30 maggio 2008

Il nome

Mettendo in ordine delle vecchie carte mi è capitato tra le mani un attestato di frequenza ad un corso, organizzato da EmmauS nel 1999, che aveva come titolo “Prendersi cura del malato terminale”. Da allora è stato fatto un lungo percorso, sono state prese delle iniziative, abbiamo camminato con questo malato, che ora non si chiama più "terminale" (nome che metteva fine a ogni speranza), ma si chiama "malato in fase avanzata", che significa che non viene più abbandonato al suo destino come segno di un insuccesso medico, come era un tempo, ma che ci si prende cura di lui, con consapevolezza della gravità della sua malattia, ma con la certezza che non solo si possa, ma si debba fare ancora qualcosa per lui. Il nome "diversamente abile" non mi piace tanto, perché tradisce un po’ la incapacità di accettare le nostre inadeguatezze, però anche questa definizione dice che sono state fatte delle cose: sono state costruite delle cooperative, delle associazioni che aiutano le famiglie, sono state fatte delle leggi che aiutano ad inserire nel mondo del lavoro chi ha un handicap. Nel mondo antico, e in particolare in quello ebraico, il nome era qualcosa di più di quello che è oggi per noi. Dare un nome alle cose e alle persone era un atto costitutivo: al nome corrispondeva una identità, una relazione, una storia. Oggi leggo sul giornale: “A Milano, caccia ai clandestini sui mezzi pubblici”. In questo titolo il nome "clandestino" viene giustamente associato alla caccia, perché è qualcosa che ci rimanda alla animalità, alla mancanza di civiltà, ad una fase della storia dell’uomo in cui non c’era altro che la legge del più forte. A me il "clandestino" piace chiamarlo ancora straniero, perchè questo nome mi suscita la curiosità di conoscere la sua storia, le sue relazioni, di scoprire la sua identità. Se noi lo ascoltiamo, la storia che ci racconterà non sarà a volte una storia edificante, una bella storia come quelle che piacciono a noi, ma forse riusciremo un po’ di più a capire, e forse aiutare, questi nostri fratelli, adesso braccati: qualcuno di loro ha attraversato il grande deserto africano a piedi, è arrivato in riva al Mediterraneo, è salito su una barca che è affondata, poi ha salvato persone che stavano per annegare, e una volta arrivato qui non lo abbiamo nemmeno accolto come una persona, ma solo come braccia da lavoro che potevano anche non servirci. Cristina

28 maggio 2008

Il discernimento

Quasi ogni giorno facciamo scelte che richiedono il nostro discernimento. Il discernimento è quello che distingue la decisione, che viene presa in modo unilaterale, dalla scelta, che viene invece fatta valutando le conseguenze della nostra azione sugli altri. Una situazione tipica che richiede il discernimento è quella che ci fa chiedere: tacere o parlare? Sul lavoro dobbiamo dire che il collega si occupa di altro tutto il tempo invece di svolgere la sua mansione? All’amica più cara dobbiamo dire che una persona di cui lei si fida la tradisce? Non ci sono regole per queste situazioni: tutto è affidato al nostro discernimento. Il primo servizio che ho fatto per EmmauS mi ha messo subito di fronte ad una di queste domande terribili. La persona presa in carico era gravemente malata e sola. Mi era stato chiesto di affiancare una volontaria, la più esperta di tutte, perché questa andava in ferie. L’assistente sociale aveva contattato invano il figlio che viveva all’estero, informandolo sulla gravità della malattia della madre, e da allora la donna viveva nell’attesa di una telefonata che non arrivò mai. La sua condizione peggiorò in modo irreversibile e lei incominciò a chiedere informazioni sempre più precise sul suo stato di salute. Il non sapere cosa sarebbe stato di lei la metteva in uno stato di ansia terribile, aggravato dalle informazioni tutt’altro che chiare e pronunciate con poca delicatezza dal personale in ospedale. Chi la doveva informare? Forse il medico sarebbe stato la persona più adatta, forse l’assistente sociale, ma nessuno dei due ritenne opportuno farlo. Quando la prima volontaria tornò dalle ferie, disse che qualcuno doveva prepararla a morire. Le parlò a lungo come una sorella, pianse con lei, la consolò e continuò ad assisterla fino alla fine. L’ammalata pianse, la ringraziò per tutto quello che aveva fatto, però poi non parlò più con nessuno. Cristina

26 maggio 2008

Resistenza e resa

Sentii parlare per la prima volta di “Resistenza e resa” di Dietrich Bonhoeffer al corso di formazione EmmauS. Il relatore si servì di questo libro per spiegarci le due fasi importanti della malattia grave: la resistenza mediante le cure e, quando queste non sono più efficaci, la resa come accettazione consapevole del limite. Da allora ho letto e riletto questo libro molte volte ed è diventato uno dei miei preferiti. In carcere Bonhoeffer riesce a leggere, scrivere, riflettere, pregare, riceve pacchi dai familiari e lettere. E’ la straordinaria testimonianza di un uomo che anche in un campo di concentramento continua a resistere nel piccolo, nel poco che fa. “Attendere inattivi e restare ottusamente alla finestra non sono atteggiamenti cristiani” dice in una delle lettere. Questo concetto di resistenza mi è molto caro, lo ritrovo in tante persone che anche ai nostri giorni sanno opporre, in modo anche nascosto ai più, una sana resistenza alla sciatteria, alla volgarità, all’indifferenza e a tutte le logiche del potere. Sono persone spesso anonime, a volte anziani volontari che si prendono cura di quelli più anziani di loro, a volte persone normali che svolgono un lavoro normale e poi, dopo il lavoro, si recano nei luoghi dove abbiamo lasciato mancare l’amore, la misericordia e la giustizia. Una persona che conosco mi parlava sabato di una sua collega, docente universitaria, una donna elegante che va al lavoro in tailleur: pochi sanno che vive in un campo rom, per essere vicina a queste persone alle quali il nostro egoismo continua a togliere la dignità di un futuro. Cristina

21 maggio 2008

Il libro delle lodi

Le persone con cui mi trovo meglio nella chiesa sono i monaci: figure del tutto irrilevanti nella gerarchia ecclesiastica hanno una libertà maggiore di esprimere dubbi e contraddizioni, condizione indispensabile per una vera fede. Sto leggendo in questi giorni una nuova traduzione del salterio fatta da una di queste comunità. Il salterio è quella parte della bibbia che in ebraico ha come titolo “Sefer tehillim”, cioè libro delle lodi. Confesso che in passato l’atteggiamento di perenne adorazione che hanno i monaci mi lasciava un po’ perplessa: se Dio non è responsabile del male che ci succede, perché allora lodarlo? Con la ristrettezza delle mie categorie mentali, pensavo che la nostra preghiera a Dio dovesse rispettare la specificità della situazione in cui eravamo: preghiera di supplica, nel momento del bisogno, preghiera di lode, se tutto andava bene; ma riconoscevo anche tutta la banalità e meschinità di un simile ragionamento, espressione di individualismo e non di comunione. Mi è stato invece più correttamente spiegato che nella lode chi prega, pur avendo in mente una sua situazione personale, si unisce a tutte le creature (anche quelle che non hanno voce come la luna, le stelle, gli animali) e, a nome di tutte, canta il suo amen alla vita. E’ una fede che trascina tutte le creature con noi in Dio, è un ritrovarsi in Dio di tutto l’universo, un rendere grazie a lui che, se pur non ci toglie il dolore e la morte, ci dà comunque la forza di sperare e di amare. Cristina

18 maggio 2008

Il sapere

Nel suo saggio “Le parole della spiritualità” Enzo Bianchi, parlando del malato, dice che chi accompagna il malato non ha ricette da dargli, né tanto meno può fare del capezzale del malato il pulpito per una predica o una trattazione teologica. Nessun errore sarebbe più grave di quello di presentarsi al malato con un “sapere” (quel che il malato deve fare) che diverrebbe subito un “potere” che fa del malato non solo una vittima, ma anche un colpevole. Dal suo punto di vista, come chiesa, il malato va visto non in un’ottica semplicemente assistenzialistica, ma assunto come il portatore di un magistero: c’è da porsi al suo ascolto, da imparare da lui, nella sua situazione di debolezza. Io credo che oltre a questo errore molto comune che un po’ tutti facciamo, almeno all’inizio del servizio, di dare dei suggerimenti a chi vediamo in una condizione di debolezza, sbagliamo quando facciamo del sapere, che in qualche modo tiriamo fuori dalla nostra esperienza o dalla nostra cultura, una cosa di nostra proprietà, che elargiamo agli altri dall’alto, troncando la possibilità di una risposta da parte di chi ci ascolta. Quando invece il sapere ci apre alla condivisione, all’ascolto, al dialogo e alla reciprocità, allora brilla veramente e conferma il significato della sua radice, che è la stessa di “săpĕre” (aver sapore), diventando davvero il sale della nostra vita di relazione. Cristina

13 maggio 2008

Ricordati che eri straniero

Nel corso di un convegno che si è tenuto nella nostra città sul tema della criminalità organizzata, il relatore ha spiegato come la collaborazione degli stessi cittadini calabresi abbia consentito l’indebolimento della ‘ndrangheta, salvaguardando Reggio. Un successivo intervento, da parte di un imprenditore calabrese che vive qui, invitava a focalizzare l’attenzione su un altro tipo di criminalità, a suo parere molto più pericolosa, che adesso proviene, invece, dagli stranieri. Parlando della solidarietà che dobbiamo a questi cittadini stranieri con una persona conosciuta per il servizio volontario di assistenza a domicilio, sono rimasta sorpresa (in quanto si tratta di una persona molto buona e gentile) di sentirle dire che non è giusto che anche a loro venga concesso questo tipo di assistenza perché, non essendoci risorse sufficienti per tutti, occorre privilegiare quelli che sono cittadini da generazioni. Nel suo saggio “Ricordati che eri straniero” Barbara Spinelli parla di ruoli che continuamente s’invertono: l’ospitante è ospitato e viceversa, e l’apertura ed il rispetto non sono mai unilaterali. E’ qualcosa che tendiamo a dimenticare un po’ troppo spesso, come, senza rendercene conto, siamo soliti parlare dell’uguaglianza tra tutti gli uomini come di un diritto acquisito, ma nella pratica ce ne dimentichiamo, e questo ricorda la scritta sul cancello della fattoria Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri", frase simbolo della Fattoria degli Animali di Orwell e di ogni rivoluzione mossa da una presunta superiorità morale. Cristina

12 maggio 2008

Le tentazioni

E’ tornato di grande attualità parlare di tentazioni, o vizi capitali, e un festival dedicato a questo tema, a Lodi, è già arrivato alla sesta edizione. Ci eravamo ormai convinti che, a patto di restare nei limiti della legalità, ci fosse consentito fare tutto o quasi, quando gli esperti dell’anima e del cuore umano hanno incominciato a ravvisare, in questa estrema libertà, il rischio di una pericolosa schiavitù, che può imprigionare l’uomo, alienandolo dalla realtà e dalla comunione con gli altri. Tra tutti questi discorsi, ho trovato molto interessante scoprire che anche la tristezza (chiamata dagli antichi acedia) viene annoverata tra i vizi, perché, dicono, di fronte ad un grande dolore, l’uomo ha la tentazione naturale a chiudersi in esso, alterando il suo rapporto con il tempo e lo spazio. Capita anche a me, talvolta, di incontrare persone conosciute in occasione di gravi lutti, come la perdita di un figlio o di una giovane moglie. Per alcuni di loro il tempo si è fermato: hanno lasciato il lavoro e vivono costantemente dentro un guscio di dolore, senza riuscire mai ad attraversarlo. Cristina

10 maggio 2008

frammenti

La signora da cui vado per il servizio mi racconta una vicenda che, in passato, l'ha fatta soffrire, poi si ferma perché dice che il ricordo le fa male. Al corso di formazione per malati in fase di malattia avanzata, ci era stato detto che uno dei compiti dei volontari è anche quello di aiutarli a riconciliarsi con la vita, responsabilità un po’ grande per chi, forse, non è ancora riuscito a farlo con la propria. Dall’archivio di Radio Tre ascolto una vecchia puntata di Uomini e profeti dove Enzo Bianchi dice che concorda pienamente con il profeta Geremia quando dice che Dio va alla ricerca di ciò che all’uomo sembra semplicemente perduto. Le nostre storie sono attraversate da cadute, da fallimenti, da strappi, e anche le nostre storie d’amore, per cui dobbiamo veramente confidare che Dio va a raccogliere questi frammenti, ricordandoci che la molla dentro di noi è sempre l’amore: forse sbagliamo e rispondiamo in modo errato, ma dove c’è anche solo un frammento d’amore c’è la vita. Cristina

4 maggio 2008

silenzio

Claudia mi ha fatto ricordare sensazioni provate con una anziana signora alla quale bisognava aprire la bocca per metterle in bocca il cibo. Mi sembrava di usarle violenza. Ho ricordato anche mia madre: rifiutava il cibo, non me lo diceva apertamente, ma poi lo rigettava. E io non volevo accettare il suo desiderio di lasciarsi andare, non potevo pensare che non volesse più stare con noi. Davanti alla sofferenza non rimane che il silenzio, le parole sono davvero inutili, spesso esprimono solo la limitatezza della nostra natura, il nostro bisogno di capire, di dare un senso ad ogni cosa. Ricordo, e ne ho pieno il cuore, quando appoggiavo la testa vicino a mio padre e la tenerezza della sua mano che mi voleva rassicurare e mi regalava un momento di pace. Nel silenzio, poco prima di morire. Elena

"Dubitavano...- Andate.."

Oggi sono andata a trovare la mia amica. Ho già parlato di lei qualche volta. Là dove vive ci sono persone anche molto giovani, gravemente disabili. Sono in una struttura cosiddetta riabilitativa, ma alcune di loro non potranno mai migliorare anzi, sono affette da mali progressivi. Una ragazza in particolare la vedo peggiorare di volta in volta. E’ affetta da sclerosi multipla, forse è una delle 500 di cui ci parlava l’Enza. Fino ad un mese fa mangiava da sola o meglio, con uno sforzo inaudito cercava di far arrivare il cucchiaio alla bocca. Non sempre riusciva a centrare l’obiettivo e il cibo cadeva e allora vedevi i suoi scatti di rabbia. Ma poi ci riprovava. Avevo chiesto alle operatrici perché non si faceva aiutare e mi era stato risposto che insisteva a voler fare da sola. Questa sua caparbietà era la forza che le permetteva di mantenere ancora per un po’ il controllo delle braccia ed era insieme la sua disperazione perché capiva che ogni giorno diventava sempre più difficile. E’ stata per qualche settimana in ospedale e oggi l’ho ritrovata. Veniva imboccata con qualcosa di quasi liquido. L’operatrice le metteva una mano sulla fronte e con l’altra cercava di far entrare il cucchiaio nella bocca. Non avevo il coraggio di guardarla. Stasera ho letto gli ultimi post di Cristina e i commenti di Giampietro e le loro riflessioni sulla morte, sul male, sulla nostra impotenza di fronte al dolore. Non riesco a non pensare al dolore immenso, muto, disperato di G. Non cerco neanche di trovare risposte, non ce ne sono. Nel vangelo di oggi Gesù risorto appare ai discepoli in Galilea. Lo vedono, gli si prostrano innanzi ma alcuni di loro dubitano. Gesù dice loro: "… Andate dunque e ammaestrate…". Dubitavano. Quali e quanti dubbi ci assalgono continuamente. E Gesù dice “andate”, dice andate lo stesso anche se dubitate, anche se vorreste fermarvi e cercare di capire prima di partire. Forse vuole dire andate subito perché se vi fermate a pensare rischiate di perdervi e di non andare più. Claudia

2 maggio 2008

Le due felicità

Un amico mi ha regalato un piccolo libro Guida alla felicità minore dove l’autrice elenca con una certa sequenza cronologica gli attimi della sua vita che le hanno donato felicità, una felicità minore che alcuni sostengono essere l’unica felicità possibile. Saper godere delle piccole gioie che rendono meno triste la vita è certamente segno di grande saggezza, ma penso anche che in molti di noi si sia insinuato, a un certo punto, il desiderio di una felicità maggiore, che invece durasse più a lungo. Ho seguito questa estate un ciclo di lezioni bibliche sul Libro di Rut, tenute da una docente di ebraico antico, e sono rimasta molto colpita quando, parlando di Booz che riconosce il diritto di riscatto di un altro su Rut (non anteponendo quindi alla legge la sua felicità personale), ci ha spiegato che la felicità nella bibbia non ha il significato edonistico che ha per noi, ma è la ricerca del bene in ogni situazione della vita. Questo concetto è come se io l’avessi avuto dentro da sempre, ma senza saperlo riconoscere, probabilmente perché non ne avevo fatto esperienza. Mi viene in mente in questo momento una persona, che poi per altre cose ho deluso molto, che mi raccomandava sempre di non fare il volontariato, che è ancora un po’ fare quello che voglio io, ma di passare invece al servizio, cioè quello che scaturisce dal bisogno e non dalla mia disponibilità. Penso che questa possa essere proprio una di quelle situazioni in cui uno possa sperimentare questa felicità maggiore, che non si riesce ad esprimere bene con un concetto, ma che la può conoscere soltanto chi ne fa l’esperienza. Cristina

1 maggio 2008

Elì, Elì lemà sabactàni?

La morte nella mia famiglia è sempre stata vissuta come un evento normale: da generazioni si nasce e si muore nel proprio letto, i figli hanno seppellito i padri e non viceversa, e certi parenti si vedono solo per i funerali e poi spariscono in città e percorsi di vita diversi. La separazione da chi muore viene sentita con dolore, un sentimento però che non è molto diverso da quello che si prova quando un amico va a vivere altrove: ci mancherà, ma è la vita. La morte invece di cui non riesco a darmi pace è quella delle vittime innocenti della follia dell’uomo, dei genocidi, delle stragi, dell’odio razziale, vittime anonime da cui per generazioni abbiamo distolto lo sguardo senza fare niente, e delle quali ci dimentichiamo sempre troppo in fretta. Il volto di quelle vittime mi toglie il sonno, è come se mi chiamassero a non continuare a guardare altrove, a fare qualcosa. Ma non mi viene in mente niente. E allora prego quel Dio che non ha obbedito a chi gli diceva di scendere dalla croce e di salvare se stesso, ma è rimasto fino in fondo, per essere accanto a tutte le morti drammatiche del mondo e in quello che spesso chiamiamo il suo silenzio rivelarsi nella pienezza del suo essere divino, che è quella di essere presente. Cristina