31 gennaio 2012

Il valore della solitudine

“Da bambino sentivo di essere solo, e lo sono ancora oggi, perché conosco cose e debbo riferirmi a cose delle quali gli altri apparentemente non conoscono nulla, e per lo più nemmeno vogliono conoscere nulla. La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti, o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. La solitudine cominciò con le esperienze dei miei primi sogni, e raggiunse il suo culmine al tempo in cui mi occupavo dell'inconscio. Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario. Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell'amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario, e l'amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri.” Trovo che ci sia una profonda verità in questo inciso, tratto dall’autobiografia di Carl Gustav Jung. Oggi si parla molto di solitudine, ma stranamente la si associa sempre a stati depressivi, eccentricità, nevrosi, misantropia. Si insegna come fuggirla, la si paventa come minaccia, nessuno insegna ai giovani che essa è prima di tutto un valore, perché, come rileva giustamente Jung, è nel momento di differenziazione e non identificazione con l’altro che scopriamo la bellezza e il valore dell’incontro con tutto ciò che è al di fuori di noi. Invece, spaventati dalla solitudine, che tutti ci insegnano a temere, ci perdiamo in mille inutili cose, stordendoci con le false solidarietà, circondandoci di persone e di cose di cui poco ci importa, pur di non restare soli con noi stessi.

Certamente, ci sono anche forme di solitudine patologica, causate dalla incapacità di avere delle relazioni, ma queste restano nell’ambito della malattia e vanno curate per quello che sono. Io penso che una corretta pedagogia dovrebbe insegnare al bambino sia la solitudine, nella quale far crescere la sua capacità critica e creativa, sia la capacità di sviluppare relazioni corrette con gli altri. Osservo, invece, nei genitori un gran desiderio di vedere il bambino perfettamente integrato e socializzato e mal sopportano eventuali momenti di malinconia o di tristezza, quando lui si trova da solo e si annoia. Penso che quei momenti siano invece importantissimi per la sua crescita, perché impara a prendere coscienza della sua individualità e a ragionare con la sua testa e non come gli altri vorrebbero. Occorre anche dire che il percorso vero di relazione è quello lunghissimo e unificante del nostro mondo interiore con l’esterno e forse non basta una vita intera per imparare a percorrerlo. Non esiste però nessun percorso alternativo, nessuna scorciatoia. Certe droghe, e a volte anche l’alcool, producono questa profonda sensazione di armonia tra il dentro e il fuori, ma sappiamo bene che in quei casi è solo un’illusione e i danni che queste dipendenze provocano vanno ben oltre i benefici che si conseguono.

Anche tra gli anziani, che mi è capitato di assistere per il servizio, ho notato un uso eccessivo di antidepressivi, che io assimilo alle droghe, prescritti e somministrati il più delle volte senza nemmeno una psicodiagnosi attenta di un medico competente. Ma è chiaro che nell’età avanzata appare troppo tardi per fare qualsiasi altra cosa e l’educazione o l’auto apprendimento alla solitudine come valore andrebbero cominciati molto prima. Cristina

Il labirinto

Ho letto un articolo, piuttosto interessante, di Rossella Passavanti, sul simbolo del labirinto, che ha diversi significati, tra i quali quello della scelta dell’uomo che, a un certo punto della sua vita, si può trovare in una situazione nella quale non riesce a prevedere l’esito del suo cammino, ma comunque sceglie. L’individuo è all’interno del labirinto stesso e deve sapersi orientare, capire dove si trova per raggiungere il centro, la meta. Una situazione questa molto comune, eppure non penso ci abbiamo mai riflettuto molto e questo perché, ricorda sempre la Passavanti, l’uomo moderno è abituato a procedere in forma assolutamente binaria, ossia per sì o no, per il buono contrapposto al male, e con questi parametri crede di essere in grado di giudicare tutto. Ma questa semplificazione tra buono e cattivo è un errore, perché quello che è cattivo oggi è il buono di ieri e ciò che oggi potrebbe considerarsi buono è stato cattivo in tempi passati. Questo pensiero in questi giorni mi sta facendo riflettere sulla mia vita, ma anche su quella delle persone che assistiamo, che spesso si trovano a dover prendere delle decisioni importanti sulla loro vita, sulla loro salute, sulla loro famiglia, pur senza poter conoscere l’esito della loro decisione. Porterà dei benefici quella cura costosa o dolorosa che i medici hanno consigliato o sarà l’ennesimo esperimento di una medicina che a volte procede in modo empirico, senza pensare che il malato non può essere una cavia di laboratorio? Oppure, come sarà la vita della mia famiglia con un malato in casa e sarò in grado di assisterlo bene e serenamente e con gioia, senza alimentare conflitti e malumori, sacrificando la mia vita, quella dei miei familiari e, alla fine, anche quella del malato, che finirò per detestare? Io penso che ci aiuti già molto la consapevolezza di trovarci dentro un labirinto, nel quale dobbiamo per forza trovare l’orientamento, senza il quale non è possibile trovare la via che ci liberi dalla confusione e dalla sensazione di sentirci irrimediabilmente persi. Molto efficace, a questo proposito, è il mito di Arianna, che diede a Teseo un gomitolo di lana (il proverbiale filo d'Arianna) per poter segnare la strada percorsa nel labirinto e quindi uscirne agevolmente. Anche noi, dunque, quando ci troviamo in una situazione di immobilità, dobbiamo cercare il filo che ci porti fuori dal labirinto, la forza dinamica cioè che mette in moto la nostra volontà. Anch’io mi sono trovata, a un certo punto, in un labirinto, in cui mi sembrava di non andare più né avanti né indietro e in cui la vita non era né buona né cattiva, ma ferma. Poi, ho trovato il mio filo di Arianna e così ho ripreso il cammino con gioia verso l’uscita. Cristina

26 gennaio 2012

Alcuni aspetti psicologici del servizio

"Per essere puro il servizio deve essere anzitutto amorevole, saggio, misurato, delicato, opportuno, sostanzioso, prolungato quanto basta, innocuo, discreto, intelligente, non ostentato, non sottolineato, non bisognoso di plauso, non rivendicato, paziente, dignitoso, disinteressato, non egocentrico competente, efficace, tempestivo e così via." In un articolo sul servizio, lo psicologo Piermaria Bonacina cerca di dare una definizione ideale del servizio, che comunemente chiamiamo volontariato. E’ abbastanza evidente, però, che ben difficilmente ci potremo riconoscere in una simile definizione. Questo avviene principalmente perché nell’uomo agiscono simultaneamente istinti contrari che vale la pena riconoscere per correggere quelli negativi che rischiano di rendere vano il nostro impegno. Certamente nel servizio prevalgono gli istinti positivi: la bontà, l’amore, la solidarietà, la comprensione e altri ancora. Latenti, però, agiscono anche fattori piuttosto insidiosi che possiamo facilmente riconoscere negli altri, ma facciamo fatica a riconoscere in noi stessi, se non quando esplodono, creando conflitti e malumore. Tra questi istinti negativi, c’è il desiderio di potere e proprio recentemente un mio conoscente, che aveva grandi meriti per avere costituito una cooperativa no profit, ha dato le dimissioni, per non essere stato rieletto presidente del consiglio di amministrazione, per la prima volta, dopo tanti anni. Una grande incoerenza in una persona che si pensava impegnata per un bene comune e non solo per una questione di prestigio personale. Un altro aspetto negativo è il sentimentalismo, che porta con sé latente il desiderio di ringraziamento. Con gli ammalati questo aspetto resta nascosto, perché generalmente sono tutti molto grati del servizio che svolgiamo, mentre nei luoghi dove esiste un disagio di povertà, questo desiderio è più evidente, e sono tante le persone che svolgono un servizio e si lamentano che i poveri non ringraziano nemmeno, dimenticando che chi è povero e derelitto è molto più facile che sviluppi sentimenti aggressivi e rivendicativi, che non la riconoscenza. Un altro aspetto negativo, che si può definire proprio della personalità immatura, è la tendenza a mettersi al posto dell’altro, ma non per comprenderlo, bensì per pretendere che faccia quello che noi faremmo se ci trovassimo nella stessa situazione, dimenticando che noi in quella situazione non ci siamo e molto probabilmente non ci saremo mai. Ci può essere, infine, il desiderio di evasione: il volontariato come evasione da un quotidiano che non vogliamo affrontare. Nella mia stessa esperienza di servizio, ho visto sviluppare, di volta in volta, una parte di questi aspetti negativi e sempre li ho osservati sorprendendomi, perché non pensavo mi appartenessero. In questo senso, dunque, il servizio può essere un test prezioso, che permette di conoscerci meglio e correggere, quando è necessario, un comportamento sbagliato. Cristina

24 gennaio 2012

La piccola fiammiferaia

Le relazioni con le persone che assistiamo, per il servizio o in famiglia, non vanno sempre bene, e in questo caso occorre avere il discernimento per trovare un rimedio o una soluzione alternativa, perché aiutare gli altri deve essere sempre una gioia, e se si arriva a farlo mal volentieri diventa controproducente per noi e per l’altro e una situazione già di per sé critica può degenerare e diventare insostenibile per entrambi. Una volta che abbiamo messo la solidarietà tra i valori intorno ai quali orientare la nostra vita, diventa difficile ammettere la sconfitta, ma se ragioniamo in termini di successo o fallimento sbagliamo, perché non c’è solidarietà verso gli altri se restiamo dentro queste categorie materiali e non facciamo nostra invece l’umiltà di riconoscere che abbiamo dei limiti, e che non dobbiamo perseguire nessuna vittoria, ma solo cercare, in ogni situazione, una soluzione ragionevole ed equilibrata, per vivere serenamente insieme agli altri. Le soluzioni da prendere, in questi casi, possono essere graduali e spesso non è nemmeno necessario ricorrere a soluzioni drastiche. F. - un’amica con la quale condividevo una assistenza a domicilio - presa dall’entusiasmo degli inizi, andava due giorni alla settimana. Dopo un po’, incominciò a sentire la stanchezza di questo servizio e un po’ mortificata chiese di poter andare solo una volta. Poi, quando anche questa periodicità finì per renderla nervosa e stanca, ogni volta che usciva da quella casa, chiese di andare ogni quindici giorni, alternando quel servizio con un altro, presso un’altra persona, e le cose incominciarono ad andare molto meglio. In “Donne che corrono con i lupi”, la psicologa Clarissa Pinkola Estés descrive molto bene la situazione paralizzante in cui la donna (ma questo succede, a mio avviso, anche agli uomini) resta ferma in una situazione critica per viltà, paura, sensi di colpa o altro e per farlo si serve di una favola, “La piccola fiammiferaia”, che è la storia di una bambina che vive nei boschi al freddo e ha intorno a sé persone che non si curano di lei e non comprano i suoi fiammiferi. Invece di allontanarsi da quel luogo gelido, si culla nei sogni e alla fine muore per il freddo. “La donna congelata, priva di nutrimento, tende a elaborare continui sogni ad occhi aperti, sul "come sarebbe se": un bel giorno…, se solo avessi…, lui cambierà…, quando sarò davvero pronta…, quando mi sentirò più sicura…, quando troverò un altro. Ma questa fantasia confortevole è una fantasia che uccide. E' una distrazione seducente e letale dalla realtà.”Per tornare al nostro servizio, mi è stato molto utile, in questi anni, il discorso che mi fece un’assistente sociale, con la quale mi trovavo, periodicamente, agli inizi del volontariato, per discutere la situazione particolarmente difficile di una malata oncologica, che non aveva una famiglia che la seguisse. L’assistente sociale mi disse di ricordare che ogni persona ha in sé, fino alla fine, la capacità di fare del male a un altro e che non bisogna idealizzare mai troppo il volontariato né sentirci superiori e capaci di affrontare tutte le situazioni sempre e da soli. Diversamente dalla piccola fiammiferaia, dobbiamo evitare il facile ottimismo e le idealizzazioni e vigilare sempre sul nostro bisogno di equilibrio e di calore nella vita e fuggire dai luoghi freddi, a volte anche la nostra stessa famiglia, dove rischiamo di morire. Cristina

23 gennaio 2012

Il cielo è per tutti

Nascosta in ogni uomo, c’è una sorgente di gioia che il nostro egoismo, la nostra avidità e gli avvenimenti della vita tendono a inaridire. Ma se vogliamo diventare volontari e aiutare il prossimo, dobbiamo ritrovare questa sorgente, perché il primo dovere di un volontario è quello di irradiare gioia e serenità a questa umanità che soffre, ha paura e spesso vive nell’angoscia. Mi hanno raccontato che una volontaria era solita recarsi da una anziana ammalata, che viveva costantemente a letto. La volontaria, china sull’ammalata, mentre le rassettava le lenzuola, riversava su di lei tutti i problemi e il malcontento della sua vita. A un certo punto, l’anziana malata le disse in dialetto: “La guerda sgnora che me 'd problema agh'no a bel a se di me/Guardi signora che io di problemi ne ho già abbastanza dei miei”. Ma come facciamo, allora, a mostrare un volto lieto e sereno, quando non solo la nostra, ma la vita di tutti, è così piena di problemi e di insidie? Penso che occorra un lungo lavoro su se stessi prima di trovare, nella propria vita, un centro di calma, di armonia, di soddisfazione; e il percorso, il più delle volte, non è lineare, ma costellato da frequenti ricadute. Credo che occorra, innanzi tutto, passare in rassegna tutto ciò che ci provoca dolore e malcontento. Per prima cosa, ci sono gli eventi negativi gravi, che ci sono capitati nella vita: la morte di una persona, una delusione d’amore, una malattia grave, la perdita del lavoro e tanti altri. A questi eventi negativi, istintivamente, noi ci attacchiamo e se non opponiamo un fermo rifiuto a questo attaccamento, essi finiscono per avvelenarci la vita, anche quando fanno parte, irrimediabilmente, del passato e non potrebbero più nuocerci. Il passato, se ci ha provocato dolore, non è più in grado di farci del male, ma continua a farcelo se noi lo permettiamo, amplificando questi eventi nella memoria e ridandogli forza. Per questo, molto spesso, a meno di non avere gravi disturbi della psiche, è meglio non ricorrere a psicologi e psichiatri, perché essi non fanno altro che amplificare problemi del vissuto, che un io normale è perfettamente in grado di attraversare da solo, ma lo può fare solo se li ridimensiona e attribuisce a questi l’esatta posizione nel tempo e nello spazio, e non se li fa rivivere in continuazione. Poi, ci sono gli avvenimenti negativi che portano dolore nel presente e verso questi credo che la fonte maggiore di sofferenza non siano tanto gli avvenimenti stessi, ma la nostra ribellione. Quante persone sento lamentarsi perché hanno un nonno in casa che non ci sta più tanto con la testa oppure un figlio che non vuole fare l’università o uno stipendio che non basta per far fronte alle necessità della vita. Sono certa che se smettessimo di brontolare in continuazione su queste situazioni così comuni, troveremmo facilmente un rimedio. Un altro atteggiamento, che il più delle volte ci permette di soffrire meno, è quello di essere meno esigenti. Se analizziamo bene i motivi del nostro scontento, le ragioni vere non sono nelle cose stesse, ma nel fatto che esse non rispondono alle nostre aspettative e, se analizziamo bene queste aspettative, scopriremo che non sono nemmeno nostre, ma sono solo costruzioni mentali, che ci derivano in buona parte dall’esterno, dalla società, dove, al centro, non c’è la felicità dell’uomo, ma solo interessi economici e consumistici. Infine, il sistema migliore per purificarci dall’egoismo, che il più delle volte è la principale causa della nostra sofferenza, penso sia quello di coltivare la gratitudine per tutte le cose belle che abbiamo intorno e che diamo per scontate. Sono tante e alcune sono diverse per ciascuno di noi, ma ne indico una che è per tutti ed è il cielo, riportando questo suggestivo passaggio di Ruskin tratto da "Lo sviluppo transpersonale" di R. Assagioli: "Strano come la gente conosca poco il cielo. Esso è la parte del creato in cui la natura ha espresso meglio che altrove il suo evidente proposito di ricreare l’uomo, di parlare al suo spirito, di educarlo. Ed è appunto la parte educativa che conosciamo meno. Qualunque persona, dovunque situata e comunque lontana da ogni altra fonte di attrazione o di bellezza, ha questo almeno in ogni momento: il cielo. I più nobili miracoli della terra possono essere visti e conosciuti da pochi, né uno è destinato a vivere in mezzo a essi continuamente; cesserebbe di sentirli se li avesse sempre davanti agli occhi. Ma il cielo è per tutti. Il cielo è eminentemente adatto in tutte le sue funzioni a confortare ed esaltare i cuori, a blandirli e liberarli dalle loro impurità." Cristina

21 gennaio 2012

Il guardiano del faro

Nel volontariato, troppo spesso dimentichiamo che il primo e più urgente dovere è quello di migliorare noi stessi. In uno dei suoi saggi aforismi, Tagore diceva: “Chi è troppo assorto nel fare il bene, non ha tempo per essere buono”. “Ogni anima che si eleva, eleva il mondo” diceva la mistica Elisabetta Leseur. Troppo spesso, invece, ci affaccendiamo solo per aiutare gli altri e se vogliamo analizzare bene i motivi che ci stanno dietro, scopriamo a volte che dietro l’oro che luccica ci sono solo presunzione, vanità e un vago desiderio di acquietarci la coscienza. Ma anche quando le nostre motivazioni sono pure, si possono commettere lo stesso degli errori, per una concezione troppo rigida ed esteriore del dovere. “Evitiamo – diceva Maurice Maeterlink – di agire come il guardiano del faro di cui parla la leggenda, il quale distribuiva ai poveri delle vicine capanne l’olio delle lampade che dovevano rischiarare l’oceano. Ogni anima, nel suo centro, è la guardiana di un faro più o meno necessario. La madre più umile, che si lascia rattristare, assorbire, annientare tutta dai suoi ristretti doveri di madre, dà il suo olio ai poveri e i suoi figli soffriranno durante tutta la vita per il fatto che l’anima della loro madre non sia stata tanto chiara quanto avrebbe potuto esserlo. La forza immateriale che riluce nel nostro cuore deve risplendere anzitutto per se stessa. Solo in tal modo essa potrà risplendere per gli altri. Per quanto sia piccola la vostra lampada, non date mai l’olio che l’alimenta, ma la fiamma che la incorona.” Ho avuto più di una occasione per ricordare la saggezza di questo monito soprattutto alle donne, che spesso si assumono compiti, in famiglia e sul lavoro, che vanno oltre le loro forze fisiche e morali e dopo un po’ stremate non hanno più nulla da dare, se non la loro stanchezza. Cristina

20 gennaio 2012

Ah sì?

Il nostro tempo è caratterizzato da una grande entropia. Si agitano tutti come mulini a vento per niente e quando invece c’è qualche problema serio da affrontare, si fa di tutto tranne quello che sarebbe più opportuno o sensato fare. Ci si arrovella inutilmente sul futuro e ci si dimentica di vivere il presente. A questo proposito, c’è una storiella zen, che mi mette sempre di buonumore e che nella sua semplicità contiene una profonda saggezza.
"Il maestro di Zen Hakuin era decantato dai vicini per la purezza della sua vita. Accanto a lui abitava una bella ragazza giapponese, i cui genitori avevano un negozio di alimentari. Un giorno, come un fulmine a ciel sereno, i genitori scoprirono che era incinta. La cosa mandò i genitori su tutte le furie. La ragazza non voleva confessare chi fosse l'uomo, ma quando non ne poté più di tutte quelle insistenze, finì col dire che era stato Hakuin. I genitori furibondi andarono dal maestro. "Ah sì? " disse lui come tutta risposta. Quando il bambino nacque, lo portarono da Hakuin. Ormai lui aveva perso la reputazione, cosa che lo lasciava indifferente, ma si occupò del bambino con grande sollecitudine. Si procurava dai vicini il latte e tutto quello che occorreva al piccolo. Dopo un anno la ragazza madre non resistette più. Disse ai genitori la verità: il vero padre del bambino era un giovanotto che lavorava al mercato del pesce. La madre e il padre della ragazza andarono subito da Hakuin a chiedergli perdono, a fargli tutte le loro scuse e a riprendersi il bambino. Hakuin non fece obiezioni. Nel cedere il bambino, tutto quello che disse fu: "Ah sì?". Cristina

Sotto la presa dell'amore

Nella malattia o accanto alla malattia, ci può capitare di vivere nello spazio angusto di una stanza di ospedale o di un ospizio, termine che l’evoluzione linguistica ha reso meno inquietante con parole come “centro residenziale” oppure “struttura”; resta il fatto, comunque, che in quegli spazi ristretti possiamo sentire un senso di angoscia e di oppressione. Un limite questo che solo gli innamorati sembrano non conoscere. Negli anni ’60, Gino Paoli cantava “Il cielo in una stanza” e diceva che quando lei era vicino a lui quella stanza non aveva più le pareti, ma solo alberi infiniti, e il soffitto non esisteva più e al suo posto vedeva, in alto, il cielo. Un altro innamorato, questa volta però di Dio, il mistico Carlo Carretto, scriveva: "Avevo fatto del treno il "luogo " della mia preghiera. Facevo il pendolare per motivi di lavoro e tu sai cos'è un vagone ferroviario che parte e arriva in città, al mattino e alla sera, stracarico di operai e studenti. Chiasso, risate, fumo, trambusto, pigia-pigia. Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla. Leggevo il Vangelo. Chiudevo gli occhi. Ascoltavo Dio. Che dolcezza, che pace, che silenzio! La potenza dell’amore superava la dispersione che cercava di penetrare nella mia fortezza […] Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre. Sotto la presa dell'amore ero in pace. Sì, doveva essere proprio l'amore a creare unità in me. Difatti gli innamorati che si trovano sul treno bisbigliavano tra di loro in perfetta armonia, senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno. Io bisbigliavo col mio Dio." Cristina

19 gennaio 2012

Nell'eterno azzurro

“L’igiene fisica – scriveva Roberto Assagioli, negli anni ’70 - ha fatto negli ultimi 50 anni grandi progressi: i grossolani errori di un tempo sono evitati, i corpi sono sempre più esposti agli influssi benefici degli elementi naturali e nutriti con cibi più adatti. Per quanto riguarda, invece, l’igiene psichica, siamo ancora a 50 e più anni fa. In questo campo regnano ancora grande ignoranza, incoscienza, leggerezza, si manca di ogni elementare cautela. Chi prenderebbe cibi senza curarsi se siano o meno sani? Chi ingerirebbe dei farmaci scegliendoli solo in base al loro sapore più o meno gradito senza curarsi della loro composizione e dei loro effetti? Eppure facciamo continuamente proprio questo con quelle medicine e quei veleni psichici che sono le compagnie, gli spettacoli, le letture e così via. […] E’ quindi norma fondamentale di sana vita psichica l’evitare il più possibile gli influssi nocivi dell’ambiente.” Assagioli fu un grande psichiatra del ‘900 stranamente non tanto ricordato in Italia, dove visse buona parte della sua vita. Il tema che ho riportato è di fondamentale importanza per chi, come noi, sta accanto al disagio, alla malattia e alla morte, ma penso che sia ugualmente importante per tutti, perché è praticamente impossibile, e non sarebbe nemmeno raccomandabile, estraniarsi dalla vita. Così, quando i nostri doveri ci obbligano ad esporci alle infezioni psichiche della vita moderna, dovremmo stare ben vigili e purificarci, lavando e disinfettando spesso la psiche, come fanno i dottori e le infermiere, che lavorano in corsia fra i malati, ma si salvaguardano con opportune cautele e disinfezioni. Assagioli spiega che ci sono modi facili ed efficaci per farlo e uno, che ho sperimentato più volte io stessa, è l’uso di motti, frasi e brani suggestivi. “L’esercizio di suggestione consiste nel ripetere a se stessi, o nell’ascoltare da altri, delle parole o frasi esprimenti le suggestioni adatte allo scopo. Possiamo lasciarci penetrare da quelle frasi anche per via visiva. Possiamo cioè scriverle e poi osservarle in uno stato di rilassamento, di calma, di raccoglimento, di ricettività dell’inconscio, sì che il loro significato possa penetrare ed operare profondamente in noi.” La mia casa e le pareti del mio ufficio sono piene di queste frasi e parole, che ogni tanto, però, vanno cambiate, perché perdono il loro effetto; poi, trascorso un periodo di tempo, si possono riutilizzare. Ne cito solo una - la mia preferita - che evoca la pace, la solenne quartina dell’Amiel: “Nell’eterno azzurro dell’insondabile spazio si avvolge di pace il mondo agitato. Uomo avvolgi così i tuoi giorni – sogno che passa – del cielo sereno della tua eternità.” Cristina

La materia

“Così ho scoperto il gusto del lavar la biancheria sporca. Non avendo la corrente elettrica non ho la lavatrice e debbo farlo a mano. Ma forse proprio questa manualità stabilisce tramiti più diretti tra me e le cose. […] Certo per coglier la bellezza delle cose e dei processi che le modificano, le rigenerano e le pongono al nostro servizio, occorre un occhio attento e amoroso; e una grande riserva di stupore. Ma se riusciamo a ricreare questa verginità di sguardo, allora ogni lavoro ha il suo sapore, il suo gusto, la sua materia da plasmare con la mente, la fantasia, le mani.” (da Un eremo non è un guscio di lumaca di Adriana Zarri). Quante volte, guardando la vita degli altri, l’abbiamo commiserata o invidiata, giudicandola superficialmente, secondo la ristrettezza delle nostre categorie mentali. Poi, svolgendo un servizio o semplicemente stando vicino a persone malate o addirittura morenti, ci siamo sorpresi, scoprendo che le persone non soffrono o non sono felici secondo condizioni prestabilite, ma in modo misterioso. Anni fa, ebbi un incidente in macchina e mi ruppi una gamba. In ospedale, dividevo la stanza con una signora molto anziana, che era stata completamente ingessata e rimpiangeva la sua vita piena e felice di casalinga, ricordando come le piacesse pulire la casa e fare tutti quei lavori che la mia generazione è stata ben contenta di non fare, preferendo la carriera professionale. Adesso, che sono praticamente agli arresti domiciliari, per la malattia di mia madre, scopro la bellezza di alcuni lavori, che non ho quasi mai fatto o fatto solo occasionalmente: cucinare, pulire, stirare, fare la spesa. Come dice Adriana Zarri, scrittrice, giornalista e teologa, che visse buona parte della sua vita in disparte, quello che è sbagliato, spesso, è il rapporto che abbiamo con le cose, non il lavoro stesso, perché ogni lavoro può essere bello, se guardato con “occhio attento e amoroso”. E’ il contatto con la materia, della quale siamo impastati, e che per troppo tempo abbiamo disprezzato. Cristina

18 gennaio 2012

In famiglia

Sono più che convinta che l’uomo sia nato per vivere in relazione, ma gli unici legami in cui credo sono quelli che hanno una base culturale o di pensiero comune, mentre non credo molto ai legami di sangue, essendo le parentele più che altro casuali. Nonostante questo, è indubbio che ci siano per tutti invece delle responsabilità ben precise o doveri. Questi però hanno il brutto vizio di opprimerci e di ridurre la nostra libertà. Come conciliare allora il sacrosanto diritto alla nostra felicità personale con la responsabilità? Penso che il lungo cammino per diventare adulti non possa che scontrarsi continuamente con questo dilemma, al quale, nel corso della nostra vita, daremo risposte diverse e a seconda di come sapremo affrontarlo proveremo gioia o dolore, senso di schiavitù o di libertà. Ho cominciato a scrivere su questo blog perché svolgevo un servizio di volontariato per EmmauS che adesso, dopo dodici anni, ho dovuto lasciare, per assistere mia madre, che vive con me ed è anziana e ammalata. Per i genitori anziani ci sono diverse possibilità e generalmente si lascia scegliere a loro. Mia madre ha scelto di vivere con uno dei due figli e avendo mio fratello una famiglia numerosa è apparso naturale che venisse a vivere con me, che vivevo da sola. Un anziano che entra in casa cambia sempre la vita delle persone e delle famiglie e la mia è cambiata tanto, ma per certi versi è cambiata in meglio, perché non mi affanno più in mille attività, ma mi concentro, soprattutto negli ultimi tempi, solo su questa, a parte il lavoro, naturalmente, nel quale però ho imparato a delegare e a uscire a orari regolari. Il resto del tempo lo passo per lo più a casa e lo dedico al lavoro domestico, alle letture, ai blog, alle relazioni con gli amici a distanza. Una vita molto diversa da quella che ho sempre fatto, ma ugualmente una vita felice e questo lo devo soprattutto alla comprensione e all’affetto degli amici, quelli di sempre, e quelli nuovi che ho conosciuto sul web, e poi di persona. La mia non è che una delle tante risposte al dilemma che ponevo all’inizio, ma ce ne saranno anche tante altre tra i lettori di questo blog, che mi piacerebbe conoscere. Cristina