29 aprile 2008

Il risentimento

Quando sono di turno alla reception dell’hospice mi capita spesso di vedere sull’agenda dei volontari delle annotazioni che avvertono che il paziente della stanza tale non desidera ricevere visite dalla tal persona. Non ci è naturalmente consentito di entrare in giudizio di situazioni e persone che non conosciamo, ma non posso fare a meno di chiedermi se il motivo di un risentimento che non trova il suo limite nemmeno nell’ora estrema della vita, sia serio e drammatico, oppure sia una di quelle situazioni in cui la causa del litigio sia stata dimenticata o non ci si ricordi nemmeno più tanto chi avesse cominciato, ma il rancore sia invece sopravissuto, da un certo punto in poi, alimentato solo da se stesso. Cristina

28 aprile 2008

porta aperta

Impicciarsi, decodificare, spiegare, informare, dissacrare, perdonare... sono le azioni che Vincenzo Linarello del consorzio Goel suggerisce a ognuno di noi per riappropriarci del territorio in cui viviamo.
Impicciarsi cioè non farsi gli affari propri, interessarsi degli altri.
Decodificare, cioè leggere attraverso, capire ciò che sta dietro.
Spiegare, cioè raccontare agli altri ciò che per primi si è intuito e visto.
Informare, cioè dire, rendere noto a tutti, o almeno al maggior numero di persone possibile.
Dissacrare, cioè non temere di denunciare la sopraffazione anche ridicolizzandola.
Perdonare... lasciare sempre una porta aperta... non giudicare... chi siamo noi per giudicare?
Mi sembra un piano molto stimolante che ci restituisce la dignità di esseri pensanti che vivono la realtà che li circonda invece di subirla passivamente.
Elena

Le parole

La persona da cui vado per il servizio EmmauS non ha quasi voce e si ha l’impressione che ogni parola, prima di uscire, venga scrupolosamente e attentamente pesata e vagliata. Penso invece alla facilità con cui le parole mi escono dalla bocca e soprattutto alla leggerezza con cui sono uscite parole che hanno fatto molto male a qualcuno. Nel bellissimo film coreano “Primavera, estate, autunno, inverno ... e ancora primavera” l’anziano monaco buddista al bambino, suo allievo, che per un gioco crudele aveva legato un sasso al collo di tre piccoli animali, lega, a sua volta sul dorso, una pietra pesante, e così caricato, lo manda a porre rimedio a quello che aveva fatto, dicendogli che se avesse trovato anche una sola delle tre bestiole morta, quella pietra gli sarebbe rimasta sul cuore per sempre. Anche a me il peso di quelle parole dette contro qualcuno è rimasto sul cuore e sembra destinato a restarci a lungo. Cristina

27 aprile 2008

La preghiera

Mi ha detto più volte, senza che peraltro io glielo avessi mai chiesto, che lei non è credente, ma quando il dolore si fa più forte la sento invocare, sommessamente e ripetutamente, un nome che non capisco. Anche Mohamed, alcune domeniche prima di morire, chiese a noi volontari di essere portato in chiesa; durante la messa lo si vedeva alzare ripetutamente le mani al cielo nel gesto tipico del mussulmano che invoca Allah. Per alcuni la fede è un fatto legato a dei contenuti ben precisi, legato anche a delle istituzioni ben precise, per altri invece è un fatto più interiore, un atteggiamento, una relazione con qualcuno di cui sentono il bisogno, ma a cui talvolta non sanno nemmeno dare un nome. Al pari della prosa e della poesia, anche la preghiera è plurale. Ciò che le riunisce è che l’uomo, con esse, si rivolge all’Altro, sia che si tratti dell’Altro sconosciuto, incontrato in se stessi o nella natura vivente, o l’Altro riconosciuto e chiamato per nome. Non è necessario che questo Altro sia riconosciuto e chiamato Dio; vi è preghiera nel momento in cui l’Altro, verso cui si volge la propria intenzione e la propria attenzione, è ciò di cui il mondo sente la mancanza” A. Vergote, Sources et ressources de la prière. Cristina

26 aprile 2008

madre e figlia

Ho guardato a lungo il quadro di Klimt a cui fa riferimento Giampietro. Mi ha colpito la giovane donna. Mi è sembrata assorta nella sua situazione di pace e pienezza, talmente assorta da non essere attenta alla timida richiesta di aiuto della vecchia madre. Ho ricordato una situazione di alcuni anni fa: una anziana e lucida signora ci interpellò chiedendo un volontario per farle un po' di compagnia. Andai a conoscerla e fui accolta dalla figlia che non sapeva nulla della richiesta e sgridò duramente la madre che le aveva fatto fare una così brutta figura. C'era lei con la sua famiglia e non c'era bisogno di nessun altro! Ho provato un grande disagio e molta tristezza per entrambe. La figlia sicuramente avrà vissuto male la mia visita, con fastidio e forse temendo il giudizio di un estraneo, ma la madre? Penso che si sia sentita ancora più sola e poco libera di decidere della sua vita. Elena

25 aprile 2008

Le tre età della vita

Ci è stato detto che sono molti i casi di rifiuto dell’offerta del servizio EmmauS da parte dell’assistito, a dispetto della volontà dei familiari. Immagino si tratti di anziani non autosufficienti e che portano come motivazione frasi del tipo: “Mi basta mia figlia!”. E’ facile interpretare queste parole come espressione di egoismo, di scarsa attenzione alle esigenze dei familiari. Credo tuttavia che, a volte, giochi un ruolo importante la “vergogna di sé”. Il quadro di Klimt, che dà il titolo al post, può aiutarmi a chiarire cosa intendo. Nell’immagine la madre ed il figlio appaiono sereni, uniti nell’abbraccio, reciprocamente abbandonati al sonno in una espressione di pace e di sicurezza. Il colore è sfumato l’esposizione frontale e la nudità è casta. Il figlio “sa” e la madre “deve”. La vecchia invece è distaccata, l’unico contatto è dato dai capelli che sfiorano la spalla in un timido, impercettibile accenno di richiesta d’aiuto. Il corpo, grigio e flaccido, è esposto alla vergogna, appare impudico e la nudità è oscena, totale e non mascherata. La consapevolezza è tale da indurla a nascondere interamente il volto nella mano. Solo il viso, non il seno o il pube. La figura della vecchia, diversamente dalle altre, è rivolta alla giovane, negandosi a noi estranei che l'osserviamo. Il braccio abbandonato lungo il corpo sembra dire: “Solo da te accetterò di essere guardata, degli altri ho vergogna. Aspetto il tuo risveglio sperando che, lasciata la cura del bambino, tu possa trovare il tempo di volgerti a me ed allora, quando avrai misurato il mio bisogno, ti mostrerò anche il viso, l’unica cosa che ti potrà parlare dell’io che ero. Lo farò solo con te, non con altri.” Gianpietro

24 aprile 2008

Ancora sull'assemblea

Siamo attesi da nuove sfide. Così ci è stato detto. Occorre essere attenti poichè dovremo confrontarci con situazioni nelle quali l’aspettativa di vita sarà lunga, assai lunga. Svolgerete il vostro servizio presso giovani e adulti che avranno davanti 20, 30, 40, 50, 60 anni di attese e di bisogni da soddisfare. Bisognerà sapersi reinventare un ruolo, lavorare di fantasia. Questo il concetto in sintesi. Sinceramente faccio fatica a decifrare il problema. Toccherà a noi lasciare questo mondo prima della persona che seguiamo? Tanti auguri a chi resta. Verrà a mancare la continuità del servizio? L’importante è che questa soluzione di continuità riguardi unicamente il volontario, non la prestazione. Altri subentreranno e non è detto che un cambiamento non sia salutare. Potrebbe anzi portare nuova linfa, nuove sensazioni, rompere cicli diventati monotoni. In fin dei conti guai sentirsi indispensabili. E poi chi siamo noi? Dei taumaturghi? Degli esseri indispensabili per le persone che seguiamo? Teniamo bene a mente che noi siamo quelli delle due ore la settimana, quattro per chi se la sente. Siamo quelli che riempiono tra 1,2% ed il 2,4% del tempo del nostro assistito. Siamo quelli che NON sono con lui per 166 (o 164) delle 168 ore della sua settimana. Altri occupano lo spazio maggiore, a noi toccano le briciole. Inventiamoci pure nuove forme di assistenza, aiutiamo i nostri amici a sviluppare le potenzialità residue, creiamo le occasioni per far loro provare nuove emozioni, nuove esperienze. Non fermiamoci di fronte alle difficoltà, usiamo la fantasia ed il coraggio, ma sempre con i piedi ben piantati per terra. In fin dei conti siamo solo “servi inutili”, l'ombra di una mano stesa, ma che non interrompe lo scorrere dell'acqua. Gianpietro

23 aprile 2008

momento corale

Quando finisce una serata come quella di ieri sera mi sento sollevata: preparare, organizzare, far si che collaborino diverse persone, rendere l'assemblea un momento corale è faticoso e mi provoca un po' di tensione. La tensione è scemata quando sono arrivata e ho visto Luciana che aveva già preparato la sala e i tavoli per il buffet facendosi aiutare dai suoi volontari e ha intonato "a secco" i canti durante la Liturgia . Solo allora sono riuscita a vedere quanti hanno dato il loro contributo: è una notevole ricchezza! Ho apprezzato la diversità dei doni: chi quello di scrivere che ha trovato voci che sanno leggere e interpretare,chi sa analizzare dati e guardare avanti, chi sa fare con chiarezza sintesi di progetti, chi mette a disposizione le proprie competenze... Sono uscita con la consapevolezza rafforzata che lavorare insieme, oltre ad essere molto piacevole e a produrre risultati migliori, è un modo per aiutare le persone ad uscire allo scoperto e a mettere a disposizione le proprie capacità. Ho fatto fatica a cominciare a parlare perchè mi ero commossa ascoltando le testimonianze lette da Claudia e Giampietro. Avrei voluto rimanere sulla mia sedia, nella penombra, e continuare ad ascoltare lasciando andare liberamente le mie emozioni cullate dalla sensazione che lì, fra quelle persone, stavo bene. Elena

il mattino dopo

Un segno inequivocabile per capire se quello che ho visto o vissuto la sera prima è stato importante per me (sia esso un film, un incontro, una cena, una lettura o UN'ASSEMBLEA) è svegliarmi la mattina dopo e ritrovarmelo in testa. Neanche ritrovarmelo subito in testa, ma in qualche altra parte di me che non so bene dove stia. E' una sensazione, quasi un sentimento ancora non ben definito che può essere un sentimento bello o brutto (non riesco a definirlo meglio). Dopo qualche secondo questa sensazione arriva alla testa e lì ci ritrovo l'evento della sera prima. Stamattina mi sono svegliata con una sensazione bella e dopo qualche secondo il cervello mi ha detto che la sera prima c'era stata l'Assemblea annuale di Emmaus. Claudia

Il peso dell'altro

Ieri sera molti degli interventi all'assemblea annuale di EmmauS, nel corso di una serata molto bella, ricca di calore e di condivisione, vertevano sulla necessità della continuità del servizio in presenza di situazioni che possono durare anche molti anni. Sono rimasta molto impressionata dai dati: più di un terzo delle persone prese in carico sono giovani e sono stati registrati sul nostro territorio, nel corso del 2007, ben 500 casi di sclerosi multipla in età adolescenziale. Parlando poi con Daniela, le ho espresso il desiderio di svolgere un servizio vicino a casa, per poter dare un aiuto più consistente e quotidiano alle famiglie che hanno un ammalato in casa, ma le ho anche detto che questo non lo posso fare, perché tutte le volte che, conversando con la persona da cui vado ormai da tanti anni, parlo di una qualunque attività al di fuori di questo servizio, lei mi interrompe subito dicendo: “Fai quello che vuoi, basta che continui a venire qui”. In altri tempi, quando c’era una situazione che, in qualche modo, mi limitava e mi impediva di fare altre esperienze, ero solita definirla un peso. E’ questo anche un certo modo di parlare molto frequente: E’ diventato un peso per la sua famiglia” “Non voglio essere di peso ai figli” e a questo termine si è soliti dare un significato negativo. Ma è in questo momento, quando sentiamo appunto il peso dell’altro, che comprendiamo che questa persona conta davvero per noi, ha un peso nella nostra vita, ma un peso che ha anche un valore, che è anche ricchezza. Non a caso nella bibbia il verbo greco tradotto in italiano con prendere con sé, riferito al discepolo che prende nella sua casa la madre di Gesù, che gli era stata affidata da lui sulla croce, (Gv 19, 27) o a Giuseppe, che prende sua moglie con sé (Mt 1, 24), ha la radice della parola peso. Cristina

22 aprile 2008

Nada y todo

La dottrina di S. Giovanni della Croce, ripresa e parafrasata dal poeta T. S. Eliot nel terzo tempo di East-Coker (1940), trova spesso scarso interesse nella nostra società, mentre dovrebbe invece costituire il solido punto di partenza di chiunque voglia intraprendere un servizio non semplicemente perché un bel mattino si è svegliato e ha pensato che la società abbia sentito nel frattempo che lui era impegnato in altre cose, la sua mancanza, ma, come dovrebbe essere normale, perché era a lui che mancava qualcosa e aveva finalmente capito che non bastava essere nato uomo o donna, ma che, in qualche modo, bisognava anche diventarlo. Questo sentimento di essere niente era un sentimento buono, che andava mantenuto e custodito come fonte di grazia e ricchezza spirituale, invece, a volte, è diventato il trampolino di lancio per affermare, ancora una volta, la nostra individualità e la nostra ambizione, come è successo in politica, dove abbiamo fatto dello straniero non un fratello con cui condividere tutto il bene e i beni che avevamo ricevuto fino a quel momento, ma qualcuno su cui giocarci la vittoria o la sconfitta delle elezioni. Io penso che questa nostra associazione di volontariato vada bene così com’è, anche con le sue mancanze: a me ha dato un nome, un indirizzo da cui andare e nient’altro, ma è da questo indirizzo che è partita la ricchezza di un percorso spirituale intenso, che ha dato un significato nuovo e diverso alla vita vissuta fino a quel momento. Cristina

19 aprile 2008

L'insegnante inglese

A metà degli anni ottanta, quando l’economia reggiana incominciò a rivolgersi in massa al mercato internazionale, molti di noi sentirono il bisogno di perfezionare il loro inglese. Sollecitate da questa grande richiesta, incominciarono a nascere in città diverse scuole private di lingua inglese e una delle migliori era diretta da un’insegnante madrelingua che divenne presto famosa, oltre che per il metodo e l’ottima dizione, anche per il rigore e l’impegno che richiedeva ai suoi allievi, quasi tutti un po’ viziati da quelle vacanze studio in Inghilterra dove si faceva di tutto fuorché imparare una lingua. Noi la chiamavamo tutti per cognome, preceduto dal Mrs, come si usava fare un tempo con gli insegnanti: il nome non lo sapevamo o lo avevamo dimenticato. Dopo quegli anni la persi di vista, ma continuai a sentirne parlare dai colleghi più giovani e dalle insegnanti che erano sotto di lei, sempre con quel tono reverenziale, misto di timore e rispetto, che suscitano le persone che prendono sul serio il lavoro che fanno. Ho faticato a riconoscerla quando la famiglia da cui vado per il servizio EmmauS ha cominciato a parlarmi di un’altra volontaria che aveva iniziato il servizio presso di loro: era inglese, ma aveva un nome che non conoscevo, e mi parlavano, soprattutto, di gesti e di modi che non mi erano familiari. La descrivevano come una persona di grande umiltà, un poco timida, con poca esperienza, desiderosa di imparare, sempre timorosa di sbagliare, che chiedeva sempre tutto, e che la prima cosa che faceva, quando incominciava il servizio, era quello di inginocchiarsi davanti all’ammalata e massaggiarle i piedi, cosa di cui lei, essendo paraplegica, sentiva un gran bisogno, ma che nessuno di noi faceva mai, non ritenendolo poi così fondamentale. Cristina

18 aprile 2008

Càpita

Càpita che si viva tutta una vita senza imbattersi in una malattia che invece a un certo punto prenderà per te la faccia del destino”. Nel suo ultimo libro Càpita scritto dopo essere stata colpita da ictus cerebrale, Gina Lagorio parla a lungo della relazione con l’altro. La prima volta che lessi questo libro mi colpì il fastidio che diceva di provare in ospedale per l’uso di quel ‘noi’ che spesso le infermiere usano nel parlare: “Come abbiamo dormito questa notte? Ci vogliamo alzare? Ci vogliamo vestire?” Avevo provato anch’io la stessa irritazione per questo strano modo di rivolgersi agli ammalati. La mia generazione ha sempre fatto di tutto per liberarsi dalla dipendenza dagli altri, dalla famiglia, dal marito, dai figli, nel lavoro, per emanciparsi da tutto e da tutti. Poi però a un certo punto di quell’essere ‘uno’ non ha più saputo che farsene, ne era stata fiera, e a ragione, ma adesso si era stancata. Quando mi è capitato di assistere un ammalato a mia volta ho cominciato anch’io, senza intenzione e senza quasi rendermene conto, a usare quel ‘noi’: “Vogliamo alzarci? Incominciamo a preparare il pranzo? Mettiamo il tavolo?” E quel ‘noi’ non mi infastidiva più, era l’inizio di un nuovo modo di vivere la relazione con l’altro, legati eternamente agli altri e al loro destino. Cristina

15 aprile 2008

Guidare il gioco

Rientro adesso da un pranzo organizzato in parrocchia per alcuni ospiti dell'O.P.G. accompagnati da alcuni volontari. Sono anche stanca e ne approfitto per fermarmi un attimo. Ho letto i post di Cristina e Claudia: immediatamente ho pensato alla relazione con questi ospiti. Ho avuto voglia di entrare nelle loro menti, di capire la causa della tristezza profonda che trapelava dagli occhi di Matteo, un giovane con problemi di alcool e droga. Occhi neri, profondi, belli, persi in un mondo a cui mi sembrava di non avere accesso che si sono illuminati solo quando gli ho chiesto se aveva telefonato alla sua mamma. Allora si è sciolto in un sorriso e mi ha parlato del suo cane portando il dialogo dove voleva il suo cuore, agli affetti della sua famiglia e alla sua casa. Mi ha salutato con un bacio, forse, come mi capita spesso, ha intravisto in me un po' di...mamma, ma era tornato serio. E' un dono avere la possibilità di queste relazioni che ti conducono, dove non sono io a guidare il gioco, ma è la consapevolezza che tutti e due siamo fonte di ricchezza in quanto persone. Elena

L'empatia

Il post di Claudia mi ha ricordato la mia stessa delusione tutte le volte che vedo rifiutate le mie proposte nel servizio, cosa che accadeva puntualmente nella situazione precedente, ma che in misura minore succede anche in questa. Un libro che vorrei leggere insieme, una situazione che vorrei condividere, un film, un regalo, qualcosa per la casa che penso potrebbe essere utile, viene tutto messo in disparte o mi fa capire che non le interessa. Ma è qui, in questo apparente insuccesso, che sta il valore di una relazione, nel non volere diventare completamente l’altro, il sapersi fermare sulla soglia dell’altro, anche quando siamo certi che andare oltre sarebbe per il suo bene. In questo ci viene in aiuto Edith Stein che ha studiato molto questo aspetto dell’empatia: “E benché io abbia la possibilità di giungere in prossimità dell’altro, non riuscirò mai a cogliere pienamente quanto vive e sente in se stesso e tale impossibilità di immedesimazione è anche il baluardo della libertà altrui, libertà di fronte alla quale Dio stesso si arresta”. E. Stein, Introduzione alla filosofia. Cristina

14 aprile 2008

grazie a Cristina

Mi ci ha ritrascinato dentro quella specie di vulcano che è la Cristina. So quel che dico perchè la conosco bene. Intanto però ho avuto modo di farmi conoscere meglio anch'io. Una zompatina all'inizio e poi silenzio per mesi. E' un modo di procedere che non mi è nuovo purtroppo. Ma .. prima regola da imparare per non farci troppi problemi inutili e neanche troppe illusioni: accettiamoci per quel che siamo! Ho letto delle cose molto belle, sono contenta che stia funzionando e dico grazie di cuore a chi lo fa funzionare. Dovrei scrivere del mio servizio anche se mi costa perchè da qualche mese faccio un po' fatica. Prima di tutto perchè non riesco ad andare tutte le settimane e mi dispiace. Non tanto perchè non rispetto la regola (la mia assistita è in struttura e, da tempo, è venuto a mancare l'obbligo di svolgere il servizio in un determinato modo) quanto perchè so di essere attesa e attesa con pazienza. La pazienza di chi non ha fatto altro per tutta la vita: aspettare che qualcuno ti aiuti a vivere. Il secondo motivo per cui faccio fatica è che lei sta cambiando. All'invalidità che l'ha accompagnata per tutta la vita si stanno sovrapponendo i problemi dovuti alla vecchiaia. Era fresca, curiosa, pronta ad accogliere con gioia ogni proposta: una passeggiata, una visita, un'uscita in pizzeria, un racconto. Ora sembra non avere voglia di niente. Sta sviluppando diffidenza verso chi le sta intorno. E' ossessionata dall'idea che le portino via i suoi vestiti. Solo pochi anni fa sognavo di poterla piano piano condurre a scoprire delle dimensioni nuove del suo vivere. Pensavo che avrei potuto leggere per lei e farla appassionare alla lettura, che avrei trovato il modo di farle ascoltare della musica che fosse solo per lei e che potesse scegliere lei. Non sono riuscita a fare quasi nulla di quello che avrei voluto per i miei limiti e per i suoi. Anche questo bisogna saper accettare ! Claudia

13 aprile 2008

La propria parte

Oggi in Italia si vota per le politiche. La tentazione di non andare a votare è grande: i governi che si sono avvicendati ci hanno tutti ugualmente deluso, i poveri sono sempre più poveri, i diritti minimi, come il lavoro e l’assistenza sanitaria pubblica e gratuita, sono ancora lontani dall’essere garantiti ovunque e c’è ancora chi vende il proprio voto in cambio di quello che dovrebbe spettare di diritto. In casa della persona da cui vado per il servizio EmmauS si scruta il cielo e si aspetta il momento più caldo e opportuno della giornata per portarla al seggio, perché per lei quello che più conta è restare soggetto attivo, fino all’ultimo, di ogni atto dell’esistenza. Non importa se la destra e la sinistra continueranno a mancare alle proprie responsabilità, incolpando sempre gli altri di ciò che manca, quello che importa è la libertà di riuscire a fare comunque la propria parte. Cristina

10 aprile 2008

riflessioni

Finalmente stasera mi sono presa il tempo di entrare nel blog e di leggere ciò che vi è scritto. Innanzitutto grazie a Gianpietro per la sua tenacia. Se puoi, non mollare perchè è uno strumento importante ... almeno a giudicare dai testi che ho visto. Innanzitutto benvenuta a Cristina che non ho il piacere di conoscere. Spero che ciò possa avvenire al più presto: ho ricostruito, dopo il messaggio di Gianpietro, la situazione da cui vai. Anche altre volontarie la seguono da diverso tempo e credo sarebbe opportuno incontrarci per condividere le esperienze e sostenerci vicendevolmente e anche per aiutare la nuova volontaria che ha da poco preso servizio presso questa signora. Mi dispiace molto che in tutti questi anni il tuo servizio sia stato senza l'associazione alle spalle, in solitudine. E' cosa che non dovrebbe mai accadere. Sento sempre molto forte il bisogno di condividere ciò che vivo, sentimenti, emozioni, dolori, momenti lieti, anche semplicemente poter parlare di un libro che mi è piaciuto molto, che mi ha fatto riflettere: se non riesco ad avere questa condivisione mi sento sola, straniera. A volte questa condizione di solitudine mi è cara perchè mi fa comprendere meglio chi è veramente solo, chi davvero non trova aiuto come la mia amica rom che in questi giorni è stata sfrattata insieme alla sua famiglia e forse non ha dove "posare il capo..". Elena

9 aprile 2008

La distanza

Ieri sera ho visto in dvd “Il Decalogo” del regista polacco Krzysztof Kieslowski. Nel primo episodio c’è una scena bellissima di un bambino che chiede alla zia chi è Dio. La zia non risponde subito, ma lo abbraccia teneramente e lo tiene stretto a sé a lungo, poi gli domanda: “Cosa senti?” E lui le risponde: “Ti voglio bene”. Allora la zia gli dice: “Ecco lui è in questo”. Mentre guardo sullo schermo la scena di questo abbraccio così caldo e rassicurante, penso alla distanza a cui siamo soliti tenere i poveri e gli ammalati nel nostro servizio: cuciniamo per i poveri alla mensa, ma non sediamo con loro a mangiare; con i corpi degli ammalati usiamo tutte le precauzioni igieniche che ci hanno insegnato, ma un abbraccio darebbe loro un conforto maggiore. Abbiamo scelto di stare dalla parte della carne sofferente del mondo e questo è stato un primo passo importante, adesso non ci resta che imparare ad amare con il cuore di Dio. Cristina

5 aprile 2008

La nostra storia

Oggi è sabato e sono di servizio alla reception dell’hospice. Quando vengo qui ne approfitto per fare certi lavori di sbobinatura e per questo porto il computer portatile e metto l’auricolare per ascoltare le registrazioni e trascriverle. L’uomo che mi sta davanti è un malato, ospite di questa casa; incurante del fatto che io sia concentrata in un altro lavoro, aspetta pazientemente di essere ascoltato. Tolgo l’auricolare un po’ infastidita da questa interruzione e lui incomincia a raccontarmi la storia della sua vita, storia che deve aver già raccontato diverse altre volte. Dopo un po’ questa storia mi prende e la seguo con interesse fino alla fine.
“Forse tutti dovremmo lasciare una memoria, un controgiornale, una controstoria a cui affidare quello che crediamo di avere capito, di noi e degli altri, la nostra porzione di verità. La storia, quella grande, in fondo che cosa fa di diverso? E perché la storia grande dovrebbe avere più importanza di quella piccola?” (Laura Bosio, Sguardi)
Quello che crediamo di avere capito. In fondo anche questo nostro blog serve un po’ a questo. Cristina