata. Di certo siamo stati agevolati dal favorevole rapporto numerico tra accompagnatori e ragazzi, ma era facile leggere nei loro sguardi la sorpresa per una dolcezza tanto gradita quanto inaspettata. Esercizi condotti con lentezza, basati in prevalenza sulla ricerca del contatto con il parquet, sul riconoscimento delle parti del proprio corpo, prese singolarmente e guidate in movimenti che facessero giungere al cervello segnali positivi. Pratiche rilassanti, ma al contempo ricche di contenuti; esercizi preparatori, forse, sicuramente un approccio al quale nessuno si è sottratto, anche chi, di solito, non esita a mostrare segni di insofferenza se non vuole farsi coinvolgere. Come ho già avuto modo di scrivere (vedi post: oltre l’opportunità) tutti possono, se ben guidati, godere della stessa sensazione di pienezza e di perfezione che, sicuramente, deve avere accompagnato la ballerina dell’immagine che ho scelto. Questo potrà avvenire anche eseguendo la semplice rotazione di un arto, accompagnando il gesto con l’espressione del volto scelta tra tante e appositamente studiata. E questo tutti, noi e loro, possiamo farlo. Riuscirci sarà: “una terapia differente, che nessun medico ha prescritto ed i cui risultati nessuno potrà avvalorare”. Quello di oggi è stato un servizio di volontariato del quale ho beneficiato anch’io. Gianpietro

Livore

Sono nella sala di attesa della divisione di medicina nucleare dell’ospedale, dove ho accompagnato una persona per una scintigrafia. Entra una famiglia di tre persone, di cui due, un uomo e una donna, accompagnano una signora obesa, su una sedia a rotelle, ma poi devono portare la sedia fuori, e la signora, che cammina, anche se con un po’ di fatica, raggiunge la sedia con le stampelle, imprecando per questo. Quello che sembra essere il marito, viene informato che tra l’iniezione e la scintigrafia, ci saranno due ore di attesa, e lui bestemmia a voce alta. La donna che l’accompagna va all’accettazione e le viene trattenuto l’originale di un documento in cinque copie. Viene nella sala d’attesa e informa la signora, che deve essere sottoposta all’esame, che la (e qui usa un epiteto irripetibile), ha trattenuto l’originale che, secondo lei, doveva servire per produrre una certificazione. Ieri sera, per un certo servizio di volontariato che faccio la domenica sera, ho dato le dimissioni, per i modi poco cortesi di un'infermiera, a causa di quella che lei sosteneva essere stata una mia negligenza. Poi, naturalmente, ci ho ripensato e questa mattina ho ritirato le dimissioni. In questo, però dissento un po’ da Gianpietro, quando si mostra più comprensivo di me verso la rabbia di chi pensa di avere subito un torto: per me nessuna situazione è tale da giustificare modi aggressivi verso il prossimo, nemmeno quando si ha ragione. Cristina

5 ottobre 2008

Distanze

Mi è capitata tra le mani una pubblicazione di EmmauS del 1999, frutto di una giornata di studio tra gli associati, con la presenza di vari esperti a diverso titolo. Ho trovato molto interessante conoscere un po' di più questa associazione, di cui faccio parte da molti anni, senza molti contatti, limitandomi a svolgere il servizio che mi hanno affidato. Una cosa che non sapevo, è che i gruppi si formano all'interno della parrocchia, ed essendo così presenti sul territorio nel quale agiscono, hanno più possibilità di conoscere il bisogno. Le comunità parrocchiali mi hanno sempre attratto, come un oscuro e irraggiungibile oggetto del desiderio, e ho sempre invidiato molto la fraternità che mi ispirano, una fraternità forse a volte un po' litigiosa, come in tutte le famiglie, ma non per questo meno attraente. La mia unica esperienza parrocchiale è piuttosto recente ed è stata un clamoroso insuccesso. Mi ero avvicinata con molto entusiamo, mettendoci un grande impegno, e ne ero anche stata ricambiata con affetto e fiducia a tal punto che, dopo poco, mi avevano persino eletta nel consiglio pastorale di quella parrocchia. Trovavo, però, quelle riunioni un po' noiose, ripetevano sempre le stesse cose, e cose, a mio avviso, di nessuna importanza. Per me c'erano questioni ben più importanti, molto più urgenti, in un cammino di fede, e la comunità stessa faceva molta pressione perché su certi punti si facesse chiarezza, per capire meglio dove stavamo andando. Alcuni mi chiesero di portare al consiglio i loro dubbi, le loro perplessità, sostenevano che io avessi la lealtà, la franchezza e i modi giusti per farlo. Il mio intervento fu pacato, corretto sotto l'aspetto dottrinale, rispettoso dal punto di vista umano, sicuramente disinteressato sotto l'aspetto dei vantaggi personali, e sincero. Tutto questo non venne apprezzato, non fu mai perdonato e, soprattutto, nessuno mi chiese di restare. Cristina

4 ottobre 2008

dipendenza e motivazione

In questo blog abbiamo toccato più volte il tema della “dipendenza” (senza alcun riferimento alle sostanze!) e, collegato a questo, il tema della “motivazione”. Chi assiste un malato grave, o un disabile non autosufficiente, finisce, inevitabilmente, con il trovarsi stretto nella morsa di questi due sostantivi. Ed è chiamato a compiere delle scelte. Quando nel percorso della propria esistenza una persona si trova a “dipendere” totalmente dagli altri, e non in senso metaforico, ecco che appare denudato ed alla mercé del prossimo, finendo vittima, a volte, dell’ignoranza, della burocrazia, dell’ottusità di chi non li vede come persone bisognose, ma come oggetti, da gestire con il minimo dispendio di energie. Ed è facile trovarsi di fronte a porte sbarrate. Farsene carico richiede allora una “motivazione” che può esprimersi a differenti livelli. Al gradino più basso della scala pongo il servizio del volontario. Un impegno limitato a poche ore, praticamente privo di responsabilità, tutelato da una struttura collaudata e nella consapevolezza di poter contare su comode vie di fuga. Poco più sopra vi sono i servizi. Quelle strutture, mobili o permanenti, che hanno la loro ragion d’essere proprio nel venire incontro ai bisogni fisici e psicologici di chi è “dipendente”. Tra questi non mancano persone che sanno andare oltre la semplice routine professionale, ma è già motivo di soddisfazione incontrare chi si limita a svolgere con correttezza il proprio compito. Nella parte alta della scala pongo i componenti il nucleo familiare che ruota intorno al malato/disabile. Sono persone che si sentono investite di un compito (spesso codificato dalle norme, o dalle consuetudini): persone che si fanno carico dei problemi quotidiani, per tutto il tempo che serve e garantendo forme di tutela senza le quali risulterebbe a rischio la sopravvivenza stessa della persona “dipendente”. Nessuno meglio di loro sa dare il giusto valore a gesti che, tanta è l'abitudine, non prendiamo nemmeno in considerazione. Piccole azioni che ci appaiono normali, in quel contesto possono risultare di vitale importanza. E se in certi momenti lasciano che rabbia e rancore esplodano di fronte all’indifferenza, o al menefreghismo, ne hanno ben d’onde. Solo chi, momento dopo momento, si confronta con le problematiche legate all’assistenza di un malato, sa che non potrà mai abbassare la guardia, non dovrà mai passare sopra quelli che riconosce come dei torti fatti a chi non può difendersi, anche se questo può significare mettere in gioco la propria immagine. Non tutti sono capaci di farlo e chi si tira in disparte non va giudicato, ma chi riesce a trovare questa “motivazione” merita tutto il nostro rispetto. Gianpietro

3 ottobre 2008

Essere e non essere

Nell’azienda in cui lavoro, la chiamiamo Nicole, ma non è il suo vero nome. E’ una giovane operaia di nazionalità marocchina, il cui padre è già stato arrestato diverse volte per spaccio di droga, e il fratello è in carcere per avere accoltellato uno. Il caporeparto, di nazionalità tunisina, l’ha rimproverata per una sua inefficienza, e lei lo ha aggredito, graffiandolo a sangue. Poi, ha preso una spranga di ferro, è uscita e gli ha distrutto la macchina, sfondando il cofano, e rompendo il vetro in mille pezzi. Davanti al direttore di produzione, ha detto al caporeparto che il padre lo avrebbe ucciso. Il caporeparto è andato alla polizia a sporgere denuncia, e il poliziotto di turno gli ha chiesto perché gli stranieri non siano capaci di regolare da soli le loro questioni. Sono due giorni che il caporeparto non torna a casa perché, la notte stessa, in cui è accaduto questo fatto, il padre della ragazza gli ha telefonato, minacciandolo di morte. I colleghi italiani, commentando la vicenda, dicono tutti di non essere come questi stranieri, sempre pronti a menare le mani; dicono anche, di non essere razzisti; ma che cosa siamo, veramente, di fronte a questi fatti, nessuno lo dice. Ho notato, da tempo, che il nostro linguaggio è cambiato: le persone, almeno qui dove lavoro, dicono spesso di non essere qualcuno, ma è molto raro che dicano quello che sono veramente. Nel periodo delle elezioni, si intuisce che molti sono schierati a sinistra, ma si preoccupano sempre di affermare più la loro avversione nei confronti dello schieramento opposto, che di dire cosa veramente sono, quale persona sostengono, o quale progetto politico approvano. Io penso che questa incertezza nel dire chi siamo, sia certamente dovuta al fatto che non vogliamo assumerci le responsabilità che il dichiarare di essere qualcuno implica, ma sia anche un sintomo della nostra confusione sociale, perché oggi è come se ci trovassimo in mezzo ad un guado: da una parte, abbiamo la società del passato, certamente sbagliata, dove però ognuno sapeva esattamente chi era e conosceva il proprio ruolo; sull’altra riva, abbiamo la società ideale, dove gli uomini vivono in pace, fraternità e uguaglianza, società che però nessuno oramai crede più di poter realizzare: e noi siamo qui in mezzo e, a volte, non riusciamo nemmeno più a dire chi siamo. Cristina

27 settembre 2008

Le famiglie infelici

"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo". Così comincia il romanzo di Lev Tolstoi, "Anna Karenina". Un volontario, che conosco da molto tempo, mi ha chiesto di sostituirlo, temporaneamente, nel servizio a domicilio. Mi aveva già parlato di questa famiglia dove, al problema già grave di un ammalato in casa, si è aggiunto quello di un familiare, sul quale grava maggiormente il carico dell'assistenza, che è diventato aggressivo, e sfoga tutta la sua rabbia e frustrazione sull'ammalato che dovrebbe curare. Questa situazione dura ormai da molti anni, ma non c'è nulla da fare, perché gli episodi di violenza avvengono sempre in assenza di testimoni. I sociologi riferiscono che ci sono oggi tre fasce sociali: una alta, che ha le risorse materiali e le idee in testa per risolvere da sola i suoi problemi; una bassa, che vive un disagio visibile e riconosciuto, che viene presa in carico dai servizi sociali; una terza, che sta in mezzo, di cui non si occupa nessuno, o chi se ne occupa lo fa parzialmente. Penso che le famiglie, che hanno un ammalato grave in casa, dovrebbero ricevere, in modo continuativo, l'aiuto di uno psicologo a domicilio, perché sono certa che, con un supporto adeguato, anche una situazione difficile come la malattia, potrebbe essere vissuta con una certa serenità. Cristina

25 settembre 2008

oltre l'opportunità

In questi anni di volontariato ho partecipato ad un progetto di “danzability” che ha messo insieme ballerini professionisti e ragazzi diversamente abili, ospiti di alcune comunità reggiane. L’esperienza, stimolante e molto coinvolgente, ha attraversato varie fasi con picchi di entusiasmo ed altrettanti abissi di delusione. Gioie e rabbie si sono mescolate senza che, a volte, ne fosse chiara la causa. Leggendo il testo di un’intervista fatta proprio a quei ragazzi ed ai loro accompagnatori, apparsa qualche mese fa sulla stampa locale, mi sono soffermato a riflettere su alcune affermazioni:
“… vogliamo diventare una compagnia di danza a tutti gli effetti ed essere inseriti in un circuito di assoluta normalità …” Come questa, diverse altre espressioni sembravano finalizzate a valorizzare l’impegno dei danzatori a prescindere (Totò mi perseguita!) dall’handicap, spesso evidente, nel timore che la propria esibizione venga sostenuta dal pubblico solo per non rischiare di apparire cinici. Il pietismo esiste nonostante i maldestri tentativi di nasconderlo, difficile liberarsene e su questo tema la loro sensibilità ha antenne lunghe e perfettamente funzionanti.
“Non volevamo che fosse solo un’opportunità per gli ospiti” sostiene un accompagnatore. La danza vista come diversivo alla monotonia del quotidiano; l’uscita col pulmino; un paio d’ore di svago; la promessa di un gelato al rientro se ci si è ben comportati. Una terapia differente, che nessun medico ha prescritto ed i cui risultati nessuno potrà avvalorare. Una medicina assunta su base volontaria, dato che più d’uno di quelli che si erano cimentati sul parquet ha poi scelto di non continuare, o di limitare l’impegno. Ad altri invece è mancato lo spazio, le chiamate in pista sempre più diradate, si faceva tappezzeria. Per quelli che vogliono continuare questa è una “opportunità” che mantiene ancora intatte tutte le sue potenzialità. Va quindi sfruttata, incentivata, applicata a quanti più “ospiti” possibile. Per contro, l’auspicata trasformazione in spettacolo teatrale e competizione sportiva, dovrebbe salvaguardare il gioco, il dilettantismo di chi usa la danza ad integrazione della terapia personale. Credo che attorno a questi magnifici ragazzi vada stesa una rete protettiva, fatta di chiarezza, sia dei ruoli, che delle attese. Auspico venga creata un’organizzazione affidabile, dotata di ambienti, mezzi e risorse economiche adeguate, al cui interno ognuno conosca il proprio compito e rispetti quello degli altri. Fatto questo, l’esercizio più difficile sarà allora quello di respingere la tentazione che, al superamento della dicotomia abile/disabile, si sostituisca la selezione tra danzatori diversamente abili di prima serie e di seconda serie. Gianpietro

23 settembre 2008

Un tu che mi viene incontro

Mi era stata chiesta la disponibilità per un servizio straordinario all’hospice, in occasione di un evento speciale. La giornata era stata molto intensa, per il grande afflusso di gente e la sera, per la stanchezza, avevo dovuto chiedere ad un carissimo amico di rinviare l’appuntamento che avevo con lui. Mi rispose con un messaggio durissimo, e da allora non ha più voluto vedermi. L’amico importante, buono, paziente, che sapeva ascoltare, capire, condividere i miei interessi, si è rivelato un despota inflessibile. Nel libro che lo rese famoso, “Ich und Du”, che l’italiano traduce, in modo abbastanza incomprensibile, con “Il sistema dialogico”, Martin Buber sostiene che l’uomo nasce nella relazione, ma che di questa ne esistono due tipi, che corrispondono a due parole e due atteggiamenti diversi. La prima è la relazione Io-Esso, ed è l’esperienza con un oggetto, che si può possedere, e del quale si conoscono esattamente la forma e le caratteristiche. Questa relazione ci dà la stabilità, la sicurezza, ma è un’esperienza frammentaria: se mi concentro su un oggetto, per esempio il bicchiere sul tavolo, non ho la visione dell’intera stanza. La seconda relazione è Io-Tu, ed ogni incontro con il Tu è un incontro totale, ma questa relazione non ha stabilità, infatti ne facciamo altre. Le due relazioni non sono organizzabili, si intersecano, scolorano di continuo l’una nell’altra: da una dipende la stabilità, dall’altra la felicità. Nella relazione Io-Esso, il mistero è fonte di angoscia, nella relazione Io-Tu, il mistero è fonte di gioia. Io penso che oggi siamo tutti meno disponibili a questa relazione con un Tu che ci viene incontro, e questo lo si percepisce soprattutto nella paura che abbiamo degli stranieri, che ci danno angoscia, perché non riusciamo a prevederne il comportamento: siamo tutti profondamente insicuri, e preferiamo la sicurezza di un rapporto che, alla fine, diventa una prigione. Cristina

22 settembre 2008

neanche un lembo di pelle

Avevo dieci anni e tutte le mattine venivo in treno da Bagnolo alle scuole medie di Reggio in via Malta. Passando per piazza Prampolini entravo spesso in Duomo e mi ricordo che quell’inverno c’era sempre una vecchietta accovacciata accanto alla porta che chiedeva l’elemosina. Non avevo soldi con me, però ogni volta ci guardavamo sorridendo. Una mattina mi fa segno di avvicinarmi e mi chiede di andare nel bar e prenderle un bicchiere di latte caldo. Rovista nella scodella che ha accanto ai piedi e mi allunga le poche monete che servono. Mentre attraverso la piazza ho l’impressione che da dietro alle vetrate, non solo del bar, ma di tutte le case intorno, migliaia di facce mi stiano osservando incuriosite. “Un bicchiere di latte caldo per quella signora là. Grazie” ed indico il sagrato della chiesa. “E’ per tua nonna, bambino?”, “Mia nonna? Oh no!”, poi mentre esco, mi volto e dico a tutti i presenti: “E’ solo una mia zia”.

Una sera di circa quarant’anni fa, terminato un corso di informatica, camminavo per le vie di Roma in attesa di trovare un buon ristorante. Ad un tratto vedo un giovane in carrozzina che, agendo sui cerchioni fissati all’esterno delle ruote, sembra procedere a fatica lungo la strada in leggera pendenza. Lo seguo per un tratto osservandone l’aspetto trasandato, i capelli lunghi, la barba incolta ed i lineamenti spigolosi, marcati da chiari segni di sporcizia sul viso e sulle braccia scoperte. Le mani calzano dei mezzi guanti sbrindellati e lerci. Fissati alla carrozzina diversi pacchi che sembrano sul punto di scivolare tra le ruote. L’apparenza è di un ragazzo forte e alto, che io leggo come un disabile diseredato e che potrei aiutare, quantomeno a superare quel tratto di strada. Ci penso a lungo, poi lo avvicino e prendo saldamente i manubri della carrozzina borbottando qualcosa come: “Scusi, posso aiutarla?”. Lui si divincola senza voltarsi neppure, dà uno strappo alle ruote e si stacca, allontanandosi imprecando. Avverto vampate di caldo al viso ed un tremore per tutto il corpo. Lo raggiungo e lo affianco: “Guardi che volevo solo darle una mano, nient’altro”. Agitando minaccioso le mani guantate mi snocciola una serie di epiteti e si allontana con energiche bracciate, sempre inveendo. Pieno di vergogna e di rabbia mi guardo attorno, ma l’indifferenza è totale. Una bottiglia di ottimo vino ed una cena che ne bastava per due, non sono valsi a riassorbire un malessere che mi sono tenuto dentro per diverso tempo.

Ho raccontato questi due episodi pensando allo stereotipo del bisognoso, che noi vorremmo anonimo, immediatamente identificabile, ma che di se stesso non mostra neanche un lembo di pelle, solo la richiesta di aiuto, in modo evidente, tanto ostentata quanto impersonale. Ma così è troppo facile.

Gianpietro

21 settembre 2008

Il mendicante

Tempo fa, un'amica mi raccontò che un giorno, mentre passeggiava con il marito, in una via del centro storico di Roma, vide un signore molto distinto, con tanto di sciarpa e cappotto di cammello, andare loro incontro e, tendendo la mano, chiedere l'elemosina. Stupito, il marito incominciò a chiedergli come mai, per quali circostanze, cause o imprevisti, si trovasse in quella situazione, e perché chiedesse dei soldi. L'uomo rispose soltanto: "Perché ne ho bisogno". Questa risposta mi viene sempre in mente quando, di fronte ad una richiesta di aiuto, che presupporrebbe solo un si oppure un no, divaghiamo, perdendoci in considerazioni superflue e, talvolta, anche un po' meschine. La domenica, per il silenzio che c'è nella strada e nella casa dove abito, mi piace dormire fino all'ultimo minuto e, così, finisco sempre, come questa mattina, per arrivare trafelata e di corsa dalla famiglia, da cui sono attesa per il servizio di EmmauS. Entrando in casa, racconto, ridendo, un espisodio al quale ho assistito venendo qua, e che mi ha divertito, ma mi fermo subito, fulminata dalle occhiate severe, che tutti mi lanciano. Il marito, con grandi gesti delle mani, mi fa segno di abbassare la voce e, venendomi vicino, mi sussurra all'orecchio che il figlio, questa notte, ha fatto le ore piccole con gli amici, e se lo svegliamo potrebbe arrabbiarsi. Mi metto a preparare la colazione, stizzita. Dopo un po', però, mi passa, e mi vergogno anche del mio malumore, perché, in fondo, se vengo in questa casa, non è perché chi vi abita è perfetto, ma perché ne ha bisogno. Cristina