18 maggio 2008

Il sapere

Nel suo saggio “Le parole della spiritualità” Enzo Bianchi, parlando del malato, dice che chi accompagna il malato non ha ricette da dargli, né tanto meno può fare del capezzale del malato il pulpito per una predica o una trattazione teologica. Nessun errore sarebbe più grave di quello di presentarsi al malato con un “sapere” (quel che il malato deve fare) che diverrebbe subito un “potere” che fa del malato non solo una vittima, ma anche un colpevole. Dal suo punto di vista, come chiesa, il malato va visto non in un’ottica semplicemente assistenzialistica, ma assunto come il portatore di un magistero: c’è da porsi al suo ascolto, da imparare da lui, nella sua situazione di debolezza. Io credo che oltre a questo errore molto comune che un po’ tutti facciamo, almeno all’inizio del servizio, di dare dei suggerimenti a chi vediamo in una condizione di debolezza, sbagliamo quando facciamo del sapere, che in qualche modo tiriamo fuori dalla nostra esperienza o dalla nostra cultura, una cosa di nostra proprietà, che elargiamo agli altri dall’alto, troncando la possibilità di una risposta da parte di chi ci ascolta. Quando invece il sapere ci apre alla condivisione, all’ascolto, al dialogo e alla reciprocità, allora brilla veramente e conferma il significato della sua radice, che è la stessa di “săpĕre” (aver sapore), diventando davvero il sale della nostra vita di relazione. Cristina

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