30 gennaio 2009

Il Piccolo Principe e l'amicizia

(pag. 43) (il piccolo principe) “Che cosa vuol dire addomesticare”?
(la volpe) Vuol dire creare dei legami... ... Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi … tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo”.
Il discorso della volpe è abbastanza corretto, solo che questo termine addomesticare, nella traduzione inglese e francese addirittura domare, mi sembra un po’ forte, perché rende implicita una sottomissione alla quale non siamo tanto abituati nelle nostre relazioni. Mi ha ricordato un episodio di alcuni anni fa. In quel tempo, dopo il lavoro, andavo a messa in una piccola chiesa di campagna, vicina al posto dove lavoro. Due donne anziane, piuttosto assidue, avevano attirato, più di una volta, la mia attenzione e, una sera, una di queste mi chiese un passaggio per tutte e due, perché vivevano insieme. Durante il tragitto, una di loro mi raccontò che l’amica era, un tempo, una girovaga alcolizzata che il figlio, che gestiva un dormitorio per i poveri, le aveva portato a casa, in una fredda notte d’inverno, perché il rifugio ospitava solo uomini. Da allora, vivevano insieme, ma la convivenza fu per molti anni difficile, perché la mendicante non smise subito di bere e spesso scappava e non ritrovava la via di casa. Quando questo succedeva, la signora, che allora era abbastanza giovane per guidare, partiva e andava a cercarla in tutti i posti in cui poteva essersi cacciata, per riportarla a casa. Da alcuni anni aveva smesso di bere, vivevano serenamente e non potevano fare a meno l’una dell’altra. Anche le nostre relazioni sono, a volte, un po’ difficili e richiedono un tempo di addomesticamento, perché ogni rapporto ha bisogno di libertà e non ci può essere legame, se non si ci cerca reciprocamente. Cristina

28 gennaio 2009

Solamente allora saremo luce

Ogni tanto, anche in questo blog, ci interroghiamo sul senso della vita e molti di noi hanno ormai capito che questa è una domanda piuttosto impegnativa e la risposta, se mai ci sarà, molto personale. E' un grande sollievo, sapere che qualcuno, come Luis Espinal, martire in Bolivia nel 1980, questo senso lo ha trovato. Questa è una bella preghiera che ha scritto alcuni anni prima di morire.
"Gesù ha detto: “Chi economizzerà la sua vita la perderà e chi la spenderà per me la riavrà nella vita eterna”.
Tuttavia a noi fa paura spendere la vita, darla senza riserve. Un terribile istinto di conservazione ci porta verso l’egoismo, e ci attanaglia quando vogliamo giocarci la vita.
Cerchiamo e abbiamo sicurezze dappertutto, per evitare i rischi. E soprattutto, c’è la codardia…
Signore, ci fa paura spendere la vita. Però la vita tu ce l’hai data per spenderla. Non si può economizzarla in sterile egoismo.
Spendere la vita è lavorare per gli altri, benché non paghino. Fare un favore a chi non lo restituirà. Spendere la vita è esporsi al fallimento, se occorre, senza false prudenze. E’ bruciare le risorse in favore del prossimo.
Siamo delle fiaccole, che hanno senso solo quando bruciano. Solamente allora saremo luce.
Liberaci dalla prudenza codarda, quella che ci fa evitare il sacrificio e cercare la sicurezza.
Spendere la vita non lo si fa con gesti ampollosi e falsa teatralità. La vita la si dà con semplicità, senza pubblicità, come l’acqua dalla sorgente, come la madre dà il seno al suo bebé, come il sudore umile del seminatore.
Insegnaci, Signore, a lanciarci verso l’impossibile, perché dietro l’impossibile c’è la tua grazia e la tua presenza. Non possiamo cadere nel vuoto.
Il futuro è un enigma, il nostro cammino si infila nella nebbia. Però vogliamo continuare a darci, perché tu stai aspettando nella notte, con mille occhi umani traboccanti di lacrime."

Cristina

26 gennaio 2009

Il pretesto

Il pretesto per non fare il bene è un tarlo che insidia spesso la vita del volontario. Un amico mi ha proposto un breve viaggio, in una capitale europea, dove non sono ancora andata e, per questo, ho accettato con entusiasmo. Di solito, non vado via al di fuori delle ferie collettive, ma questa volta si tratta di pochi giorni e i colleghi hanno accettato volentieri di sostituirmi. In famiglia, poi, sono sempre molto contenti delle mie partenze, da molti anni non più così frequenti. Prevedendo che avrei invece avuto difficoltà con la persona da cui vado per il servizio EmmauS, nel darle la notizia, ho calcato molto sul fatto che, prima della partenza, avrei intensificato le visite, in modo da totalizzare, in un mese, le stesse ore di servizio. Ha aspettato che il marito uscisse e ha cominciato a lamentarsi che non era un problema di ore, ma che l’intervallo troppo lungo, tra una visita e l’altra, avrebbe messo in difficoltà tutta la famiglia: il marito si sarebbe innervosito, in considerazione anche del fatto che, proprio in questo periodo, il fratello non può andare, perché la moglie è ammalata e la figlia non la può assistere perché molto impegnata con la propria famiglia. Ha aggiunto che dovrà informare la referente della mia assenza, affinché cerchi una volontaria che mi sostituisca, ricordandomi che, anche il mese scorso, le avevo chiesto di andare un giorno invece di un altro, in cui non potevo. Inutile dire della non ragionevolezza di tutte queste argomentazioni, che però sono riuscite ugualmente ad irritarmi e a lasciarmi, per tutto il giorno, il desiderio di liberarmi di questo servizio, a volte così opprimente. Per fortuna, ho imparato a non prendere mai decisioni quando sono irritata, perché il giorno dopo, svanita la collera, rimane solo il desiderio di perseverare nell’impegno preso, senza lasciarmi condizionare dalle emozioni di un momento. Cristina

24 gennaio 2009

La decisione

La donna elegante e sofisticata che ho di fronte mi sta chiedendo se mi può seguire in qualche attività di volontariato, per vedere se lei stessa può essere di qualche utilità. Le rispondo che l'aiuterò con molto piacere e mi congratulo per la sua decisione. Dentro di me però faccio quello che non si dovrebbe mai fare: la giudico. Penso alla sua vita sempre guidata dall'ambizione di avere successo nel lavoro e negli affetti e penso di non aver mai incontrato nessuno di meno adatto di lei al servizio. Dimentico quello che le guide spirituali ci hanno sempre insegnato per percorrere un vero cammino della conoscenza di sé e della propria vocazione: che è nel decidersi che la persona si fa persona, che l'individuo diventa soggetto, il giovane diventa adulto. R. Bultmann, che interpreta anche il vangelo di Giovanni con la categoria fondamentale della decisione esistenziale, scrive che non è il mondo a determinare l'appartenenza di un uomo al regno delle tenebre o della luce; è la sua decisione. Penso anche alle scelte della mia vita, fino a un certo punto così incoerenti e anche ad un insegnamento che ho ricevuto, troppo spesso dimenticato, che mi esortava a non pensare ai piccoli traguardi, la carriera, il matrimonio, i viaggi, ma a costruirmi, prima di tutto, un orizzonte più ampio di vita, mio personale, libero da ogni condizionamento: avrei visto che tutto il resto vi si sarebbe miracolosamente incasellato sotto e anche se qualcosa fosse andato storto, non avrebbe avuto tanta importanza, perché sarebbe stato subito ridimensionato. Cristina

21 gennaio 2009

Il Piccolo Principe e il dramma dei baobab

(pag. 28) Sul pianeta del piccolo principe ci sono, come su tutti i pianeti, le erbe buone e quelle cattive … Ma i semi sono invisibili ...
(pag. 30) E’ una questione di disciplina … Quando si ha finito di lavarsi il mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai.

Ci sono momenti nella vita in cui desideriamo restare soli. Nella solitudine, però, i pensieri buoni si mescolano a quelli cattivi e, come i semi di cui parla il piccolo principe, non è facile all’inizio riconoscerli. A volte, pensieri che ci danno inquietudine e malessere, che saremmo portati a definire cattivi, ci portano poi sulla via della pace e della serenità; mentre pensieri seducenti, che ci danno all’inizio una piacevole sensazione, ci portano al male e a tradire noi stessi. Per questo, quando ci accorgiamo che un pensiero, gettato come un piccolo seme nella nostra mente, tende ad ingigantire e a ramificarsi in albero cattivo, occorre essere accorti e sradicarlo subito, prima che compia danni maggiori. Anche nelle nostre relazioni abituali con le persone, ci possono essere pensieri molesti, che a volte hanno una loro utilità, mettendoci ad esempio in guardia, ma spesso sono solo pensieri ingannevoli e subdoli, che portano soltanto all’inimicizia. Per questo, anche la nostra mente, come un piccolo pianeta, ha bisogno di essere pulita, ogni mattina, con cura e disciplina, pensando sempre che ogni giorno è buono per ricominciare da capo. Cristina

20 gennaio 2009

Il Piccolo Principe e l'età dell'innocenza

(pag. 3) I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegare tutto ogni volta.
Il bambino di questo libro mi ha fatto pensare ad un’età, non solo anagrafica, che è quella dell’innocenza, caratteristica dei bambini di un tempo e forse anche dei pazzi. Nello sviluppo formativo di tutti i bambini, c’è comunque un punto, di non ritorno, in cui smettono di parlare ai grandi delle cose che per loro sarebbero più importanti, perché tanto gli adulti non capirebbero. Per me, è stato intorno ai dodici anni, quando i miei genitori hanno incominciato a vedere pericoli ovunque e, anche se i veri malintenzionati erano sempre soltanto pochi squilibrati, mi hanno insegnato a guardare con sospetto tutta l’umanità. Per fortuna, non mi hanno condizionato, perché continuo a vedere in chi fa del male qualcuno che ha un po’ più bisogno di aiuto degli altri; ma la comunicazione vera, quella del cuore, con i miei genitori, a quel punto, si è interrotta per sempre. Nei bambini di oggi, forse, si ferma ancor prima, con qualche eccezione. Quattro dei miei nipoti frequentano una scuola ispirata a metodi educativi umanistici e non nozionistici, che non prevede bocciature o altri rallentamenti fino all'adolescenza. I genitori, per poter stare più vicino ai figli, non hanno esitato a mettere nel cassetto diplomi di laurea e master e a svolgere lavori manuali. I bambini non hanno giocattoli, non studiano sui libri; non fanno vacanze esotiche, ma solo allegre scorazzate sulle colline e montagne intorno a casa e della vita di animali e piante conoscono il più piccolo segreto. Quando vengono a casa mia, mi sembrano alieni appena sbarcati e la loro curiosità verso di me e la mia, per loro, strana vita, mi intimidisce e rende sempre la conversazione un po’ stentata. Il bambino de "Il Piccolo Principe" me li ha ricordati. Cristina

16 gennaio 2009

La dignità dell'uomo

La dignità è quell’aspetto della nostra umanità che suscita il rispetto. In modo paradossale, essa appare più evidente nell’uomo quando è in uno stato di miseria e di svantaggio. In un articolo di Repubblica, la giornalista Barbara Spinelli commentò le immagini del volto di Saddam Hussein, violato dalle mani del soldato che fruga nei suoi capelli arruffati e dall’ispezione dei suoi denti, come fosse una bestia da soma cui, al mercato, si spalanca la bocca per guardare lo stato e l’età dei suoi denti e si controlla se, nel suo pelo, non si annidino i pidocchi e scrisse che il despota, che aveva gasato iraniani e curdi, massacrato gli sciiti e ogni sorta di oppositori, tutto ad un tratto, non sembrava più l’orrore che era stato: sembrava aver acquisito una dignità che prima non possedeva, uno sguardo di cui, in passato, non era stato capace. Un’amica, la cui vita è stata devastata dal rapporto conflittuale con una madre dispotica e crudele, che le ha sempre negato ogni gesto di affetto, mi ha raccontato che, da quando è ammalata e sofferente, improvvisamente, ha smesso di vederla come l’ha sempre vista per tutta la vita. A volte, però, la dignità non è compresa. Verso il lavoro, che è l’atto che, per eccellenza, conferisce a tutti gli essere umani la dignità, abbiamo un atteggiamento ambivalente. Quando siamo giovani, lo sentiamo come un giogo, che ci impedisce chissà quale libertà, invece di vederlo come principio di sostentamento e benessere per noi e la collettività e guardiamo con sospetto e un po’ di compatimento i pochi che sostengono che il loro lavoro lo svolgerebbero anche per niente. Quando, invece, dobbiamo abbandonare il lavoro, perché siamo nell’età della pensione, lo rimpiangiamo e finiamo per diventare o iperattivi, forma molto subdola di depressione, oppure assumiamo quell’aria risentita, come se qualcuno ci avesse fatto chissà quale torto, negando così anche dignità a quella fase, adesso consistente della nostra vita, che è la vecchiaia, in modo particolare noi donne, sempre pronte a cancellarne il minimo segno al suo insorgere. Cristina

15 gennaio 2009

Il Piccolo Principe

Dopo avere vissuto in dodici brevi giornate l'intera esistenza di OSCAR, vi propongo ora un testo che da molti è considerato un classico della letteratura del XX° secolo. "Il Piccolo Principe", pubblicato nel 1943, è un racconto molto poetico che - nella forma di un'opera letteraria per ragazzi - affronta temi come il senso della vita e il significato dell'amore e dell'amicizia. Anche questo è il racconto di un viaggio che dalla mente dovrebbe condurci verso il cuore. Antoine De Saint-Exupéry è un uomo come tanti, possiamo riconoscerci nella sua esperienza e trovare, almeno dal punto di vista interiore, molti punti in comune. Se apriamo la mente, e varchiamo il confine della favola, si riescono a leggere, tra le righe, diverse similitudini che ci conducono al quotidiano vissuto in un modo del tutto consapevole con la mente. Fino a quando, un giorno, "precipitiamo" dal quotidiano in un ipotetico "deserto" e incontriamo il bambino che c'è dentro di noi, che vuole vivere e con semplicità ci prende per mano rivelando un modo alternativo ed essenziale di vedere, sentire e vivere la vita. Come ammonisce la volpe: "... non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".

Nella colonna di sinistra del blog alla voce "links utili" ho impostato il collegamento alla versione del libro (in formato .pdf) che potete, sia leggere direttamente sul vostro PC, che stampare.

Nello stesso elenco è riportato il link al sito ufficiale (affidabile) dal quale scaricare gratuitamente l'ultima versione del programma Adobe Reader (necessario per la lettura e stampa dei documenti in formato .pdf).

Gianpietro

12 gennaio 2009

Disse sì, ma non andò

Nell’azienda in cui lavoro, è stato assunto un giovane manager, amico di famiglia dell’amministratore delegato, che ha con il padre importanti relazioni d’affari; per questo motivo, è divenuto, in breve tempo, oggetto dell’antipatia di tutti, che non mancano di accusarlo, ripetutamente, di approfittare di questa amicizia. A me questo giovane piace, perché mi ha fatto dono delle sue confidenze e mi ha fatto conoscere un cuore buono e generoso, anche se non si cura molto dei colleghi, con i quali è sempre gentile, ma non parla, sostenendo che tutto quello che dice, viene poi usato contro di lui. Oggi mi ha detto che, dopo essersi innamorato, sposato e avuto un figlio, in poco più di un anno, ha deciso di incominciare, nella sua città, un’attività di volontariato, occupandosi dell’accompagnamento di persone non vedenti, perché ne incontra spesso e si è accorto che sono sempre soli. Questa notizia mi ha fatto pensare alla parabola del vangelo che racconta di due figli, che ricevono dal padre l’ordine di andare a lavorare nella vigna: il primo, più zelante, disse sì, ma non andò; il secondo rispose che non ne aveva voglia, ma poi pentitosi, andò. La società, in cui viviamo, è piena di persone fasulle, sempre pronte, a parole, a schierarsi per i più deboli, a rivendicare giustizia e a giudicare male, in modo fazioso, chi fa scelte politiche diverse dalle loro; ma poi, quando avrebbero l’occasione di agire in prima persona per questi ideali, si tirano indietro e pensano solo al loro interesse personale. Ci sono, invece, persone che vengono giudicate male, sulla base di pregiudizi, ma poi si rivelano infinitamente migliori dei primi. Questo è stato anche il motivo principale che mi ha spinto, all'inizio, ad occuparmi, in modo volontario e gratuito, principalmente di poveri e ammalati. Venivo da una situazione familiare di grande confusione: in poco tempo, tutte le persone, che pensavo di conoscere bene, avevano rivelato la loro zona d'ombra e sentivo un gran bisogno di autenticità, dimensione che ho sempre trovato nelle persone di cui mi sono occupata, perché i poveri e gli ammalati non usano tanti filtri, i primi perché non ne sentono la necessità, gli altri perché la loro debolezza fisica li rimuove. Cristina

11 gennaio 2009

I maestri di vita

Si dice che l’ottanta per cento delle nostre azioni sia dettato da invidia e da gelosia, sentimenti dai quali, quasi tutti, siamo soliti dichiararci immuni. Però, se ci pensiamo bene, quando, con un certo snobismo, diciamo di seguire delle guide o dei maestri, non facciamo altro che confermare questa tesi. Ci sono persone che dicono di seguire grandi maestri, come S. Francesco, Gandhi o, persino, Gesù Cristo; ce ne sono altre, invece, come me, che si accontentano di seguire esistenze molto più modeste. Un amico mi ha chiesto quali sono le pagine della letteratura, che mi hanno emozionato di più, sciorinandomi, con dovizia di particolari, quelle che lui stesso preferisce. A me non ne è venuta in mente nessuna, e penso farei lo stesso, se uno mi chiedesse quali sono i grandi personaggi della storia ai quali vorrei assomigliare. Ricordo, invece, molto bene, tutte le persone semplici, che mi hanno dato grandi lezioni di umanità. Condivido con una collega la conoscenza di un uomo buono e mite, che lavora, come segretario, in una comunità. Pochi sanno che trent'anni fa, in un terribile raptus che durò trenta minuti, uccise la madre e la fidanzata, delitto per il quale, naturalmente, rimase a lungo detenuto in un carcere psichiatrico. Cambiò la mia vita, quando raccontò che la sua rinascita è cominciata quando, uscito dal carcere, la mia collega, moglie di un volontario che lo seguiva e lo aveva invitato a cena, gli mise tra le braccia il suo bambino appena nato: non gli aveva messo tra le mani, come siamo soliti fare, le cose usate, che ci siamo stancati di indossare e che diamo ai poveri per pulire gli armadi, ma la cosa più bella e più preziosa della sua vita. La lezione, però, non mi viene tanto dalla mia collega, il cui gesto, mi ha confessato, è stato piuttosto istintivo e inconsapevole, ma da lui stesso, che ha saputo dare un significato così profondo ad un gesto ordinario e per molti senza senso e farne il punto di partenza per il riscatto di una vita, che sarebbe potuta andare perduta. Cristina

9 gennaio 2009

OSCAR e la vita

(pag. 85) La vita è uno strano regalo. All’inizio lo si sopravvaluta, si crede di aver ricevuto la vita eterna. Dopo lo si sottovaluta, lo si trova scadente, troppo corto, si sarebbe quasi pronti a gettarlo. Infine ci si rende conto che non era un regalo, ma solo un prestito. Allora si cerca di meritarlo.

Non occorrono molti commenti. OSCAR esprime un proprio punto di vista. Lo si può condividere o meno, ma resta pur sempre un’occasione di riflessione. Suddividere la vita in tre età è un classico nell’arte come nella mitologia, fino al mortale quesito posto dalla Sfinge ad Edipo. Personalmente, diversamente dall’impostazione di OSCAR, avrei invertito i riferimenti tra i primi due periodi. La scarsa considerazione che sembra abbiano i giovani della vita, spesso affrontata in modo esagerato e con incosciente noncuranza verso il rischio (anche quando coinvolge gli altri), mi porta a credere che essi le attribuiscano un valore scadente, disponibili anche a gettarla senza la prospettiva di un’adeguata contropartita. Ricordo che anch’io, da giovane, non mi ponevo il problema della sua durata ed anzi ero spaventato dall’idea di dovere invecchiare. È quando si cominciano a compiere scelte importanti (lavoro, affetti, famiglia, impegno sociale) che le aspettative vengono proiettate verso un futuro sempre più lontano. È nel periodo dell’accumulo (mi riferisco ai beni materiali), giustificato (mistificato), il più delle volte, con il desiderio di garantire un futuro (sicuro?) ai figli, che nell’adulto si insinua il dubbio di non riuscire ad avere il tempo bastevole per portare a termine quello che reputa essere il proprio compito. È in questa fase che si vive come se fosse per sempre. Secondo OSCAR la terza età è quella della ricerca. La vita viene ridimensionata, passando da regalo a semplice prestito “che va meritato”. Forse avrebbe dovuto scrivere “che va restituito”, a differenza di quanto si fa con i regali. Sia il regalo che il prestito andrebbero tuttavia meritati. Il primo, per sua caratteristica intrinseca, più ancora del secondo. Convengo sull’idea della ricerca come compito per la terza età, quella della saggezza. Peccato che il più delle volte la si attraversa restando bloccati dai lacci annodati nelle età precedenti e che ti soffocano come un rampicante a lungo trascurato. Succede poi che se anche hai avuto l’accortezza di mantenere aperto un varco verso la vita, dallo stesso sono fuggite anche le potenzialità, fisiche e psichiche, che possedevi. La ricerca, inoltre, richiede tempo e questa è una dote sulla quale, da vecchio, non puoi fare affidamento. Mi restano ancora forti dubbi circa l’immagine della vita come “prestito”. La ragione mi dice che l’umanità è solo uno dei tanti prodotti della natura (neanche dei meglio riusciti) e che gli elementi chimici, che, unendosi, ci compongono, ritorneranno alla natura una volta completato il loro breve ciclo di vita, consumati come le pagine di un libro restituito alla biblioteca. Il cuore mi spinge invece a credere che disponiamo di un’anima, che è la vera proprietaria del nostro corpo e che si serve della natura per crearlo e ricrearlo in un percorso lungo tanti cicli di vita quanti le occorreranno per raggiungere il suo obiettivo. È solo sviluppando questa seconda visione che si può parlare di “ricerca del merito”. Per ora altro non so. Gianpietro

7 gennaio 2009

La responsabilità individuale

Questa mattina, alzandomi per andare al lavoro, dopo qualche giorno di vacanza, vedendo la salita dei garage coperta di neve, ho avuto la tentazione di rimettermi a dormire. Un tempo, prima ancora di alzarmi, capivo che durante la notte aveva nevicato, dal rumore della pala, che mio padre e mia madre usavano per pulire il cortile, per poter uscire con la macchina. Adesso, che ho la loro età di allora e che dovrei farlo io, generalmente, vado a piedi, fino a che la neve non si è sciolta da sola. Non solo i trentenni, che continuano a vivere con mamma e papà, ma tutti noi siamo diventati una società di bamboccioni dove, anche per i problemi più gravi, le responsabilità individuali sono state sostituite da istanze collettive e, se c’è un problema, è sempre colpa di così tante persone che, alla fine, non è mai veramente colpa di nessuno. Di tutti i palestinesi, che adesso scendono in piazza e bruciano le bandiere di Israele, non ne ho sentito uno assumersi la responsabilità di aver eletto un governo irresponsabile, che porta avanti una politica scriteriata, senza considerare le conseguenze. E tra gli israeliani, che da anni rivendicano il diritto all’autodifesa, non ho mai sentito nessuno ammettere che l’occupazione di territori, in deroga ai patti, non ha facilitato il raggiungimento della pace. Anche nel servizio, capita che qualche assistito ci ferisca, con alcune insinuazioni, o ci colpevolizzi per qualche omissione: a me è successo poche volte e sempre ho fatto finta di niente, o quasi, ma ricordo un avvertimento che mi diede subito un’assistente sociale che, a quei tempi, collaborava con EmmauS: mi disse che ogni persona, anche la più inferma, la più debole, fino al suo ultimo soffio di vita, è capace di fare del male ad un altro. Dalle persone che assisto, ho sempre ricevuto, certamente, molto più bene, che male, ma il principio di responsabilità individuale rimane, effettivamente, per tutti gli essere umani, capaci di intendere e di volere, e nella nostra vita collettiva ad ognuno è richiesto di fare la propria parte per il bene degli altri. Cristina

6 gennaio 2009

OSCAR e la sofferenza

(pag. 54) Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu.
(pag. 55) La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si s
ceglie.

Mi ero annotato questo tema, decidendo di tenerlo in sospeso sino a quando non fosse diventato oggetto di un post. Ora il post di Cristina, “La notte oscura” mi consente di affiancare le mie alle sue considerazioni, ottenendo una panoramica più articolata. Gli autori citati da Cristina trasformano la sofferenza in piacere ad imitazione della passione di Cristo e quindi come mezzo utile per l’acquisizione di meriti soprannaturali. Nella visione di Cristina la sofferenza è inevitabile (punto di vista sostenuto anche da OSCAR) e quindi può derivarne una forma di utilità solo a condizione che quella “notte oscura” funga da luogo di gestazione per sentimenti positivi (amore, compassione, pietà, godimento per la bellezza del creato). OSCAR aggiunge la distinzione tra sofferenza fisica e morale sostenendo che la prima, inevitabile, incide negativamente sul nostro animo solo se siamo noi a permetterlo. Credo sia vero, anche se occorre una forza di carattere ed una consapevolezza fuori dal comune per evitare che il protrarsi e l’intensificarsi della sofferenza fisica finiscano con il fiaccare le resistenze della mente e del cuore. Soffrire fortifica. Solo chi ha fatto la fame sa dare il giusto valore al pane avanzato. Così dicono i nostri vecchi. Le nuove generazioni vengono su viziate, incapaci di affrontare le sfide della vita; sono esposte a tutte le tentazioni, perché sono state allevate nella bambagia, perché non conoscono la sofferenza. Anche questo si sente dire. Significa allora che soffrire è necessario? Che dobbiamo augurarci l’avvento di periodi di carestia, di conflitti sempre più estesi? Dobbiamo rinnegare i progressi compiuti della medicina, sia nel prevenire e curare le malattie, che nell’alleviare le sofferenze? Più d’uno auspica la rinuncia a combattere le manifestazioni negative della natura, affidandosi alla sua presunta saggezza equilibratrice, anche quando è stato proprio l’uomo la principale causa del loro degenerarsi. Se posso, contro ciò che subisco, io mi ribello e adotto ogni misura che la cultura e la tecnica mettono a disposizione. C’è poi il secondo aspetto citato da OSCAR, quello della sofferenza morale. Premetto che ancora non ho ben chiaro a cosa si debba fare riferimento. Se alla sensazione di malessere psichico che si prova quando si è di fronte a negatività od a sofferenze che non ci toccano direttamente (il mio cuore piange per il barbone morto di freddo - al quale tuttavia ho sottratto la coperta perché creava un danno d’immagine), o se si deve invece intendere qualcosa di più diretto, di più personale, non necessariamente collegato a fattori ed eventi esterni. Nel nostro servizio di volontari siamo esposti a sentimenti che possono essere associati alla sofferenza morale, ma a ben analizzarli hanno nomi diversi, quali solidarietà, compassione, pietà, magari rabbia, senso di inadeguatezza o di impotenza. Ci possiamo sentire vicini al nostro assistito, partecipare alla sua sofferenza, ma non credo sia realistico affermare di comprenderla, men che meno di scegliere di viverla in prima persona. Il tema è delicato e si presta a molte interpretazioni. C’è forse qualcuno che possa vantare una pretesa di verità sul concetto di sofferenza? Se ne potrebbe parlare in termini generali, cattedratici, ma non servirebbe a molto. Perché non ne parliamo su questo blog partendo dalle vostre esperienze personali? Gianpietro

5 gennaio 2009

La notte oscura

L’utilità del dolore è sempre stato un tema a lungo dibattuto, soprattutto dalla speculazione cristiana che, in S. Giovanni della Croce e Edith Stein, per citarne solo alcuni, vede addirittura la sofferenza come partecipazione volontaria alla passione di Cristo, e purificazione dell’anima, che vuole unirsi totalmente a Dio, in modo permanente.
Nella mia esperienza, non saprei davvero dire se il dolore sia mai servito a qualcosa o se, invece, mi abbia reso peggiore di quella che sarei potuta essere, in una vita senza. Quello che possiamo certamente dire è che è quasi impossibile vivere una vita intera senza fare questa esperienza. Credo, quindi, si possa parlare di necessità, prima che di utilità. Parlare di utilità del dolore con gli ammalati gravi, o quelli che hanno subito una grave perdita, o quelli che stanno facendo un’esperienza di depressione, è sempre un grave errore: provoca irritazione e, giustamente, ribellione. Una discussione sul dolore si può fare solo con chi ha già superato questa fase di scoraggiamento e, in qualche modo, è già riuscito ad attraversarlo. È un discorso che si può fare solo a posteriori. Sulla mia esperienza del dolore, posso allora dire che, tutte le volte, la guarigione è incominciata nel momento, che S. Giovanni della Croce chiama della ‘notte oscura’, in cui ci accorgiamo che quel buco nero, che abbiamo dentro, non è un vuoto desolante, ma un cuore palpitante, che incomincia a sentire, di tanto in tanto, il tepore di una fiamma che lo scalda: può essere l’amore per qualcuno, ma anche la compassione, la pietà per il mondo che ci circonda, oppure il godimento per la bellezza del creato. E’ una fase poco stabile, in cui diversi sentimenti, spesso contrastanti, si alternano: serenità, pace, poi ancora depressione, sfiducia, mancanza di senso, ma già si avverte che non sarà per sempre. Cristina

3 gennaio 2009

il silenzio

Casualmente, alcuni giorni fa ho ascoltato per radio l’intervento di un esponente della chiesa (non ricordo né il nome, né il ruolo nella gerarchia ecclesiastica) incentrato sulla valorizzazione del ruolo avuto dei papi nella querelle che riguarda la (mancata) presa di posizione nei confronti delle leggi razziali e la successiva persecuzione degli ebrei da parte dei regimi fascisti e nazisti. Mentre con riferimento a Pio XI l’oratore enfatizzava le occasioni nelle quali il papa aveva espresso la propria contrarietà alle politiche antisemite del governo di Mussolini, per il successore, Pio XII, il ragionamento veniva portato sul piano della contestualizzazione storica. In sintesi: non si possono estrapolare i giudizi dal contesto storico nel quale si collocano gli eventi. Il silenzio di Pio XII va pertanto letto come consapevolezza dei rischi che una sua parola di esplicita condanna avrebbe comportato per il popolo ebreo. A sostegno dell’affermazione citava due episodi. Uno recente: i disordini succedutisi alla lezione magistrale tenuta da Benedetto XVI a Ratisbona nel settembre 2006. Ed uno legato alla forte presa di posizione della chiesa olandese dalla quale il relatore faceva discendere l’episodio noto come “notte dei cristalli” quando, tra il 9 e 10 novembre 1938, vennero uccise 91 persone, rase al suolo dal fuoco 267 sinagoghe e devastati 7500 negozi (nei giorni immediatamente successivi circa 30 mila ebrei vennero deportati nei campi di concentramento). E’ del tutto irrilevante la rispondenza storica delle affermazioni citate e che personalmente non mi sento di suffragare, tuttavia ciò che mi colpisce è l’assioma che emerge: rischio = silenzio.
È giusto tacere di fronte al male per timore della reazione di chi lo commette ? Deve forse considerarsi colpevole la chiesa olandese per le persecuzioni naziste, ammesso e non concesso che il suo intervento le possa avere provocate ? È forse colpevole il collaboratore di giustizia per le vendette trasversali che colpiscono la sua famiglia ? Dobbiamo voltare la testa di fronte alle sopraffazioni per timore che chi le commette ne accentui la crudeltà ? Gianpietro

2 gennaio 2009

Contributo alla riflessione sul testamento biologico

Oggi ho ascoltato la registrazione di un incontro che si è svolto il mese scorso nella nostra città, dove don Giovanni Nicolini ha voluto offrire il suo contributo alla riflessione sul testamento biologico. Dice che, su questo argomento, sono tre le considerazioni che, a suo avviso, occore fare. Prima di tutto, che il progresso tecnologico e la cultura, cioè la nostra capacità di comprenderlo, non vanno di pari passo, perché mentre il primo procede velocemente, la cultura richiede tempi più lunghi, e se non rispettiamo questi tempi, rischiamo che il progresso usi noi, invece di essere noi ad usarlo e, soprattutto, si finisce per irrigidirsi in posizioni dogmatiche e inutili. La seconda considerazione è che il testamento biologico, per il quale lui è comunque favorevole, è l'espressione di una grande solitudine: ha ricordato che un tempo, al suo paese, quando moriva qualcuno, la gente si raccoglieva davanti alla porta di casa, aspettando il prete, che veniva con tutti i paramenti sacri, e diceva formule come: "Proficisce", che significa "Puoi partire": era il commiato di chi in terra pregava il cielo di accogliere colui che stava per morire; e la morte diventava così una liturgia. Oggi, molto spesso, la morte viene vissuta in solitudine e di nascosto, e da qui il bisogno di lasciare scritto che cosa si deve fare, perché in quel momento forse non ci sarà nessuno che lo potrà fare per noi. La terza riflessione è che, mentre noi stiamo a discutere se accettare o no la morte in modo naturale, tremila chilometri a sud, in Africa, non c'è niente di tutto questo; ci sono, invece, persone che potrebbero vivere, ma muoiono per malattie, a volte banali, perché non ci sono soldi per comprare i farmaci. E allora forse sarebbe bello che ci fosse anche una legge che ci consentisse di rinunciare a cure costose e inutili a favore di chi, in questi paesi, ha malattie curabili, ma non ha i soldi per curarsi. Io penso che il grande merito che hanno avuto, fin dall'inizio, quelli che si sono fatti promotori di una legge sul testamento biologico, sia stato quello di averci sollecitato a riflettere sulla nostra morte, questo orizzonte della nostra vita che dovremmo sempre tenere presente; e ascoltando tutte le discussioni che ci sono state quest'anno su questo argomento, credo che con queste riflessioni siamo tutti cresciuti un po' e che la gente comune, e non lo penso solo io, sia diventata molto più matura e responsabile per prendere una decisione, di quanto non lo siano i vertici della Chiesa e dello Stato, che continuano a fare della vita e della morte una questione di potere. Cristina