30 novembre 2008

verbale, non verbale

Il caso assegnatomi presenta caratteristiche particolari. La persona che assisto non é in grado di parlare, non comunica ed é difficile sapere quanto possa comprendere ciò che gli dici. L’impossibilità di un’interazione verbale crea una situazione molto specifica sul piano comunicativo. I miei rapporti con le persone hanno sempre fatto leva sulla comunicazione verbale, più che su quella non verbale. E’ attraverso lo strumento del linguaggio che, anche per mia formazione, ho sempre gestito le relazioni, i rapporti con le persone. I miei pensieri e i pensieri dell’altro, hanno sempre trovato nel linguaggio la possibilità di esprimersi, di confrontarsi, di arrivare a delle sintesi condivise, anche in situazioni molto difficili. Questa impossibilità di dialogare, ha costituito per me, da subito, un problema non indifferente. Parlare senza avere un ritorno, un feedback della comprensione e della significatività di quanto hai detto, ti mette in una condizione psicologica d’incertezza e di disagio. L’unica reazione del mio interlocutore é il sorriso, che, di per sé, non significa che abbia compreso quanto gli hai detto. Ma c’é un elemento molto importante, a mio parere, da tenere in considerazione: cioè il fatto che mentre gli parli, lui ti guarda negli occhi e sembra ti ascolti. Infatti, per tutto il tempo in cui gli stai parlando, lui continua a stare attento, a guardarti senza mai distrarsi o voltarsi altrove. Dopo il disagio iniziale, ho cominciato a prendere in considerazione questi aspetti. E’ il suo atteggiamento non verbale, infatti, che ora mi motiva a comunicare con lui. Questo, in un qualche modo, mi basta, o me lo faccio bastare. E’ difficile superare l’idea, che da una vita mi porto dietro, che la comunicazione verbale é lo strumento fondamentale nella relazione d’aiuto. Qualche carezza sulle guance e sulla fronte, ho la sensazione che possa essere gradita. E questo mi motiva a farlo. Inoltre, per come sono fatto io, ho sempre avuto bisogno di assegnare e di trovare un senso in ciò che facevo, a come utilizzavo il tempo. Non dico di aver risolto questo problema, di aver modificato completamente questo aspetto, ma questa esperienza mi ha fatto riflettere sulla classica frase “il tempo é denaro”. Se il tempo lo vivi sempre in questa dimensione, le conseguenze sono negative per te e per gli altri. E’ abbastanza semplice da capire, ma é l’esperienza diretta che trasforma i concetti in vissuto. E’ strano, ma stare con il mio assistito, paradossalmente, vuol dire privilegiare il rapporto con le persone, in una situazione apparentemente senza rapporto. E così, quando sono con lui, non ci sono altre interferenze e mi rapporto considerando l’esistenza di una sua ricettività. Ma se anche qualche volta il dubbio ritorna, ora il senso del rapporto non ne risente ed io sono sereno e convinto di spendere bene il tempo a lui dedicato. Pino

3 novembre 2008

Memorie

Quest’anno, per la prima volta, mi sono dedicata alla cura delle tombe di famiglia, occupazione che finora era stata di mia madre. E’ stata l’occasione per una piccola ricerca sulle mie radici, in quanto le mie conoscenze non andavano oltre la generazione dei nonni, che ho conosciuto. Questa cosa ha stimolato anche la mia curiosità di conoscere meglio le persone che ho incontrato negli ultimi anni, per il servizio che svolgo, soprattutto all’hospice, e che sono morte. Alcune di queste ci hanno lasciato delle memorie: diari, quadri, sculture, album fotografici, libri della loro biblioteca, che recano ancora la dedica affettuosa di qualcuno. Sabato pomeriggio, mi sono messa a leggere un diario, pubblicato da una piccola e sconosciuta casa editrice, dove una signora, che è stata ospite di questa casa, scriveva della sua vita difficile, di emigrante in Svizzera, alla fine della guerra, poi delle sue battaglie politiche, e dei suoi viaggi. Ho riflettuto sul fatto che, piuttosto spesso, quando incontriamo, per la prima volta, persone ammalate, tendiamo ad identificarle con la loro malattia, considerandole un gruppo omogeneo. Parlando, diciamo: gli "oncologici", i "depressi", gli "psichici", ma tutti questi ammalati hanno alle spalle storie molto diverse tra loro e, talvolta, anche culture, che sarebbe interessante conoscere: la loro esperienza di vita è un dono che ci fanno, anche a nome di quelli che non hanno voce per farlo. Cristina