30 gennaio 2009
Il Piccolo Principe e l'amicizia
(la volpe) Vuol dire creare dei legami... ... Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi … tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo”.
Il discorso della volpe è abbastanza corretto, solo che questo termine addomesticare, nella traduzione inglese e francese addirittura domare, mi sembra un po’ forte, perché rende implicita una sottomissione alla quale non siamo tanto abituati nelle nostre relazioni. Mi ha ricordato un episodio di alcuni anni fa. In quel tempo, dopo il lavoro, andavo a messa in una piccola chiesa di campagna, vicina al posto dove lavoro. Due donne anziane, piuttosto assidue, avevano attirato, più di una volta, la mia attenzione e, una sera, una di queste mi chiese un passaggio per tutte e due, perché vivevano insieme. Durante il tragitto, una di loro mi raccontò che l’amica era, un tempo, una girovaga alcolizzata che il figlio, che gestiva un dormitorio per i poveri, le aveva portato a casa, in una fredda notte d’inverno, perché il rifugio ospitava solo uomini. Da allora, vivevano insieme, ma la convivenza fu per molti anni difficile, perché la mendicante non smise subito di bere e spesso scappava e non ritrovava la via di casa. Quando questo succedeva, la signora, che allora era abbastanza giovane per guidare, partiva e andava a cercarla in tutti i posti in cui poteva essersi cacciata, per riportarla a casa. Da alcuni anni aveva smesso di bere, vivevano serenamente e non potevano fare a meno l’una dell’altra. Anche le nostre relazioni sono, a volte, un po’ difficili e richiedono un tempo di addomesticamento, perché ogni rapporto ha bisogno di libertà e non ci può essere legame, se non si ci cerca reciprocamente. Cristina
28 gennaio 2009
Solamente allora saremo luce
"Gesù ha detto: “Chi economizzerà la sua vita la perderà e chi la spenderà per me la riavrà nella vita eterna”.
Tuttavia a noi fa paura spendere la vita, darla senza riserve. Un terribile istinto di conservazione ci porta verso l’egoismo, e ci attanaglia quando vogliamo giocarci la vita.
Cerchiamo e abbiamo sicurezze dappertutto, per evitare i rischi. E soprattutto, c’è la codardia…
Signore, ci fa paura spendere la vita. Però la vita tu ce l’hai data per spenderla. Non si può economizzarla in sterile egoismo.
Spendere la vita è lavorare per gli altri, benché non paghino. Fare un favore a chi non lo restituirà. Spendere la vita è esporsi al fallimento, se occorre, senza false prudenze. E’ bruciare le risorse in favore del prossimo.
Siamo delle fiaccole, che hanno senso solo quando bruciano. Solamente allora saremo luce.
Liberaci dalla prudenza codarda, quella che ci fa evitare il sacrificio e cercare la sicurezza.
Spendere la vita non lo si fa con gesti ampollosi e falsa teatralità. La vita la si dà con semplicità, senza pubblicità, come l’acqua dalla sorgente, come la madre dà il seno al suo bebé, come il sudore umile del seminatore.
Insegnaci, Signore, a lanciarci verso l’impossibile, perché dietro l’impossibile c’è la tua grazia e la tua presenza. Non possiamo cadere nel vuoto.
Il futuro è un enigma, il nostro cammino si infila nella nebbia. Però vogliamo continuare a darci, perché tu stai aspettando nella notte, con mille occhi umani traboccanti di lacrime."
Cristina
26 gennaio 2009
Il pretesto
24 gennaio 2009
La decisione
21 gennaio 2009
Il Piccolo Principe e il dramma dei baobab
(pag. 30) E’ una questione di disciplina … Quando si ha finito di lavarsi il mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai.
Ci sono momenti nella vita in cui desideriamo restare soli. Nella solitudine, però, i pensieri buoni si mescolano a quelli cattivi e, come i semi di cui parla il piccolo principe, non è facile all’inizio riconoscerli. A volte, pensieri che ci danno inquietudine e malessere, che saremmo portati a definire cattivi, ci portano poi sulla via della pace e della serenità; mentre pensieri seducenti, che ci danno all’inizio una piacevole sensazione, ci portano al male e a tradire noi stessi. Per questo, quando ci accorgiamo che un pensiero, gettato come un piccolo seme nella nostra mente, tende ad ingigantire e a ramificarsi in albero cattivo, occorre essere accorti e sradicarlo subito, prima che compia danni maggiori. Anche nelle nostre relazioni abituali con le persone, ci possono essere pensieri molesti, che a volte hanno una loro utilità, mettendoci ad esempio in guardia, ma spesso sono solo pensieri ingannevoli e subdoli, che portano soltanto all’inimicizia. Per questo, anche la nostra mente, come un piccolo pianeta, ha bisogno di essere pulita, ogni mattina, con cura e disciplina, pensando sempre che ogni giorno è buono per ricominciare da capo. Cristina
20 gennaio 2009
Il Piccolo Principe e l'età dell'innocenza
Il bambino di questo libro mi ha fatto pensare ad un’età, non solo anagrafica, che è quella dell’innocenza, caratteristica dei bambini di un tempo e forse anche dei pazzi. Nello sviluppo formativo di tutti i bambini, c’è comunque un punto, di non ritorno, in cui smettono di parlare ai grandi delle cose che per loro sarebbero più importanti, perché tanto gli adulti non capirebbero. Per me, è stato intorno ai dodici anni, quando i miei genitori hanno incominciato a vedere pericoli ovunque e, anche se i veri malintenzionati erano sempre soltanto pochi squilibrati, mi hanno insegnato a guardare con sospetto tutta l’umanità. Per fortuna, non mi hanno condizionato, perché continuo a vedere in chi fa del male qualcuno che ha un po’ più bisogno di aiuto degli altri; ma la comunicazione vera, quella del cuore, con i miei genitori, a quel punto, si è interrotta per sempre. Nei bambini di oggi, forse, si ferma ancor prima, con qualche eccezione. Quattro dei miei nipoti frequentano una scuola ispirata a metodi educativi umanistici e non nozionistici, che non prevede bocciature o altri rallentamenti fino all'adolescenza. I genitori, per poter stare più vicino ai figli, non hanno esitato a mettere nel cassetto diplomi di laurea e master e a svolgere lavori manuali. I bambini non hanno giocattoli, non studiano sui libri; non fanno vacanze esotiche, ma solo allegre scorazzate sulle colline e montagne intorno a casa e della vita di animali e piante conoscono il più piccolo segreto. Quando vengono a casa mia, mi sembrano alieni appena sbarcati e la loro curiosità verso di me e la mia, per loro, strana vita, mi intimidisce e rende sempre la conversazione un po’ stentata. Il bambino de "Il Piccolo Principe" me li ha ricordati. Cristina
16 gennaio 2009
La dignità dell'uomo
15 gennaio 2009
Il Piccolo Principe
Dopo avere vissuto in dodici brevi giornate l'intera esistenza di OSCAR, vi propongo ora un testo che da molti è considerato un classico della letteratura del XX° secolo. "Il Piccolo Principe", pubblicato nel 1943, è un racconto molto poetico che - nella forma di un'opera letteraria per ragazzi - affronta temi come il senso della vita e il significato dell'amore e dell'amicizia. Anche questo è il racconto di un viaggio che dalla mente dovrebbe condurci verso il cuore. Antoine De Saint-Exupéry è un uomo come tanti, possiamo riconoscerci nella sua esperienza e trovare, almeno dal punto di vista interiore, molti punti in comune. Se apriamo la mente, e varchiamo il confine della favola, si riescono a leggere, tra le righe, diverse similitudini che ci conducono al quotidiano vissuto in un modo del tutto consapevole con la mente. Fino a quando, un giorno, "precipitiamo" dal quotidiano in un ipotetico "deserto" e incontriamo il bambino che c'è dentro di noi, che vuole vivere e con semplicità ci prende per mano rivelando un modo alternativo ed essenziale di vedere, sentire e vivere la vita. Come ammonisce la volpe: "... non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".
Nella colonna di sinistra del blog alla voce "links utili" ho impostato il collegamento alla versione del libro (in formato .pdf) che potete, sia leggere direttamente sul vostro PC, che stampare.
Nello stesso elenco è riportato il link al sito ufficiale (affidabile) dal quale scaricare gratuitamente l'ultima versione del programma Adobe Reader (necessario per la lettura e stampa dei documenti in formato .pdf).
Gianpietro
12 gennaio 2009
Disse sì, ma non andò
11 gennaio 2009
I maestri di vita
9 gennaio 2009
OSCAR e la vita
(pag. 85) La vita è uno strano regalo. All’inizio lo si sopravvaluta, si crede di aver ricevuto la vita eterna. Dopo lo si sottovaluta, lo si trova scadente, troppo corto, si sarebbe quasi pronti a gettarlo. Infine ci si rende conto che non era un regalo, ma solo un prestito. Allora si cerca di meritarlo.
Non occorrono molti commenti. OSCAR esprime un proprio punto di vista. Lo si può condividere o meno, ma resta pur sempre un’occasione di riflessione. Suddividere la vita in tre età è un classico nell’arte come nella mitologia, fino al mortale quesito posto dalla Sfinge ad Edipo. Personalmente, diversamente dall’impostazione di OSCAR, avrei invertito i riferimenti tra i primi due periodi. La scarsa considerazione che sembra abbiano i giovani della vita, spesso affrontata in modo esagerato e con incosciente noncuranza verso il rischio (anche quando coinvolge gli altri), mi porta a credere che essi le attribuiscano un valore scadente, disponibili anche a gettarla senza la prospettiva di un’adeguata contropartita. Ricordo che anch’io, da giovane, non mi ponevo il problema della sua durata ed anzi ero spaventato dall’idea di dovere invecchiare. È quando si cominciano a compiere scelte importanti (lavoro, affetti, famiglia, impegno sociale) che le aspettative vengono proiettate verso un futuro sempre più lontano. È nel periodo dell’accumulo (mi riferisco ai beni materiali), giustificato (mistificato), il più delle volte, con il desiderio di garantire un futuro (sicuro?) ai figli, che nell’adulto si insinua il dubbio di non riuscire ad avere il tempo bastevole per portare a termine quello che reputa essere il proprio compito. È in questa fase che si vive come se fosse per sempre. Secondo OSCAR la terza età è quella della ricerca. La vita viene ridimensionata, passando da regalo a semplice prestito “che va meritato”. Forse avrebbe dovuto scrivere “che va restituito”, a differenza di quanto si fa con i regali. Sia il regalo che il prestito andrebbero tuttavia meritati. Il primo, per sua caratteristica intrinseca, più ancora del secondo. Convengo sull’idea della ricerca come compito per la terza età, quella della saggezza. Peccato che il più delle volte la si attraversa restando bloccati dai lacci annodati nelle età precedenti e che ti soffocano come un rampicante a lungo trascurato. Succede poi che se anche hai avuto l’accortezza di mantenere aperto un varco verso la vita, dallo stesso sono fuggite anche le potenzialità, fisiche e psichiche, che possedevi. La ricerca, inoltre, richiede tempo e questa è una dote sulla quale, da vecchio, non puoi fare affidamento. Mi restano ancora forti dubbi circa l’immagine della vita come “prestito”. La ragione mi dice che l’umanità è solo uno dei tanti prodotti della natura (neanche dei meglio riusciti) e che gli elementi chimici, che, unendosi, ci compongono, ritorneranno alla natura una volta completato il loro breve ciclo di vita, consumati come le pagine di un libro restituito alla biblioteca. Il cuore mi spinge invece a credere che disponiamo di un’anima, che è la vera proprietaria del nostro corpo e che si serve della natura per crearlo e ricrearlo in un percorso lungo tanti cicli di vita quanti le occorreranno per raggiungere il suo obiettivo. È solo sviluppando questa seconda visione che si può parlare di “ricerca del merito”. Per ora altro non so. Gianpietro
7 gennaio 2009
La responsabilità individuale
6 gennaio 2009
OSCAR e la sofferenza
(pag. 55) La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si sceglie.
Mi ero annotato questo tema, decidendo di tenerlo in sospeso sino a quando non fosse diventato oggetto di un post. Ora il post di Cristina, “La notte oscura” mi consente di affiancare le mie alle sue considerazioni, ottenendo una panoramica più articolata. Gli autori citati da Cristina trasformano la sofferenza in piacere ad imitazione della passione di Cristo e quindi come mezzo utile per l’acquisizione di meriti soprannaturali. Nella visione di Cristina la sofferenza è inevitabile (punto di vista sostenuto anche da OSCAR) e quindi può derivarne una forma di utilità solo a condizione che quella “notte oscura” funga da luogo di gestazione per sentimenti positivi (amore, compassione, pietà, godimento per la bellezza del creato). OSCAR aggiunge la distinzione tra sofferenza fisica e morale sostenendo che la prima, inevitabile, incide negativamente sul nostro animo solo se siamo noi a permetterlo. Credo sia vero, anche se occorre una forza di carattere ed una consapevolezza fuori dal comune per evitare che il protrarsi e l’intensificarsi della sofferenza fisica finiscano con il fiaccare le resistenze della mente e del cuore. Soffrire fortifica. Solo chi ha fatto la fame sa dare il giusto valore al pane avanzato. Così dicono i nostri vecchi. Le nuove generazioni vengono su viziate, incapaci di affrontare le sfide della vita; sono esposte a tutte le tentazioni, perché sono state allevate nella bambagia, perché non conoscono la sofferenza. Anche questo si sente dire. Significa allora che soffrire è necessario? Che dobbiamo augurarci l’avvento di periodi di carestia, di conflitti sempre più estesi? Dobbiamo rinnegare i progressi compiuti della medicina, sia nel prevenire e curare le malattie, che nell’alleviare le sofferenze? Più d’uno auspica la rinuncia a combattere le manifestazioni negative della natura, affidandosi alla sua presunta saggezza equilibratrice, anche quando è stato proprio l’uomo la principale causa del loro degenerarsi. Se posso, contro ciò che subisco, io mi ribello e adotto ogni misura che la cultura e la tecnica mettono a disposizione. C’è poi il secondo aspetto citato da OSCAR, quello della sofferenza morale. Premetto che ancora non ho ben chiaro a cosa si debba fare riferimento. Se alla sensazione di malessere psichico che si prova quando si è di fronte a negatività od a sofferenze che non ci toccano direttamente (il mio cuore piange per il barbone morto di freddo - al quale tuttavia ho sottratto la coperta perché creava un danno d’immagine), o se si deve invece intendere qualcosa di più diretto, di più personale, non necessariamente collegato a fattori ed eventi esterni. Nel nostro servizio di volontari siamo esposti a sentimenti che possono essere associati alla sofferenza morale, ma a ben analizzarli hanno nomi diversi, quali solidarietà, compassione, pietà, magari rabbia, senso di inadeguatezza o di impotenza. Ci possiamo sentire vicini al nostro assistito, partecipare alla sua sofferenza, ma non credo sia realistico affermare di comprenderla, men che meno di scegliere di viverla in prima persona. Il tema è delicato e si presta a molte interpretazioni. C’è forse qualcuno che possa vantare una pretesa di verità sul concetto di sofferenza? Se ne potrebbe parlare in termini generali, cattedratici, ma non servirebbe a molto. Perché non ne parliamo su questo blog partendo dalle vostre esperienze personali? Gianpietro
5 gennaio 2009
La notte oscura
Nella mia esperienza, non saprei davvero dire se il dolore sia mai servito a qualcosa o se, invece, mi abbia reso peggiore di quella che sarei potuta essere, in una vita senza. Quello che possiamo certamente dire è che è quasi impossibile vivere una vita intera senza fare questa esperienza. Credo, quindi, si possa parlare di necessità, prima che di utilità. Parlare di utilità del dolore con gli ammalati gravi, o quelli che hanno subito una grave perdita, o quelli che stanno facendo un’esperienza di depressione, è sempre un grave errore: provoca irritazione e, giustamente, ribellione. Una discussione sul dolore si può fare solo con chi ha già superato questa fase di scoraggiamento e, in qualche modo, è già riuscito ad attraversarlo. È un discorso che si può fare solo a posteriori. Sulla mia esperienza del dolore, posso allora dire che, tutte le volte, la guarigione è incominciata nel momento, che S. Giovanni della Croce chiama della ‘notte oscura’, in cui ci accorgiamo che quel buco nero, che abbiamo dentro, non è un vuoto desolante, ma un cuore palpitante, che incomincia a sentire, di tanto in tanto, il tepore di una fiamma che lo scalda: può essere l’amore per qualcuno, ma anche la compassione, la pietà per il mondo che ci circonda, oppure il godimento per la bellezza del creato. E’ una fase poco stabile, in cui diversi sentimenti, spesso contrastanti, si alternano: serenità, pace, poi ancora depressione, sfiducia, mancanza di senso, ma già si avverte che non sarà per sempre. Cristina