18 aprile 2008

Càpita

Càpita che si viva tutta una vita senza imbattersi in una malattia che invece a un certo punto prenderà per te la faccia del destino”. Nel suo ultimo libro Càpita scritto dopo essere stata colpita da ictus cerebrale, Gina Lagorio parla a lungo della relazione con l’altro. La prima volta che lessi questo libro mi colpì il fastidio che diceva di provare in ospedale per l’uso di quel ‘noi’ che spesso le infermiere usano nel parlare: “Come abbiamo dormito questa notte? Ci vogliamo alzare? Ci vogliamo vestire?” Avevo provato anch’io la stessa irritazione per questo strano modo di rivolgersi agli ammalati. La mia generazione ha sempre fatto di tutto per liberarsi dalla dipendenza dagli altri, dalla famiglia, dal marito, dai figli, nel lavoro, per emanciparsi da tutto e da tutti. Poi però a un certo punto di quell’essere ‘uno’ non ha più saputo che farsene, ne era stata fiera, e a ragione, ma adesso si era stancata. Quando mi è capitato di assistere un ammalato a mia volta ho cominciato anch’io, senza intenzione e senza quasi rendermene conto, a usare quel ‘noi’: “Vogliamo alzarci? Incominciamo a preparare il pranzo? Mettiamo il tavolo?” E quel ‘noi’ non mi infastidiva più, era l’inizio di un nuovo modo di vivere la relazione con l’altro, legati eternamente agli altri e al loro destino. Cristina

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