28 ottobre 2008

C'è un muro del pianto

Una sera alla settimana, svolgo un piccolo servizio in una cappella dedicata alla preghiera continua. Una giovane donna, inginocchiata, piange silenziosamente. Non è una scena inconsueta, in questo luogo. Eppure stride, in modo particolare, con il resto della mia giornata, e mi fa pensare ad una citazione di Elias Canetti, che ho letto oggi su un quotidiano, riportata dalla scrittrice Laura Bosio: «C'è un muro del pianto dell'umanità, e io gli sto accanto». Nel pomeriggio, con alcune amiche, sono andata alla conferenza di uno scrittore israeliano e, alla fine, ci siamo ritrovate, con alcuni conoscenti, nel foyer del teatro, a commentare l’incontro. Hanno incominciato tutti a discutere animatamente e rabbiosamente, dicendone di tutti i colori, tirando fuori questioni politiche fuori tema, mettendo addirittura in bocca a questo scrittore inesattezze letterarie e storiche, che lui non si era mai sognato di dire, e pur parlando un inglese molto chiaro e comprensibile. Uscendo, ci siamo imbattute in un gruppo di studenti universitari, e una mia amica, che era stata la loro insegnante al liceo, ha ricordato loro lo sciopero generale, pur senza sapere bene di cosa si trattasse, e che cosa questo sciopero, esattamente, rivendicasse, quando le ho posto questa domanda. Buona parte della nostra giornata, anche sul lavoro, si svolge così: tra liti, sterili discussioni e rivendicazioni. Poi, ogni tanto, accade qualcosa, nella nostra vita, che blocca tutto questo chiasso, e ci fa stare così, in silenzio, a piangere sommessamente, e ci rendiamo conto che di tutto quello per cui abbiamo litigato, discusso, gridato non ci importava poi granché. Cristina

24 ottobre 2008

Il "care-giver"

Ieri sera ho partecipato ad una riunione, dove un "counsellor" spiegava ai volontari del "front office" come accogliere i "care-givers". Se c'è una cosa che mi manda in confusione è ascoltare due lingue contemporaneamente: sembra che il mio sistema neurologico non abbia la flessibilità necessaria per passare velocemente da una all'altra. E' pur vero, però, quello che hanno risposto alla mia obiezione: alcuni termini non sono facilmente traducibili. Il "care-giver" ha assunto la funzione del familiare, nel momento in cui la famiglia ha cessato di essere un nucleo sociale autosufficiente. Quando ho iniziato ad andare a scuola, venivo accompagnata dalla nonna paterna, mentre una zia materna, non sposata, si prendeva cura dell'altra nonna, invalida. Quando la zia materna e la nonna paterna si ammalarono, a loro volta, in casa non c'era più nessuno che si occupasse di loro. Da qui, la necessità di un aiuto esterno, al di fuori della famiglia: vicini di casa, assistenti domiciliari, volontari, insieme ai familiari, quando ci sono, formano la categoria dei "care-givers", letteralmente "quelli che si prendono cura". Dalla persona da cui vado per il servizio EmmauS, i "care-givers" sono dodici, di cui dieci esterni alla famiglia; si prendono cura dell'ammalato per il trenta per cento delle ore in cui è sveglio, ma non si conoscono tra di loro. Io penso sia piuttosto utile, per il volontario, avere una visione dell'insieme delle risorse che si occupano della persona che gli viene affidata, soprattutto nella circostanza in cui non ci sia una famiglia che vive con l'ammalato. La prima persona che mi venne affidata viveva da sola, e i vicini di casa furono una risorsa straordinaria, in un momento di crisi personale; poi l'ammalata venne ricoverata in una struttura, e quando morì, non pensai ad avvertire i vicini, i quali mi telefonarono, dopo alcuni mesi, dispiaciuti per essere stati così ingiustamente negletti. Cristina

23 ottobre 2008

La gratitudine

Guardo stupita il mendicante che mi ringrazia e mi benedice, per avergli dato qualche moneta: la gratitudine è qualcosa che oggi non siamo più abituati né a dare, né a ricevere, essendo diventati tutti piuttosto rivendicativi. Si va in chiesa, luogo per eccellenza del rendimento di grazie, per ricevere invece un servizio: essere ascoltati, se non da Dio, almeno dal parroco. Se il servizio non è all’altezza delle nostre aspettative, ci lamentiamo, dimenticando che la Chiesa è il popolo di Dio, e quindi siamo tutti noi. Anche il nostro far parte di un’associazione di volontariato manca spesso della consapevolezza che siamo noi, a dare contenuto e sostanza a questa organizzazione, e anziché lamentarci che il trattamento che riceviamo non è quello che avremmo desiderato, dovremmo contribuire a renderlo migliore, se necessario, compensando le mancanze che abbiamo creduto di trovare. Anni fa, ho lavorato per una società americana che ha lasciato a casa tutti i dipendenti, per spostare la produzione in oriente. Poi, questa società ha riaperto, grazie ad un’operazione finanziaria complicata, all'intelligenza di un anziano imprenditore, che ha creduto e investito in questa azienda, e all’opera instancabile di una sindacalista straordinaria, che è riuscita ad avere il supporto di tutte le risorse del territorio. A nessuno dei lavoratori che hanno ripreso il lavoro, è mai venuto in mente di ringraziare qualcuno, tanto meno l’imprenditore, di cui oggi si parla soltanto come di uno che è riuscito a fare un grande affare. E’ pur vero che l’interesse personale determina gran parte delle nostre azioni, ed è quindi legittimo pensare che, mancando questo, nessuno muoverebbe un dito, ma invece di pensare sempre al vantaggio che il nostro prossimo può ottenere da una buona azione, io penso che ringraziare sia una bella consuetudine, che ci abitua, se non altro, a non dare sempre tutto per scontato. Cristina

21 ottobre 2008

Oscar e la dama in rosa

Come primo libro per il nostro book club, avevo pensato a Oscar e la dama in rosa di Eric-Emmanuel Schmitt. Il breve romanzo si svolge durante gli ultimi tredici giorni di vita di un bambino di dieci anni malato di leucemia, Oscar, e la dama in rosa del titolo è un’anziana volontaria dell’ospedale, in camice rosa, che rappresenta per il bambino l’unico interlocutore in grado di dare un significato alla fase finale della sua vita, perché sia i genitori, annichiliti dal dolore, sia i medici, delusi dalla loro stessa impotenza, evitano di parlare sinceramente con lui, impedendo ogni spontaneità di rapporto. Per vedere se questa idea del book club funziona, propongo di fare una piccola prova: a chi ne facesse richiesta, all’indirizzo e-mail che Gianpietro ha fornito, sulla pagina iniziale di questo blog, invierò gratuitamente questo libro, corredato anche di un CD audio, con la voce di Paola Gassmann, così chi preferisce potrà ascoltare, invece di leggere il libro. Ai lettori verrà solo richiesto il piccolo impegno di mettere una breve riflessione o commento a questo post, sulle emozioni che questa lettura avrà suscitato. Cristina

book club

Nei giorni scorsi Cristina, in uno scambio di messaggi al di fuori del blog, ha ipotizzato la creazione di un “book club” all’interno di EmmauS. Si sceglie un libro, lo si legge e ad una data prefissata ci si incontra per parlarne. Un salotto letterario, magari alla buona, aperto a chiunque fosse interessato. Un differente sviluppo del progetto di scrittura (lettura) emotiva avviato 18 mesi fa e che non sembra aver trovato nel blog la prosecuzione che ci si aspettava. Stupidamente, lo riconosco, ho subito pensato a tutte le controindicazioni di una simile proposta e le ho snocciolate a Cristina senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità che a qualcuno l’idea potesse interessare. Ma Cristina è una persona tenace, molto tenace ed alla mia domanda: “Ma tu ci credi, veramente?” ha risposto: “Quello che mi appassiona è la sfida di creare un po’ di fraternità all’interno di questo gruppo … per me è come diceva uno scrittore ebreo – se non hai fede, vivi come se ci credessi, la fede verrà dopo -.” Mi ha convinto: “… non scartiamo l’idea già in partenza, pensiamoci almeno come ad una possibilità …” (sono sempre parole sue). Lasciatemi tuttavia un’ultima perplessità: se leggere e scrivere sul blog è fatica … Gianpietro

14 ottobre 2008

La domanda

Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle”. Nel suo libro “C’è nessuno?”, lo scrittore norvegese Jostein Gaarder, sostiene che una risposta, per quanto intelligente e giusta ci possa sembrare, non merita mai un inchino. La domanda, invece, punta avanti, apre un futuro, mette in moto la nostra vita, impedisce che ci addormentiamo, che ci chiudiamo in noi stessi. Sulla base di queste considerazioni, ho ripensato un po’ alle nostre piccole discussioni, su alcuni temi trattati in questo blog, come il senso della vita o la speranza, ma anche molti altri, come la domanda che siamo soliti fare di fronte alla sofferenza, sempre la stessa: “Dov’è Dio?”. E Dio sembra rispondere, con un’altra domanda: “Dov’è l’uomo?” o “Dove sei tu?”, gettando un seme nel nostro cuore, che ci muove, ci esorta a fare qualcosa per gli altri e anche per noi stessi. La domanda apre nella nostra vita una possibilità, ma noi siamo sempre invece portati a pensare che una risposta ci aiuterebbe a vivere meglio, e spesso ci accontentiamo di risposte facili, che ci danno l'illusione di un sollievo temporaneo, ma poi spengono in noi il gusto per la vita, che sta sempre più nel desiderare (e la domanda è un desiderio), che nel realizzare. Cristina

13 ottobre 2008

Il linguaggio camaleontico

Entrando in casa, sento mio fratello che parla a voce molto alta, scandendo bene tutte le sillabe: è il suo modo di comunicare con le persone molto anziane, incurante del fatto che mia madre abbia un apparecchio acustico, e sia perfettamente in grado di seguire qualunque tipo di conversazione. Lui e la moglie hanno avuto una discendenza molto prolifica e, di conseguenza, in casa loro, c’è sempre qualche bambino che incomincia a parlare: loro ne imitano le voci, emettendo dei suoni ridicoli e incomprensibili, per i quali, in presenza di estranei, io e mia madre ci vergogniamo sempre molto. Per lavoro, mio fratello tiene talvolta delle conferenze stampa in due lingue, e in queste circostanze usa un terzo lessico, completamente diverso dai primi due. Purtroppo, non è il solo ad usare questo linguaggio camaleontico per comunicare. Da una stessa associazione, ricevo in regalo due periodici: una rivista molto bella, con la copertina patinata, articoli scritti con un linguaggio tecnico e professionale, che si vende nelle librerie e viene inviata, in abbonamento, a lettori selezionati, e un giornalino molto modesto, i cui articoli sono scritti usando un linguaggio zuccheroso, che si suppone piaccia molto ai volontari, ai quali è rivolto. Per me il linguaggio deve essere uno solo, e prendere come base la capacità di comprensione di un ragazzo di dodici anni, che frequenti la scuola media. Non credo esista argomento che non possa essere trattato usando un linguaggio semplice, comprensibile a tutti. Cristina

9 ottobre 2008

La reciprocità

Anche il linguaggio spirituale si rinnova. Quando ho iniziato a fare volontariato, si parlava molto di gratuità. Non c'era riunione, corso, dibattito, in cui questo tema non venisse ampiamente trattato. Veniva anche richiesta un'attenzione particolare, per evitare la tentazione di cercare forme più nascoste di ricompensa, in quello che si faceva. Se ne è tanto parlato e discusso, che ad un certo punto si è anche cominciato a vedere i limiti di un atteggiamento unilaterale, che finisce per sottovalutare il nostro prossimo, come se non fosse in grado di capire, prima o poi, che stiamo facendo una fatica per lui. A dire il vero, molte persone, anche di cultura, continuano a rimanere in questa logica, un po' nichilista, della gratuità, per cui vale solo quello che fai a perdere, e non devi aspettarti, né pretendere nulla. Altre, invece, preferiscono, adesso, parlare di reciprocità, atteggiamento che riconosce all'altro la dignità di avere qualcosa da offrire in cambio, anche se la ricompensa non è sempre immediata, almeno nella circostanza di chi ha rapporti inusuali con situazioni che non sono immediatamente condivisibili. Si apre un gesto di bontà, di generosità, e non è detto che sia ricambiato subito: rimane uno spazio di attesa, che ha bisogno di essere attraversato, anche con fatica, perché la reciprocità ha bisogna di libertà, per cui il riconoscimento può non esserci subito, ma è comunque lecito aspettarselo. Penso che questo atteggiamento sia molto simile a quello di un padre e una madre, che danno una buona educazione al figlio, e se anche questo, soprattutto se si trova nel periodo della ribellione adolescenziale, non lo riconosce subito, prima o poi se ne vedranno i frutti. Cristina

8 ottobre 2008

Esiste davvero l'umiltà?

La parola “servizio” non ci deve trarre in inganno, perché, anche se usiamo spesso questa parola, dell’umiltà del servo a noi non è rimasto niente. La mia prima referente EmmauS era la moglie di un medico importante; lei stessa si era molto distinta come crocerossina, ai tempi in cui questa era l’attività delle ragazze di buona famiglia e, nonostante i numerosi figli e impegni familiari, continuò fino all’ultimo a fare volontariato. Il primo caso che mi venne affidato era complesso, e richiedeva che si facessero degli incontri tra il medico, l’assistente sociale, il volontario e questa referente che, ricordo, si indignava molto, quando qualcuno in quelle riunioni, riferendosi a lei in terza persona, usava il suo nome di battesimo, anziché il cognome del marito, preceduto dal rispettoso appellativo di signora. Mi stupiva inoltre notare come, all’assistita, lei si rivolgesse con il tu, e questa, invece, le rispondesse usando il lei. Dopo alcuni incontri, io ho accolto con molto piacere la proposta della mia assistita di passare al tu reciproco. Tra colleghi volontari, poi, mi è sempre sembrata ben accetta la spontaneità di un tu, che mostrasse di andare un po’ verso quella fraternità, alla quale tutti diciamo sempre di aspirare, ma che poi non riusciamo mai a realizzare. Vengo invece a sapere, da un incontro con un’esperta di organizzazione, che si occupa in modo specifico della organizzazione delle associazioni di volontariato e delle cooperative, che il tu deve essere di nuovo bandito: ci ha esortato a smetterla con questa familiarità da compagni di scuola. Qualche giorno fa, mi sono rivolta con il tu ad una psicologa dell’hospice, che vedo da un po' di tempo, ma, in effetti, non conosco molto bene. Lei mi ha guardato stupita e, andandosene, mi ha salutato rimarcando bene l’appellativo di signora, e da allora la chiamo rispettosamente dottoressa. Nell’azienda in cui lavoro, i titoli vennero rigorosamente vietati dieci anni fa, venne addirittura distribuita una circolare a questo proposito, perché un nuovo e importante partner americano esigeva che i rapporti fossero meno formali; in realtà, i ruoli rimasero ben distinti, ma devo ammettere che i rapporti sono notevolmente migliorati, e si lavora, con qualche eccezione, in un clima di maggior distensione. Per concludere un po’ questo discorso, penso che la società cambi spesso idea su questa materia, a volte anche sulla base un po' superficiale delle mode, ma per il volontario debba valere la regola del buon senso e della buona educazione, lasciando sempre che sia l’altro a decidere sull’aspetto formale della relazione. Cristina

6 ottobre 2008

danza lenta

Oggi abbiamo ripreso contatto con la danza. A dire il vero si è trattato solo di fare la conoscenza con una nuova istruttrice e riabituare i nostri corpi ad occupare tutti gli spazi della palestra. È stata un’esperienza ricca di emozioni e che tutti i ragazzi della comunità hanno vissuto mostrando una disciplina insperata. Di certo siamo stati agevolati dal favorevole rapporto numerico tra accompagnatori e ragazzi, ma era facile leggere nei loro sguardi la sorpresa per una dolcezza tanto gradita quanto inaspettata. Esercizi condotti con lentezza, basati in prevalenza sulla ricerca del contatto con il parquet, sul riconoscimento delle parti del proprio corpo, prese singolarmente e guidate in movimenti che facessero giungere al cervello segnali positivi. Pratiche rilassanti, ma al contempo ricche di contenuti; esercizi preparatori, forse, sicuramente un approccio al quale nessuno si è sottratto, anche chi, di solito, non esita a mostrare segni di insofferenza se non vuole farsi coinvolgere. Come ho già avuto modo di scrivere (vedi post: oltre l’opportunità) tutti possono, se ben guidati, godere della stessa sensazione di pienezza e di perfezione che, sicuramente, deve avere accompagnato la ballerina dell’immagine che ho scelto. Questo potrà avvenire anche eseguendo la semplice rotazione di un arto, accompagnando il gesto con l’espressione del volto scelta tra tante e appositamente studiata. E questo tutti, noi e loro, possiamo farlo. Riuscirci sarà: “una terapia differente, che nessun medico ha prescritto ed i cui risultati nessuno potrà avvalorare”. Quello di oggi è stato un servizio di volontariato del quale ho beneficiato anch’io. Gianpietro

Livore

Sono nella sala di attesa della divisione di medicina nucleare dell’ospedale, dove ho accompagnato una persona per una scintigrafia. Entra una famiglia di tre persone, di cui due, un uomo e una donna, accompagnano una signora obesa, su una sedia a rotelle, ma poi devono portare la sedia fuori, e la signora, che cammina, anche se con un po’ di fatica, raggiunge la sedia con le stampelle, imprecando per questo. Quello che sembra essere il marito, viene informato che tra l’iniezione e la scintigrafia, ci saranno due ore di attesa, e lui bestemmia a voce alta. La donna che l’accompagna va all’accettazione e le viene trattenuto l’originale di un documento in cinque copie. Viene nella sala d’attesa e informa la signora, che deve essere sottoposta all’esame, che la (e qui usa un epiteto irripetibile), ha trattenuto l’originale che, secondo lei, doveva servire per produrre una certificazione. Ieri sera, per un certo servizio di volontariato che faccio la domenica sera, ho dato le dimissioni, per i modi poco cortesi di un'infermiera, a causa di quella che lei sosteneva essere stata una mia negligenza. Poi, naturalmente, ci ho ripensato e questa mattina ho ritirato le dimissioni. In questo, però dissento un po’ da Gianpietro, quando si mostra più comprensivo di me verso la rabbia di chi pensa di avere subito un torto: per me nessuna situazione è tale da giustificare modi aggressivi verso il prossimo, nemmeno quando si ha ragione. Cristina

5 ottobre 2008

Distanze

Mi è capitata tra le mani una pubblicazione di EmmauS del 1999, frutto di una giornata di studio tra gli associati, con la presenza di vari esperti a diverso titolo. Ho trovato molto interessante conoscere un po' di più questa associazione, di cui faccio parte da molti anni, senza molti contatti, limitandomi a svolgere il servizio che mi hanno affidato. Una cosa che non sapevo, è che i gruppi si formano all'interno della parrocchia, ed essendo così presenti sul territorio nel quale agiscono, hanno più possibilità di conoscere il bisogno. Le comunità parrocchiali mi hanno sempre attratto, come un oscuro e irraggiungibile oggetto del desiderio, e ho sempre invidiato molto la fraternità che mi ispirano, una fraternità forse a volte un po' litigiosa, come in tutte le famiglie, ma non per questo meno attraente. La mia unica esperienza parrocchiale è piuttosto recente ed è stata un clamoroso insuccesso. Mi ero avvicinata con molto entusiamo, mettendoci un grande impegno, e ne ero anche stata ricambiata con affetto e fiducia a tal punto che, dopo poco, mi avevano persino eletta nel consiglio pastorale di quella parrocchia. Trovavo, però, quelle riunioni un po' noiose, ripetevano sempre le stesse cose, e cose, a mio avviso, di nessuna importanza. Per me c'erano questioni ben più importanti, molto più urgenti, in un cammino di fede, e la comunità stessa faceva molta pressione perché su certi punti si facesse chiarezza, per capire meglio dove stavamo andando. Alcuni mi chiesero di portare al consiglio i loro dubbi, le loro perplessità, sostenevano che io avessi la lealtà, la franchezza e i modi giusti per farlo. Il mio intervento fu pacato, corretto sotto l'aspetto dottrinale, rispettoso dal punto di vista umano, sicuramente disinteressato sotto l'aspetto dei vantaggi personali, e sincero. Tutto questo non venne apprezzato, non fu mai perdonato e, soprattutto, nessuno mi chiese di restare. Cristina

4 ottobre 2008

dipendenza e motivazione

In questo blog abbiamo toccato più volte il tema della “dipendenza” (senza alcun riferimento alle sostanze!) e, collegato a questo, il tema della “motivazione”. Chi assiste un malato grave, o un disabile non autosufficiente, finisce, inevitabilmente, con il trovarsi stretto nella morsa di questi due sostantivi. Ed è chiamato a compiere delle scelte. Quando nel percorso della propria esistenza una persona si trova a “dipendere” totalmente dagli altri, e non in senso metaforico, ecco che appare denudato ed alla mercé del prossimo, finendo vittima, a volte, dell’ignoranza, della burocrazia, dell’ottusità di chi non li vede come persone bisognose, ma come oggetti, da gestire con il minimo dispendio di energie. Ed è facile trovarsi di fronte a porte sbarrate. Farsene carico richiede allora una “motivazione” che può esprimersi a differenti livelli. Al gradino più basso della scala pongo il servizio del volontario. Un impegno limitato a poche ore, praticamente privo di responsabilità, tutelato da una struttura collaudata e nella consapevolezza di poter contare su comode vie di fuga. Poco più sopra vi sono i servizi. Quelle strutture, mobili o permanenti, che hanno la loro ragion d’essere proprio nel venire incontro ai bisogni fisici e psicologici di chi è “dipendente”. Tra questi non mancano persone che sanno andare oltre la semplice routine professionale, ma è già motivo di soddisfazione incontrare chi si limita a svolgere con correttezza il proprio compito. Nella parte alta della scala pongo i componenti il nucleo familiare che ruota intorno al malato/disabile. Sono persone che si sentono investite di un compito (spesso codificato dalle norme, o dalle consuetudini): persone che si fanno carico dei problemi quotidiani, per tutto il tempo che serve e garantendo forme di tutela senza le quali risulterebbe a rischio la sopravvivenza stessa della persona “dipendente”. Nessuno meglio di loro sa dare il giusto valore a gesti che, tanta è l'abitudine, non prendiamo nemmeno in considerazione. Piccole azioni che ci appaiono normali, in quel contesto possono risultare di vitale importanza. E se in certi momenti lasciano che rabbia e rancore esplodano di fronte all’indifferenza, o al menefreghismo, ne hanno ben d’onde. Solo chi, momento dopo momento, si confronta con le problematiche legate all’assistenza di un malato, sa che non potrà mai abbassare la guardia, non dovrà mai passare sopra quelli che riconosce come dei torti fatti a chi non può difendersi, anche se questo può significare mettere in gioco la propria immagine. Non tutti sono capaci di farlo e chi si tira in disparte non va giudicato, ma chi riesce a trovare questa “motivazione” merita tutto il nostro rispetto. Gianpietro

3 ottobre 2008

Essere e non essere

Nell’azienda in cui lavoro, la chiamiamo Nicole, ma non è il suo vero nome. E’ una giovane operaia di nazionalità marocchina, il cui padre è già stato arrestato diverse volte per spaccio di droga, e il fratello è in carcere per avere accoltellato uno. Il caporeparto, di nazionalità tunisina, l’ha rimproverata per una sua inefficienza, e lei lo ha aggredito, graffiandolo a sangue. Poi, ha preso una spranga di ferro, è uscita e gli ha distrutto la macchina, sfondando il cofano, e rompendo il vetro in mille pezzi. Davanti al direttore di produzione, ha detto al caporeparto che il padre lo avrebbe ucciso. Il caporeparto è andato alla polizia a sporgere denuncia, e il poliziotto di turno gli ha chiesto perché gli stranieri non siano capaci di regolare da soli le loro questioni. Sono due giorni che il caporeparto non torna a casa perché, la notte stessa, in cui è accaduto questo fatto, il padre della ragazza gli ha telefonato, minacciandolo di morte. I colleghi italiani, commentando la vicenda, dicono tutti di non essere come questi stranieri, sempre pronti a menare le mani; dicono anche, di non essere razzisti; ma che cosa siamo, veramente, di fronte a questi fatti, nessuno lo dice. Ho notato, da tempo, che il nostro linguaggio è cambiato: le persone, almeno qui dove lavoro, dicono spesso di non essere qualcuno, ma è molto raro che dicano quello che sono veramente. Nel periodo delle elezioni, si intuisce che molti sono schierati a sinistra, ma si preoccupano sempre di affermare più la loro avversione nei confronti dello schieramento opposto, che di dire cosa veramente sono, quale persona sostengono, o quale progetto politico approvano. Io penso che questa incertezza nel dire chi siamo, sia certamente dovuta al fatto che non vogliamo assumerci le responsabilità che il dichiarare di essere qualcuno implica, ma sia anche un sintomo della nostra confusione sociale, perché oggi è come se ci trovassimo in mezzo ad un guado: da una parte, abbiamo la società del passato, certamente sbagliata, dove però ognuno sapeva esattamente chi era e conosceva il proprio ruolo; sull’altra riva, abbiamo la società ideale, dove gli uomini vivono in pace, fraternità e uguaglianza, società che però nessuno oramai crede più di poter realizzare: e noi siamo qui in mezzo e, a volte, non riusciamo nemmeno più a dire chi siamo. Cristina