24 dicembre 2009

La fede

Come molte persone della mia generazione, ho ricevuto un’educazione cattolica deviante, centrata più sull’agire dell’uomo, che non sulla grazia dello spirito. Solo lontano dalla Chiesa o, in tempi più recenti, con una vicinanza un po’ defilata, ho potuto intraprendere un cammino personale di ricerca e di studio che, partendo da me stessa e dalla mia dimensione psichica e spirituale, maturasse la consapevolezza di una realtà che, comunque la si voglia chiamare, non finisce con l’uomo. Questo non mi ha comunque impedito di conoscere figure luminose del pensiero cristiano, che mi sono state di grande aiuto, ma si è trattato per lo più di voci un po’ fuori dal coro, rispetto a quella che è la gerarchia della chiesa cattolica. Sento talvolta fare delle distinzioni tra associazioni di volontariato laiche e religiose: se c’è una differenza e ci sarà sicuramente, questa non riguarda, a mio avviso, il ruolo di chi svolge un’attività di volontariato. La scelta personale credo debba stare molto più a monte ed è certamente libera e laica. Nella storia del servizio, ci sono stati - e tuttora persistono - modelli diversi, a cui si può fare riferimento. Quello più vecchio è senza dubbio quello tradizionale cattolico di aiutare gli altri, in vista di una ricompensa futura, nella vita ultraterrena. Non credo che una simile motivazione potrebbe sostenerci a lungo, considerando che, per quanto grande possa essere la nostra fede, non potremmo mettere quella che è comunque un’ipotesi a fondamento della nostra vita. Un altro modello, che risale all’ottocento, ma è un po’ duro a morire, è quello del benefattore, che aiuta gli altri, perché pensa di avere di più degli altri, ma soprattutto crede di meritare di più degli altri, perché quello che ha è frutto del suo lavoro o della sua intelligenza o del lavoro della sua famiglia e, molto spesso, il benefattore, proprio per questo motivo, contribuisce a mantenere nella società quella ingiustizia che crea il disagio, che poi lui vorrebbe attenuare con un atto di generosità. Ne sono un esempio tutti quelli che ritengono giusto accogliere gli stranieri, perché fanno un lavoro che noi non vogliamo più fare. Ma se crediamo nell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, perché uno dovrebbe mai fare un lavoro che altri non vogliono fare? La politica ha invece contribuito a creare un modello diverso, che è quello dell’operatore sociale, posizione profondamente sbagliata anche questa, perché non riconosce la dignità dell’altro a decidere per la sua vita, ma stabilisce lui quello che deve andare bene per un'altra persona: usa termini come “caso”, "aprire un caso" o “prendere in carico”, tutti indicativi del fatto che l’altro è il disgraziato, lo sfortunato. Inutile dire che tutti questi modelli, anche se superati, si intersecano ancora oggi e spesso ci inducono in errore: occorre dunque fare chiarezza, perché, anche se ognuno di noi cerca di fare il bene ed è in assoluta buona fede, è molto facile cadere in contraddizione. La conclusione, a cui mi ha portato la riflessione su questo argomento, è che alla base c’è una scelta libera dell’uomo e che non riguarda solo il servizio o aiutare gli altri, ma è quella che Einstein ha definito il fattore più importante nel dar forma alla nostra esistenza umana, che è quello di fissare una meta, laddove la meta è una società di esseri umani liberi e felici che si prodighino con costante sforzo interiore per liberarsi dal retaggio degli istinti antisociali e distruttivi”. Sulla base di questa scelta, che dovrebbe orientare tutta la nostra vita, è facile allora capire che il fondamento, che sta alla base dell’aiutare gli altri, non è un criterio di carità o di fede, ma un criterio più ampio di giustizia, che considera il diritto di cittadinanza di tutti gli uomini a vivere in pace, a stare bene e a non soffrire. Cristina

22 dicembre 2009

Ancora sulla verità

L’ultimo post di Cristina “Quale verità?”, oltre a generare una nutrita ed inusuale serie di commenti, mi ha indotto a riesumare un vecchio quesito sulla “verità” (oggettiva o soggettiva che sia) e che mi vede tuttora indeciso sulla risposta da dare. Il tema è delicato e può interessare tantissime situazioni (da quelle politiche a quelle mediche; da quelle assistenziali a quelle educative ….). L’immagine dell’attore Raymond Burr (il mitico avvocato Perry Mason) mi aiuta a delimitare il campo entro confini facilmente descrivibili. Ed ecco la domanda: “Se l’obiettivo della giustizia è la ricerca della verità e, di conseguenza, l’attribuzione delle responsabilità, come può un avvocato sostenere il falso, sapendo di farlo?”. Esemplificando: se difendo A e questi mi confessa di essere colpevole, in virtù di quale principio mi adopero per farlo assolvere, mettendo in dubbio le prove, le testimonianze, fino ad indirizzare i sospetti verso terze persone che so non colpevoli? E non ditemi che tutti gli avvocati sono in buona fede convinti dell’innocenza dei propri assistiti. Gianpietro

10 dicembre 2009

Quale verità?

Anni fa, in occasione di un incontro con un medico palliativista, che seguiva la formazione dei volontari, dedicati all’assistenza degli ammalati in fase cronica e irreversibile, a proposito di una sua affermazione sulla opportunità, da parte del medico, di dire la verità al malato, gli venne chiesto come doveva essere annunciata una notizia dolorosa e, soprattutto, fino a che punto doveva essere la verità. Rispose che la verità doveva essere quella che l’altro era in grado di sopportare. Verità, dunque, non fondata su un principio assunto (il nostro) e unico (scientifico), ma verità relazionale, rapportata ad un contesto più ampio della realtà, che è quello della dimensione psichica e spirituale del malato. Questo non significa certamente dire all’altro una verità non autentica, ma una verità che tenga conto dell’altro e non solo di noi stessi o di un ambito specifico, come sarebbe quello del solo quadro clinico. Questo concetto più ampio della verità relazionale mi torna spesso in mente nel rapporto con la persona da cui vado per il servizio EmmauS. Le indicazioni ricevute all’inizio di non interferire mai in una situazione familiare spesso complessa, di cui non disponiamo adeguate informazioni, non sono più sufficienti a supportare una relazione che dura da dieci anni. Il rapporto che ho adesso riflette pertanto la tensione tra un necessario distacco da una situazione che mi coinvolge limitatamente al tempo esiguo che le dedico ed un coinvolgimento emotivo e affettivo, che è pur necessario per mantenere viva una relazione, affinché questa cresca e sia produttiva per entrambi. Cristina

13 ottobre 2009

La responsabilità esistenziale

Quello che più preoccupava i partecipanti al corso di formazione per malati terminali, a cui partecipavo anch’io, era che il malato ci domandasse, ad un certo punto, se vedevamo, nella sua situazione, una buona ragione per vivere. Sarebbe stata una domanda alla quale non avremmo saputo cosa rispondere, perché noi certamente non ne vedevamo nessuna. Sorprendentemente, invece, almeno per quanto riguarda la mia esperienza personale con gli ammalati, la buona ragione me l’hanno sempre data loro. Noi, che non abbiamo ancora avuto esperienza di una situazione così grave, in cui i problemi e la loro relativa sofferenza non possano essere ridotti o eliminati, parliamo molto più facilmente di vuoto esistenziale, condizione che equivale già di per sé alla morte, almeno in senso spirituale. Gli ammalati, che ho assistito, mi hanno sempre fornito loro stessi una ragione per vivere: quando erano in una situazione non ancora così grave, c’era sempre un nipote o dei figli che avrebbero voluto veder crescere, una persona che amavano, che non volevano lasciar sola, o la loro bella casa, arredata con tanto amore, o i loro amati libri o studi: non è mai successo che qualcuno non avesse proprio nessuno o nessuna cosa per cui voler vivere. Anche quando la morte è ormai certa, gli ammalati che ho conosciuto hanno sempre trovato il modo di dare un significato alla loro esistenza. Ho avuto la possibilità di verificare questo, anche recentemente, con la mia referente di EmmauS: fino al giorno prima di morire, era preoccupata perché non era ancora riuscita a consegnare il numero delle ore di servizio svolte dai suoi volontari; la sua preoccupazione era anche costantemente rivolta al marito, che non voleva si preoccupasse per lei e per questo, sempre sorridendo, gli faceva capire che la sua fede era profonda in quel momento più che mai. Su questo tema del senso della vita, anche e soprattutto nel momento della sofferenza, ho trovato molto interessanti gli studi di Viktor E. Frankl, lo psichiatra fondatore della logoterapia, che partendo proprio dall’esperienza più dolorosa della sua vita, quella del lager e della perdita della sua famiglia, ha ricostruito la sua esistenza e messo a punto una terapia efficace per la cura del disagio esistenziale che porta al suicidio. Frankl parla di una dimensione orizzontale dell’homo sapiens (o abilis), l’uomo che è abile negli affari, in amore, in tutto e oscilla, nella sua vita, dal successo all’insuccesso; c’è invece una dimensione verticale, che è quella dell’homo patiens, l’uomo sofferente che ha, ai due estremi, invece, la disperazione e la realizzazione. E’ molto importante questa teoria, per capire come l’homo sapiens (abilis) possa trovarsi in una condizione di successo, ma di vuoto esistenziale e, perciò, di disperazione e, viceversa, l’homo patiens in una situazione di insuccesso, ma di realizzazione di senso della vita. In ultima analisi, Frankl dice che vivere non significa altro che avere la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte all’esigenza dell’ora: l’uomo ha una piena realizzazione di se stesso quando smette di stare lì ad attendere quello che la vita può dare, ma capisce che quello che importa è invece soltanto quello che la vita si attende “da lui”. Cristina

1 ottobre 2009

La ricerca di un volto

Nell’ambito di un ciclo dedicato al tema “Dignità della persona”, ho assistito, domenica scorsa, ad un incontro con don Angelo Casati, che conoscevo di fama, avendo letto un suo libro un po’ di tempo fa. E’ stata una relazione molto interessante, ma più di tutto, tra gli argomenti trattati, mi ha colpito il concetto di “dignità della persona” come “dignità di ogni persona”, che vuol dire rispetto dell’uomo e della donna, nella diversità del pensiero. Ha detto che i rappresentanti del pessimismo religioso parlano di un Dio in fuga, in esilio: ma vuoto e senza Dio non è il mondo, vuoto è il nostro cuore o i nostri occhi che non vedono. Che cos’è che non vedono più i nostri occhi? Soprattutto il volto delle persone, la loro diversità. C’è un prevalere dell’essere al centro della nostra attenzione, dell’io arrogante, non il volto dell’altro. Mi è rimasto impresso questo discorso e l’ho calato nella mia quotidianità. Il mio lavoro, tanti anni fa, veniva svolto da tante persone, ognuna delle quali si occupava di un’area geografica precisa: adesso, con internet, lo svolgo facilmente da sola e poco importa se il mio interlocutore abita nelle Filippine o in Nuova Zelanda o a due passi dal mio ufficio. Svolgo un servizio per tutti, ma il volto di ognuno non lo conosco: è un criterio economico e basta quello che guida la mia relazione. Tra le mie amicizie reali e quelle virtuali non c’è più una reale differenza: nel tempo libero, trascorro molte ore al computer e intreccio conoscenze, che sono ormai diventate una compagnia quotidiana e con loro discuto, forse meglio e anche di più, che con gli amici reali. Anche nel nostro servizio di EmmauS, a parte le ore che dedichiamo al nostro assistito, il resto delle relazioni, con gli altri volontari o con l’organizzazione, si svolge in modo virtuale, con mail e adesso con questo blog. E’ un percorso che non può essere arrestato, ma deve essere umanizzato e questo processo parte dalla constatazione che non ci sono categorie: i volontari, i familiari, gli ammalati, gli internauti, ma tante persone diverse una dall’altra e per ciascuna va cercato anche un volto. Cristina

1 settembre 2009

Noi e il corpo degli altri

“Noi e il nostro corpo” è un libro che un gruppo di femministe americane scrisse negli anni ’70, per insegnare alle donne a prendersi cura del proprio corpo: è su questo libro che la mia generazione ha tratto le conoscenze più elementari del corpo e della sessualità. Ma il corpo è ben altro: è il modo in cui l’essere umano vive la relazione con gli altri e la sua vita su questa terra: è quindi necessario rapportarci anche con il corpo degli altri e in ogni situazione. Il modo in cui sono stata educata in famiglia, mi ha spinto ad evitare, il più possibile, il contatto con il corpo degli altri: niente baci tra parenti, non si parla in pubblico di malattie o di questioni sessuali o di certe funzioni fisiologiche, se uno si ammala, se ne occupa qualche parente anziana, che non ha molto da fare. Quando decisi di intraprendere il servizio di volontariato, seguii il primo corso di formazione disponibile: era un lungo corso di sei mesi, che EmmauS aveva organizzato, in collaborazione con il nascente hospice di Montericco, per la cura degli ammalati oncologici. Più per darci un’idea di quello che ci aspettava, che con fini educativi veri e propri, un medico palliativista ci sottopose una serie di diapositive con immagini mostruose di corpi deformati dal cancro e credo che quella visione scoraggiò più di un partecipante. In seguito, ci venne sempre detto che al volontario non veniva richiesto di prendersi cura del corpo del suo assistito, ma solo un po’ di compagnia. Come ho detto sopra, però, il corpo è un comportamento, una relazione e non è possibile scinderlo ed occuparsi solo di una parte. Il mio primo servizio fu proprio l’assistenza ad una malata oncologica, con il corpo devastato da piaghe, che richiedevano di essere lavate e disinfettate frequentemente: l’ammalata non aveva nessuno e per alcuni giorni, per un problema di mancanza di personale infermieristico, non venne nemmeno l’infermiera a domicilio, e lei mi chiese di aiutarla in questa operazione. Difficile negare una richiesta così impellente. Anche con il servizio attuale, le necessità sono continue e ripetute, e non è possibile per il volontario evitare o rimandare certe operazioni. Dopo dieci anni, devo dire che il contatto con il corpo degli altri è diventato un atto naturale, come tutti gli altri: se una persona è malata, anche le manifestazioni fisiche della sua malattia mi sembrano normali, fanno parte della totalità della sua persona e, soprattutto, non possono essere evitate. Cristina

19 agosto 2009

Perché questa scelta?

Mi chiamo Cinzia e sono una volontaria che ha iniziato nel 2001 un corso di dieci incontri, di tre ore ciascuno, finalizzato a “prendersi cura” del malato terminale. Alla fine del corso, ho fatto un colloquio e dopo alcuni mesi ho deciso di iniziare a fare volontariato in hospice. I bisogni della casa erano molti ed io avevo scelto il servizio alla reception, la distribuzione dei pasti e la compagnia agli ammalati. Dopo alcuni anni, ho scelto solo l’assistenza agli ammalati, seguendo un corso specifico. Perché questa scelta? Ho capito che i malati sono grandi maestri di vita, perché ti aiutano a confrontarti con l’essenzialità della vita, ma soprattutto perché a volte ti senti impotente e inutile, ma ci sei. Ho constatato che il malato si confida volentieri con il volontario, perché, rispetto alla sua famiglia, è una persona emotivamente più distaccata. Anche la famiglia ha spesso voglia di parlare, di raccontare .. perché quando uno si ammala, spesso anche tutta la famiglia viene coinvolta nella malattia. Ci vuole una grande capacità di ascolto, lasciando anche spazio al silenzio e alla discrezione. Cosa vuol dire quindi, per me, essere volontaria? Sono una specialista in “umanità gratuita” e do secondo le mie possibilità ed il mio tempo; non sono onnipotente, ma ho anche le risorse: quindi tante risorse, tanti volontari possono essere un aiuto prezioso per tutti quelli che ne hanno bisogno. Cinzia

11 agosto 2009

Sapersi tutelati

Perché alcune persone si sentono attratte dal volontariato e altre no?” E’ perché, in seguito ad un’esperienza personale, i nostri occhi si sono aperti alle sofferenze degli altri o perché sentiamo che sia tempo di diventare persone migliori o forse perché c’è stato un cambiamento nel nostro stile di vita, che ci ha concesso più tempo libero. Nel mio caso, c’è stata un’altra ragione minore. Io sono inglese, e volevo sentirmi parte integrante nella società in cui avevo deciso di vivere. Sono volontaria di EmmauS fin dall’autunno del 1996, dopo un’esperienza personale di assistenza a due membri della mia famiglia a me molto cari e molto ammalati di due diverse malattie: uno di Parkinson e l’altro di cancro. Sebbene, dopo la loro morte, fossi abbastanza sicura di voler continuare a dedicare un po’ delle mie energie ad altre persone, sentivo che dovevo pensare seriamente alla “causa” o al tipo di organizzazione di volontariato a cui volevo partecipare. Chiesi consiglio ad un’amica di vecchia data, che aveva una grande esperienza come ricercatrice di risorse finanziarie per la carità. La sua risposta toccò due aspetti complementari del volontariato: il volontario e l’organizzazione. “Un potenziale volontario deve voler aiutare gli altri e avere un approccio positivo, ma razionale in ogni servizio che intraprende. Un potenziale coordinatore di zona, di una organizzazione di volontariato, dovrebbe essere sempre molto attento alla evoluzione dei casi presi in carico, così come all’attività di tutti i volontari”. Io credo che EmmauS sia cresciuto positivamente. Cerca sempre fortemente di porsi e raggiungere nuovi obiettivi e penso che lo staff faccia un lavoro eccellente nella organizzazione e nella formazione dei volontari. Tuttavia, sento che il ruolo del coordinatore di zona sia determinante per la qualità del servizio e per il benessere psicologico dei volontari. Con il passare del tempo, i casi possono richiedere un riassestamento o una riorganizzazione del servizio volontario. I volontari anche dovrebbero forse essere più proattivi nell’informare i loro coordinatori di zona sull’evolversi delle situazioni e le difficoltà del loro servizio e i coordinatori, per quanto possa essere difficile, dovrebbero fare il possibile per sollevare il volontario da ogni criticità in un tempo ragionevole. Frances

4 agosto 2009

Poesia

Ho trovato la poesia di cui vi parlavo ieri e la vorrei dedicare a tutti i volontari che sono in servizio, in questa torrida estate.




Spiritualità della bicicletta
(Madeleine Delbrêl)
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«Andate» ci dici, Signore, a ogni svolta del Vangelo.
Per essere con te sulla tua strada occorre andare,
anche quando la nostra pigrizia ci supplica di fermarci.
Tu ci hai scelto per essere in un equilibrio strano.
Un equilibrio che non può stabilirsi né tenersi
se non in un movimento,
se non in uno slancio.

Un po' come una bicicletta che non sta su senza girare,
una bicicletta che resta abbandonata contro un muro
finché qualcuno non la inforca
per farla correre veloce sulla strada.

La condizione che ci è data è un'insicurezza vertiginosa,
universale.
Non appena cominciamo a guardarla,
la nostra vita oscilla e ci sfugge.
Noi non possiamo star dritti se non per marciare
e tuffarci in uno slancio di carità.

Tu ti rifiuti di fornirci una carta stradale.
Il nostro cammino avviene di notte.
Ogni azione da compiere di volta in volta
si illumina come le luci dei segnali.

Spesso la sola cosa garantita
è questa fatica regolare
del medesimo lavoro da fare ogni giorno,
delle medesime faccende da ricominciare,
dei medesimi difetti da correggere,
delle medesime sciocchezze da evitare.

Ma, al di là di questa garanzia,
tutto il resto è lasciato alla tua fantasia
che si scatena a suo piacimento con noi.

Cristina

3 agosto 2009

La bicicletta

Madeleine Delbrêl (1904-1964) fu una cristiana laica, diventata figura di riferimento, tra gli altri, di un’assistente sociale che, fin dall’inizio, mi guida nel servizio di EmmauS, con l’aiuto prezioso dei suoi consigli e della sua esperienza personale.
Un episodio che mi racconta spesso, di questa straordinaria donna del Novecento, lei stessa assistente sociale in un piccolo paese della Francia meridionale, è quando si recò a portare un pacco di vestiti ad una famiglia povera e, aprendo il pacco, vide con grande sconcerto che conteneva calzini ed altri indumenti intimi sporchi. Che vergogna! Che umiliazione per quella famiglia! Corse fuori e andò da un fiorista a comprare il mazzo di fiori più bello che c’era e lo portò a quella famiglia che, da allora, divenne una delle sue più ferventi sostenitrici.
"Nel servizio – diceva - si tratta di imparare ad avvicinare «gente che è stata scorticata viva» e che perciò soffre solo a sfiorarla; gente che deve essere incontrata «con dolcezza». Ma che cos'è la dolcezza? Spiega: «È ciò che riesce a toccare senza ferire», e vuole che le sue assistenti siano «esseri dolci che passano senza scalfire». Quando manda le sue giovani a visitare le famiglie, le avverte che queste non hanno bisogno di essere visitate «come si ispeziona una valigia alla dogana»: bisogna andare a loro come genitori che visitano i figli, e fratelli che visitano i fratelli.
Era una donna molto simpatica, che faceva ridere, e questo era il suo grande talento. Ci sono tanti termini, da lei stessa inventati, come “la liturgia da bar”, che esprimono con chiarezza il suo pensiero, in un modo semplice, che tutti riescono a capire, ridendoci anche su. Tra quelli che trovo più efficaci, c’è la “spiritualità della bicicletta”, sul quale scrisse una poesia. Sosteneva che, per molti cattolici, la fede era come una bicicletta appoggiata al muro, che sta su, ma è immobile. Per fare il bene, invece, bisogna fare come la bicicletta, che svolge la sua funzione soltanto quando è in piedi e va. Cristina

25 luglio 2009

La scelta

Io penso che l’esperienza che stiamo facendo noi volontari, che abbiamo scelto il servizio agli ammalati gravi e oncologici, non ci toglierà nemmeno un minuto di dolore, quando la malattia toccherà a noi o a qualcuno della nostra famiglia, perché questa è un’esperienza personale, unica e diversa per ognuno. Quello che invece ci renderà diversi, almeno da quelli che non hanno mai messo in conto, nella loro vita, la malattia, sarà questo: che noi avremo già avuto l’opportunità di riflettere sul modo in cui vogliamo affrontare la malattia e la morte. Oggi si parla molto di autodeterminazione, ma questa parola non mi piace tanto, perché richiama un concetto di anarchia, che non rientra molto in quello che potrebbe, con maggior precisione, essere invece chiamato il riconoscimento della possibilità dell’individuo di fare una scelta. Questo diritto fondamentale dell’uomo è stato riconosciuto dalla filosofia e dalla politica, alcune centinaia di anni fa, almeno a partire dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, ma in medicina non ha più di quarant’anni, perché s’incominciò a parlare di bioetica soltanto nel 1971, e molti oggi si chiedono del perché di questo ritardo. Circa mezzo secolo fa, alla mia nonna paterna, ormai ottantenne, venne diagnosticato un tumore, parola che allora non si poteva nemmeno pronunciare e, se proprio non si poteva farne a meno, si arrivava a chiamarlo “brutto male”, ma sempre abbassando la voce, perché nessuno, tantomeno l’ammalato, doveva sapere. Nessuna delle decisioni che questa malattia rendeva necessario prendere - se operare o no, se restare in ospedale o andare a morire a casa - venne presa dalla nonna: per lei decisero gli altri, e non essendo la mia famiglia molto competente in materia, le presero i medici, perché erano quelli che avevano studiato. Oggi, che a mia madre è stato diagnosticato un tumore, pur avendo dieci anni di più della nonna allora, ogni decisione sul modo di affrontare la malattia è stata concordata tra lei e il medico: il parere del medico, che consigliava l’intervento chirurgico, è stato ascoltato, valutato con il resto della famiglia e, infine , insieme ad ogni altra cura intensiva, con molta serenità, da lei rifiutato. Cristina

23 luglio 2009

L'ultima estate

"L’ultima estate" di Cesarina Vighy è arrivato in finale all’ambito Premio Strega 2009. E’ l’opera prima di una scrittrice settantenne ammalata di SLA, che ha deciso di raccontare in questo libro il suo percorso umano, che per lei include questa terribile malattia. E’ una lettura che consiglio a chi vive da vicino la malattia grave, perché aiuta molto a capire l’altro. Una considerazione che mi è rimasta impressa, è quella in cui dice che la cosa più stupida da dire a un malato è che lo si trova proprio bene e che non sembra nemmeno ammalato; e la cosa più dolorosa è ... quando smettono di dirglielo e non sanno più cosa dire. E’ una scrittura che, a tratti, fa anche un po’ male, perché ci mette tragicamente di fronte ai nostri limiti e ridimensiona tutta la nostra sicurezza di persone sane, che hanno qualcosa da dare e da insegnare. Ho prestato questo libro ad alcune amiche più giovani, e hanno trovato irritante – dicono – la sicumera di chi sembra aver capito tutto dalla vita. Io però penso che chi si trova colpito da una malattia molto grave ed è a un passo dalla morte, abbia davvero una sapienza che quelli che stanno bene non possono avere. E’ una cosa, questa, che non solo noi volontari, ma anche i medici dovrebbero tenere ben presente, e accettare che l’ammalato abbia qualcosa da insegnare anche a loro. Cristina

22 luglio 2009

Poche parole

Alla messa domenicale dell’hospice, sono spesso distratta dagli ammalati e dalle necessità che si presentano. Domenica scorsa, invece, mi sono trovata ad ascoltare con interesse l'omelia, perché sembrava rivolta a me e ad un pensiero che faccio spesso. Il sacerdote parlava delle relazioni in generale e diceva che l’interruzione di un rapporto, quando non parliamo più all’altro, è tra le cose peggiori che possa capitare tra le persone. Al contrario, quelle poche parole che diciamo, soprattutto agli ammalati, che ci sembrano spesso inutili e banali, sono invece importantissime, perché mantengono comunque viva una relazione. Ho detto che le ho sentite rivolte a me, perché quante volte, quando un malato peggiora, mi sono detta: Ma cosa entro a fare nella sua stanza? ... Cosa gli dico? ... A cosa serve?”. Questo mi è successo anche recentemente, quando un anziano parente ha perso la moglie amatissima, e in questi giorni vorrei chiamarlo, ma anche qui mi dico: Soffre troppo .. Forse lo disturbo .. Forse vorrà stare solo con i suoi pensieri ..”. Mi rendo conto che sono tutte scuse. Poche parole, un semplice “Come stai?”, per tante persone sono il segno che rompe il silenzio e le tiene in vita. Cristina

21 luglio 2009

Di nuovo estate ..

La persona da cui vado per il servizio EmmauS va, in estate, in un centro di riabilitazione specializzato per due mesi, in giugno e in settembre. Per la famiglia e noi volontari è un’occasione per recuperare forze ed energie. Come vi avevo già detto in precedenza, siamo diversi volontari ad andare dalla stessa persona, perché il caso è molto grave e questa persona ha bisogno di un’assistenza continua e quando subentra un nuovo volontario, vedendo tanta necessità, inizia andando più volte la settimana, poi, dopo qualche mese, chiede di andare una volta sola e dopo un anno, spesso, ogni quindici giorni, come faccio io, perché non è proprio possibile riuscire a fare diversamente. Il mio gruppo ha avuto, purtroppo, la perdita della referente e, al momento, non sappiamo chi l’abbia sostituita o almeno non c’è stata nessuna comunicazione ufficiale. Come è stato notato da più di un volontario, nelle riunioni di zona di qualche mese fa, la coesione e la comunicazione, all’interno della associazione, è molto difficile per diversi motivi, e questo mi spinge a proporre di farci noi carico di una specie di “autogestione” (perdonate il termine un po’ sessantottino), in modo informale. Oltre a questo spazio, che rimane aperto per ogni tipo di comunicazione dal basso (termine questo che ci richiama all’umiltà, nel caso ci fossimo montati un po’ la testa:)) e al quale invito tutti a partecipare, anche con brevi messaggi e segnalazioni, suggerirei di prendere nota, in modo autonomo, dei numeri di telefono degli altri volontari che si ha l’occasione di conoscere e contattarli non soltanto in caso di bisogno, ma anche per ritrovarsi in modo semplice, per un tè, una pizza o anche solo per due chiacchiere a casa dell’uno o dell’altro. Mi è venuta questa idea perché io l’ho fatto e ho scoperto che molti volontari desiderano davvero parlare con gli altri, ma quando ne sentono il bisogno e non necessariamente quando ci sono le riunioni ufficiali, dove gli argomenti sono sempre così tanti ed è facile sentirsi dire, come è successo a me, che quello non era il tempo e il luogo per un argomento, che invece a me stava particolarmente a cuore. Attendo numerosi i vostri commenti a questa proposta e auguro buone vacanze ai fortunati che partono. Cristina

2 maggio 2009

gesti e parole















"... ci vediamo nell’altro, e solo quando qualcuno raccoglie la nostra storia, la storia delle nostre pene, della nostra contentezza e del nostro fallimento, solo allora ci conosciamo. Come conoscerci se non ci conosce nessuno?” Maria Zambrano “Le parole del ritorno”

17 aprile 2009

Emergenza caldo

Il Centro di ascolto “Emergenza caldo” è un servizio esclusivamente telefonico, attivo nei tre mesi estivi. È un servizio gestito in collaborazione tra Comune di RE, Servizio Sanitario Regionale, AUSER, EmmauS, Croce Verde e Croce Rossa. Lo scopo è di aiutare le persone che rimangono in città durante l’estate e che possono avere bisogno di assistenza sociale, o sanitaria, o “psicologica”. Possono telefonare direttamente le persone che hanno bisogno, ma chiunque può segnalare situazioni di persone, per lo più anziane, che potrebbero vivere situazioni di disagio. Alcuni medici di famiglia ci forniscono un elenco di pazienti soli e in situazioni precarie ai quali telefoniamo direttamente noi. Questa, quindi, non è un’esperienza di “assistenza domiciliare”, ma è pur sempre un’esperienza di rapporto interpersonale con persone in stato di bisogno. Qui l’interazione è esclusivamente verbale. Quel poco che puoi fare viene immediatamente riconosciuto dall’altro e ciò è indubbiamente gratificante. Converso molto volentieri con le persone, cerco di comprendere la loro situazione, mi sforzo di “mettermi nei loro panni” e non ho mai fretta di chiudere la conversazione. Naturalmente, mi sento più a mio agio quando sono le persone che telefonano al Centro d’ascolto, anziché quando sono io che chiamo loro. Ma è solo uno stato d’animo iniziale, poi il rapporto si fa fluido e sereno. L’utilità del servizio è abbastanza tangibile. Spesso, oltre e dopo la conversazione, avrei voglia di recarmi direttamente dalle persone con cui ho parlato, per conoscerle di persona, per constatare la loro situazione, anche logistica. Ma questo non è previsto. Il nostro compito, finita la conversazione telefonica, è di attivare i servizi richiesti e ritenuti necessari e possibili (trasporto, consegna pasti, medicinali, spesa a domicilio …). Spesso alla conversazione telefonica non fa seguito uno specifico servizio, in quanto il dialogo costituisce ed esaurisce il significato della telefonata. Questo servizio è particolarmente sentito nel periodo estivo, sia per i disagi che creano le alte temperature, sia perché andando in ferie fuori città i famigliari, molti anziani restano soli. Per la mia esperienza, considerando il bisogno di un rapporto, comunque presente in molte persone sole, questo servizio, anche se di comunicazione solo telefonica, potrebbe essere svolto anche nei restanti mesi dell’anno. Si tratta di un servizio che richiede soprattutto una grande capacità di ascolto. Le persone hanno bisogno di parlare e non solo della loro situazione presente. Il riferimento al passato, il raccontare la loro vita, il mettere in evidenza la continuità o la discontinuità di certi filoni esistenziali, per gli utenti di questo servizio, è assolutamente un bisogno. E si comprende, in questo contesto, che il tuo compito è di saper ascoltare, di comprendere e di dimostrare di avere capito e condiviso. Pino

16 aprile 2009

Nulla è impossibile

Mi chiamo Grazia, sono a Reggio Emilia per periodi sempre più lunghi da circa due anni. Risiedo ancora a Matera, ma qui a Reggio e nei dintorni di Parma vivono i miei quattro figli da diversi anni. Esigenze familiari hanno reso necessaria la mia presenza qui, pertanto, fin dall’inizio, ho avvertito il bisogno di rendermi utile nel tempo liberato dagli impegni familiari. Frequentando la parrocchia e soffermandomi a leggere i vari avvisi nelle bacheche della chiesa, ho trovato un invito ad operare nel volontariato domiciliare, dopo avere frequentato un corso di formazione gestito dall’Associazione EmmauS, che mi avrebbe consentito di dare una mano a chi è solo o in difficoltà in modo più corretto e adeguato. Sentivo che questa era la mia vocazione, in quanto, autonomamente, da quando ero in pensione, mi prendevo cura, nel quartiere dove abitavo, di una signora anziana, in difficoltà e sola. L’esperienza del corso di formazione, così ben strutturato e organizzato, è stata un’occasione preziosa di crescita personale, mediante l’acquisizione di strumenti indispensabili nello svolgimento di questo delicato servizio. Ho avuto modo di frequentare il corso con la carissima A. che avevo avuto modo di conoscere, grazie a mia figlia, durante una cena comunitaria nel mio quartiere. In quell’occasione mi aveva colpito la sua solarità e disponibilità che poi, durante il corso, ho potuto apprezzare in modo ancor più tangibile. Nel gennaio 2007 la famiglia, con la nascita della prima nipotina, mi impegnava sempre di più, riducendo il tempo a mia disposizione. A ciò si aggiungeva la mia difficoltà a muovermi su Reggio, essendo senza macchina e temevo pertanto di non essere più in grado di svolgere questo servizio. Ma A., a cui “nulla è impossibile”, mi diceva: “non ti preoccupare, troveremo un servizio adatto a te!” E questo è arrivato. Una mattina mi ha accompagnata a casa di una signora, poco distante dalla mia abitazione, per farmela conoscere e iniziare con lei un rapporto di ascolto e di fiducia. E’ iniziata così la mia prima esperienza in EmmauS. La signora da cui vado ha subito manifestato di gradire la mia compagnia, ma mi ha anche precisato di non avere bisogno di una presenza settimanale costante, ma di sentirci e vederci ogni tanto e di avvisarla telefonicamente prima di andarla a trovare, poiché non sempre è in casa e la mattina rimane a letto fino a tardi. Per me tutto ciò andava bene, stavo vivendo un momento particolare per problemi familiari e queste condizioni non mi avrebbero creato ansia. All’inizio sono andata a trovarla a casa, lei si apriva con me, come anch’io mi aprivo con lei. Prima di lasciarci lei voleva pregare con me per tutte le necessità dei figli e per la sua salute. Dopo qualche mese, un figlio che aveva perso il lavoro, si era trasferito a casa sua e quindi preferiva che io non andassi, così abbiamo incominciato a comunicare per telefono attraverso il quale mi confidava le sue preoccupazioni. Io la incoraggiavo e lei era molto contenta di sentirmi vicina. Poi il figlio ha trovato il lavoro e lei ha riacquistato la sua autonomia e ciò la rendeva più serena. Ci sentiamo sempre, ma telefonicamente. È una sua scelta. Qualche volta ci siamo incontrate per la strada o in chiesa. È sempre lei che mi riconosce e mi viene vicino. Credo di essere una volontaria un po’ anomala. È poco quello che faccio, ma lo faccio con il cuore e nel rispetto delle esigenze e dei bisogni della persona che mi è stata affidata. Ringrazio tutti voi per l’opportunità che mi è stata offerta e, in particolare, A., la mia referente, “una persona speciale” che mi ha sempre sostenuta in questo servizio. Grazia

15 aprile 2009

Piccole enciclopedie

Mi chiamo Giusi e faccio parte di EmmauS da 12 anni come volontaria, anche se non sempre in servizio attivo, per motivi familiari, o perché le persone che andavo a visitare ci hanno lasciati. Ricordo con piacere il mio primo corso di formazione EmmauS. Fu una mia amica, già volontaria, a consigliarmi la frequenza. Il corso è stato di grande utilità, mi ha preparata ad entrare nella vita “dell’altro” in punta di piedi. Partecipare al corso e ad altri incontri mi hanno dato una grande opportunità di crescita. I vari temi trattati, più che interessanti, mi sono serviti per capire come comportarmi, sentirmi utile e sapere reagire davanti ai bisogni sia della mia famiglia, sia del mio servizio EmmauS con un adeguato coinvolgimento. E soprattutto sapere ascoltare. Appartenere ad una associazione come EmmauS per me è gratificante, perché so di non essere sola e che, per qualsiasi necessità o consiglio posso rivolgermi alla mia referente, una figura di grande prestigio per l’Associazione. Con l’occasione voglio esprimere la mia gratitudine alla mia attuale referente, una persona “speciale” per tutto quello che fa e per il modo gentile e professionale di tenere unito il nostro gruppo. Tutto ciò mi dà serenità e sicurezza nello svolgimento del mio servizio. Durante questi anni di volontariato ho avuto modo di stare accanto a delle persone giovani e meno giovani. Conoscerli è stata una esperienza stimolante. Le loro storie di vita, per alcuni anche lunga, sono state per me un privilegio; capire il loro modo di adattarsi alle varie situazioni che si presentavano, spesso non facili, senza mai arrendersi, con dignità, rispetto, tolleranza e tanta voglia di aiutarsi l’uno con l’altro. Ascoltarli è stato per me un arricchimento, mi ha insegnato ad approfondire ed a condividere le emozioni. Credo che ogni persona è una “piccola enciclopedia” e quando qualcuno di loro ci lascia, in me rimane un perenne ricordo di gratitudine per ciò che ho ricevuto. Giusi

14 aprile 2009

Passeggiata in carrozzella

Sono una volontaria di EmmauS da molti anni. Sono casalinga da sempre, mamma di tre figli adulti ed ho due nipoti già grandi. Ho avuto i miei genitori ammalati a lungo prima di iniziare col volontariato. Sono stati anni difficili e duri perché entrambi hanno patito sofferenze fisiche, ma soprattutto mentali. Quando loro sono mancati ho saputo del volontariato EmmauS e, dopo il corso, ho scelto di dare questo piccolo aiuto agli anziani perché, anche se limitato come tempo, a mio parere aiuta un po’ anche i parenti. Ho sostenuto il colloquio finale del corso base nel marzo del 1995. Sono stata messa in contatto con una famiglia con due anziani, marito e moglie, ammalati. Dopo una certa diffidenza iniziale del marito mi sono trovata sempre molto bene, forse anche perché un po’ di tirocinio l’avevo fatto con i miei genitori. Il resto della famiglia mi ha accolta con molto calore e comprensione. Poi, prima il marito poi la moglie, sono mancati, ma ancora oggi mi sento con i loro familiari e se ci si incontra per caso ci troviamo a dire le stesse cose. Abbiamo dei buoni ricordi malgrado la situazione di sofferenza dei loro cari. Il marito, in particolare, che, pur non potendo camminare e comunicare bene, anche per il carattere un po’ chiuso, mi ha dato la soddisfazione di lasciarsi accompagnare a fare piccole passeggiate in carrozzella, cosa che non voleva fare da tempo. Ho frequentato questa famiglia per circa quattro anni. Il secondo incarico che mi è stato dato era in casa di una coppia di coniugi non molto anziani. La moglie stava abbastanza bene, il marito invece era completamente paralizzato, per cui la moglie, che lo accudiva con tanta dedizione e tanto dolore, era molto provata. Anche in questo caso sono stata accolta molto bene anche dai figli che venivano a trovarli. Facevo loro un po’ di compagnia e qualche piccolo aiuto saltuario. Poi il marito è mancato, ma, quando posso, vado ancora a trovare la moglie. Poi la mia famiglia ha avuto bisogno di me e ho dato la mia disponibilità a EmmauS per piccoli servizi saltuari per anziani che ne avessero bisogno. Da quasi tre anni ho un incontro settimanale con una signora con problemi di salute, ma molto lucida. Una volta alla settimana andiamo a fare la spesa e ci facciamo un po’ di compagnia. Direi che come volontaria EmmauS sono stata sempre fortunata e i problemi che ho avuto sono sempre stati piccoli e risolvibili con un po’ di pazienza. Auguro a tutti i volontari presenti e futuri di avere esperienze positive come ho avuto io. Buon lavoro a tutti. Mirella

13 aprile 2009

Il cerchio intorno

Questa è una cura, oltre alle pasticche, che mi aveva assegnato Loredana, amica e medico. Ho estrapolato dal componimento una riflessione che mi è tornata alla mente leggendo il post di Carmela. “Scrivi Patti cosa è per te vivere accanto ad un disabile totalmente dipendente come lo è tuo fratello”. Salto la storia perché non è in questo contesto che voglio leggere la mia vita e la sua. Il punto di partenza mi viene offerto da una riflessione sulle persone che frequentano casa. Sono tante; tutte rispondono ad una efficiente organizzazione che mi permette di lavorare, di seguire le figlie, di vivere un pezzetto di vita privata a volte tanto intenso da essere paragonabile ad una grossa fetta, a volte così esiguo e pesante. I volontari di EmmauS sono persone che ruotano a seconda delle giornate e mi sostituiscono quando sono al lavoro, e non solo, occupano uno spazio di tempo e un luogo dove esprimono la normalità semplicemente con il loro esserci. A volte chiedo loro di svolgere sul famigliare alcune manovre con la possibilità del rifiuto se tale impegno comporta disagio, altrimenti occupano questa casa, la vivono con i loro interessi, con le loro esperienze di vita, con la loro cultura, idee, opinioni. Mi fa stare tranquilla sapere che sul mio divano siede una persona che legge il giornale o un libro, che si occupa di tenere accesa la stufa perché il freddo che sente è identico a quello che sente chi sta seduto in carrozzina, risponde al telefono e altre semplici normali attività che si fanno in casa nello spazio di compagnia ad una persona disabile che spesso dorme, non parla, ride, guarda, osserva, forse ascolta. Poi ci sono i rari e veloci momenti in cui ci incrociamo e sono spesso le consegne da ambo le parti che occupano questi spazi. Nonostante il breve tempo c’è il piacere di confrontarmi con una persona che mi rimanda alla normalità della vita. Non è mia intenzione fare una classifica di cosa è più importante per mio fratello, non voglio affermare che l’infermiera è più o meno importante dell’assistente domiciliare, o del medico, o di chi mi consegna a domicilio il materiale sanitario ecc. Sono tutte persone professioniste delle quali non potrei fare a meno e delle quali riconosco l'impegno e l'umanità che mi esprimono, ma ciò di cui ho bisogno è di sentirmi in un contesto fatto di normalità. Sono consapevole di essere io bisognosa, io ho necessità di avere risposta alle ansie, alle paure che mi assalgono quando non riesco a vedere oltre alle difficoltà. Non so se la finalità di EmmauS è questa, ma mi piace si sia incrociata con le mie esigenze e con la mia esistenza. Patrizia

12 aprile 2009

La fiammella

Sappiamo che quando la malattia, o la grande vecchiaia, bussano alla porta, la realtà diventa più che mai difficile. Per E., grande anziana, e per A., sua figlia, sono state esperienze dure da accettare sotto tanti aspetti. Questo disagio che da otto anni si era abbattuto sia sul fisico che mentalmente, essendo compromesse molte facoltà, ha disturbato profondamente il carattere forte della malata. E. di ciò ha molto sofferto e ne è sempre stata, suo malgrado, consapevole. Dopo una vita piena di attività e di vicissitudini, ha scoperto di dover dipendere dagli altri e di non essere più in grado di provvedere ai propri bisogni. Avere bisogno e non essere più autonomi, è stato detto, è la più grande paura degli italiani e ciò viene ancor prima della paura della morte. È quindi molto difficile per tutti accettare tali situazioni, poiché si tocca con mano la fragilità dell’esistenza umana. Per E. che, nonostante i troppi limiti, con forza smisurata, cercava quella autonomia che le era negata, è stata una sofferenza che è sempre aumentata nel tempo. Ho notato che in questi casi è molto difficile anche fare assistenza poiché c’è diffidenza da parte della malata che non ascolta, non parla quasi più, si legge soltanto nei suoi occhi ancora vivi la disperazione. Nei primi tempi c’è stata forse la curiosità per una voce nuova, la sensazione di una persona amica (e questo è già gran cosa), ma con la progressione della malattia non si può pretendere che una fiammella possa rischiarare il buio più profondo. Da parte mia ho pensato però che se il recupero era problematico per una persona di tale gravità, era necessario uno spostamento di persona, anche se in questi casi il problema coinvolge talmente il familiare da renderlo tutt’uno con il malato. Sono convinta, anche per esperienza personale, che per una figlia specialmente, la situazione diventi difficile perché l’angoscia della madre è reattiva e colpisce emotivamente provocando infiniti disagi. Quindi da parte mia, pur essendo stata partecipe con A. per il carico che doveva sostenere quotidianamente, ho cercato di distoglierla da questo “chiodo fisso” parlando semplicemente della mia vita quotidiana, lavorativa, estendendo poi il discorso su altre situazioni di attualità. È stato detto che da una sola parola può germogliare il seme della speranza. Il famigliare “crolla”, si chiude in se stesso. A questo modo ho notato progressivamente la gioia nell’accogliermi in ogni momento per cui è nato un rapporto di fiducia reciproca, grande comprensione e stima. In questo mio lavoro di volontariato ho soprattutto capito che ogni situazione di malattia è diversa e perché “la fiammella diventi un grande fuoco” bisogna studiare il modo migliore e far leva, come meglio si può, sul percorso più adeguato da seguire. In questo caso direi di esserci riuscita. Carmela

10 aprile 2009

terzo settore

Il tema toccato da Cristina nel post “Un tozzo di pane secco” è di scottante attualità, ma temo che la visione da lei suggerita sia tanto utopica, quanto inapplicabile. L’argomento, anche se in forme e con sfumature diverse, è già stato trattato in più di un post su questo blog, così come in uno scambio di e-mail al di fuori di questo contesto. Alla base della “diatriba” (se così vogliamo definirla) c’è il rimpianto verso “un diverso stile”, l’invito al ritorno ad un volontariato che si sostiene unicamente sulla vocazione e sulla bontà delle intenzioni, contrapposto alla prospettiva di un volontariato che necessita di organizzarsi sulla base di regole e di gerarchie. Non a caso ho esordito affermando che il tema è di attualità, sia per l’eccesso di delega che lo stato, o meglio la comunità internazionale, attribuisce alle organizzazioni di volontariato, affidando loro compiti che invece gli dovrebbero competere, sia perché dietro a non poche organizzazioni si celano interessi economici e politici di rilievo. Essersi resi conto che una proliferazione incontrollata poteva avere effetti destabilizzanti e lasciare aperti varchi ad approfittatori e lestofanti, ha indotto molti stati, sin dalla seconda metà del secolo scorso, a legiferare in materia di associazionismo. Paletti a mio avviso inutili quanto necessari (non è un ossimoro!). Inutili se riferiti a chi, come Cristina, interpreta il volontariato come “uno stile di vita basato sulla semplicità e sulla sobrietà”, necessari invece se si vuole che l’organizzazione di volontariato persegua le proprie finalità in modo trasparente e professionale. La spinta emotiva e la buona disposizione dei singoli non bastano a giustificare l’esistenza del terzo settore, quando chi vi opera ha la capacità di costruire e gestire ospedali o interi villaggi, organizzare migliaia di volontari, muovere montagne di denaro, fino a proporsi come intermediario nei conflitti internazionali. A volte si eccede nei formalismi, nell’applicazione di norme che sembrano avere una validità di sola facciata, mentre la sostanza sta altrove, ma questa è la burocrazia; con le sue regole, del tutto inutili fino a quando non vengono invocate e fatte entrare in gioco. Anche lo stato italiano ha capito che il giocattolo stava sfuggendogli di mano e nell’ultimo decreto anticrisi ha disposto verifiche a tappeto sull’idoneità delle ONLUS. Il professionista citato da Cristina, che, in incognito, sottopone ad un “esame di carità” l’ignaro parroco non rappresenta il volontariato, così come non lo rappresentano tutti quegli improvvisati samaritani che, sull’onda dell’emotività, scavalcando il barbone sdraiato sul marciapiede sotto casa, si mettono in macchina diretti in Abruzzo con l’intento, lodevole, di portare aiuto, ma raggiungendo l’obiettivo di intralciare il lavoro di chi, forte della sua preparazione e dell'organizzazione che lo rappresenta, quell’aiuto saprebbe veramente assicurare. Concordo che talvolta si eccede nello scimmiottare l’organizzazione delle aziende a natura commerciale (il più delle volte però si tratta solo di mutuare una terminologia e degli strumenti operativi già collaudati senza ingenerare confusione inventandosi nomi nuovi per concetti e prassi operative vecchie), ma questo non va confuso con lo “stile del volontariato”. A qualcuno può infatti stuzzicare l’orgoglio “possedere un titolo” o avere dei “gradini da scalare”, ciò rientra nella natura umana, ma credo che, per i più, questi incarichi siano un fardello accettato con lo stesso spirito di sacrificio di chi mette tutto il proprio impegno esclusivamente “sul campo”. Gianpietro

7 aprile 2009

Un tozzo di pane secco

Per lavoro, ricevo molte telefonate ed è sempre interessante, dal punto di vista antropologico, ascoltare come le persone si presentano. Non è inconsueto che qualcuno si presenti in modo minaccioso, come avvocato o funzionario di polizia, sperando di suscitare un interesse e una collaborazione maggiore, di quella alla quale forse sono abituati, in genere, parlando con un anonimo impiegato della assistenza clienti. Ho conosciuto Cesare, uno stimato professionista, ai ritiri spirituali dei gesuiti ed è una persona simpaticissima, che da anni segue con passione gli esercizi di questi padri. Ha compiuto, recentemente, su istruzione della sua guida spirituale, quello che chiamano “pellegrinaggio in povertà”, con il quale ci si propone di conoscere meglio gli altri, in un rapporto gratuito, nella consapevolezza che ciascuno si presenta meglio per quello che veramente è, quando non ha niente da offrire. Insieme ad un compagno, ha ricevuto l’incarico di fare un pellegrinaggio di trecento chilometri in cinque giorni, senza un centesimo in tasca, chiedendo passaggi e fermandosi a dormire e mangiare nelle parrocchie. L’impegno era che non dovevano dire chi fossero e recitare una formula del tipo “In nome di Cristo Gesù, chiediamo un tozzo di pane e un posto per la notte”. Solo nel caso fossero stati accolti, potevano presentarsi con le loro generalità. E’ stato molto divertente il resoconto che ha fatto sulla diversa accoglienza dei parroci, perché c’è stato anche chi li ha presi alla lettera e ha dato loro un tozzo di pane secco, invece di invitarli a cena alla loro tavola. Anche nelle nostre associazioni, ci sono titoli e gerarchie e spesso mi chiedo se siano davvero necessari e a cosa servano. Si parla spesso di stile diverso del volontariato, ma ancora non vedo tante differenze con l’organizzazione di un’azienda a profitto, e auspico davvero un modo nuovo di vivere queste attività con maggiore semplicità e sobrietà. Cristina

2 aprile 2009

Le parole

Quando ho iniziato a scrivere su questo blog, l’intenzione era di conoscere meglio le persone che fanno parte di EmmauS e di verificare se quella espressione “insieme”, che usiamo così spesso quando parliamo di volontariato, avesse un senso. Non ho trovato quello che cercavo, ma forse ho incontrato la “felice casualità” che ti fa trovare le cose buone, non cercate. Scrivere su questo blog mi ha insegnato a mettere ordine nei miei pensieri e nel mio agire, a sfumare l’aggressività, a cui spesso mi conduce un carattere impulsivo, a tenere memoria di un percorso interiore, che spesso non procede lineare, ma è invisibile e a volte sconosciuto anche a noi stessi. E poi gli amici. A parte Gianpietro, che cura questo blog, e mi ha sostenuto e incoraggiato, non ho fatto altre amicizie, all’interno della associazione: anzi, alcune, che avevo, le ho perse per strada, perché quando mi incontrano o deviano o cambiano discorso, se si parla del blog, perché ho capito che per loro questo non è ancora uno strumento con il quale hanno familiarità.
Adesso partecipo anche ad altri network come anobii, facebook o picasa. Gli amici con cui adesso mi incontro sul web, hanno nomi come Balenaazzurra, Giakot, Walden o Conchiglia.. Non so quasi nulla di loro, tranne le discussioni sui libri che amiamo, le riflessioni che condividiamo, i pensieri che abbiamo. Dedico, a questo tipo di comunicazione, un’ora ogni mattina, prima di andare al lavoro. E’ un’ora sottratta al sonno, alla colazione, alla preparazione mattutina. Un amico mi ha detto che faccio cose stupide: che questa, virtuale, è un tipo basso di comunicazione, perché non impegna, a fondo, come quella vera in cui ci si guarda negli occhi. Io non penso che questa comunicazione possa essere un’alternativa all’altra o tanto meno possa essere confrontata. Preferisco pensare a quello che le unisce: "le parole" che, come dice Natalia Ginzburg “quando sono adoperate per raccontare senza menzogna ciò che abbiamo visto, sofferto, vissuto, le parole quando salgono dal profondo del nostro animo, insegnano sempre qualcosa, accendono dinanzi agli occhi del prossimo una zona di realtà." Cristina

1 aprile 2009

Meditazioni di bioetica

Ho iniziato ieri sera un percorso di formazione dal titolo “Meditazioni di bioetica”, sottotitolo “Per una bioetica non gridata”. Il tema di discussione della prima lezione ha preso spunto dal caso di Eluana Englaro, e la sfida che ha posto il docente Paolo Dordoni, professore di filosofia teoretica, è di vedere se sia possibile arrivare ad un accordo sui temi etici, tra individui che hanno esperienze e modi di pensare diversi. Su questo caso, dice, non è stata possibile una vera discussione, perché nessuno di noi è riuscito a mettere insieme la ragione, la scienza (la testa) con la coscienza, il sentimento (la pancia). Il dialogo non è mai cominciato perché nessuna delle parti è riuscita a comprendere le ragioni dell’altra, così si è finito per lasciare ad altri la decisione, in questo caso alla politica, che però non possiede un suo modo di ragionare, perché il politico fa soltanto un’operazione di marketing: fa un discorso rivolto ad ottenere consenso, che non deriva da un ragionamento. Qual è allora il percorso che dobbiamo fare per sviluppare una decisione e non lasciare che invece decidano gli altri, come di fatto succede ogni giorno? Ci ha invitato a percorrere questo caso in tre tappe, che ha chiamato: "il percorso del diritto", "una frattura" e "dentro al dilemma". La parte giuridica ha occupato molto tempo, perché le sentenze sono state diverse: dalla prima, con esito negativo, fino all’ultima, che è di trentatre pagine. Sono tutte sentenze molto interessanti, attraverso le quali il docente ci ha mostrato il modo di ragionare del diritto: le paure, i dubbi, le incertezze, le ipotesi. Si è verificata una frattura, perché il nostro modo di pensare, quando l’altro non è d’accordo con noi, è che sia malato, abbia un problema, o sia in malafede e le sue ragioni siano ideologiche. Al punto indicato come “dentro il dilemma”, ci ha interpellato e chiesto di dire se pensiamo che il tutore, da una parte, e i curanti, dall'altra, possano avere avuto, oltre ai problemi, anche delle buone ragioni, perché la discussione incomincia solo quando riusciamo a vedere anche le buone ragioni dell’altro. Arrivati a questo punto, però, ci ha mostrato che c’è il rischio di parlare solo delle motivazioni che supportano l’una o l’altra tesi e di rimanere dentro il dilemma. Una discussione vera ci porta a lasciarci interrogare dalla vita dell’altro e uscire dalla discussione diversi da come ci eravamo entrati. Non è una discussione vera, quella in cui ognuno espone la sua opinione, poi se ne torna a casa e rimane della sua idea, irrigidendosi nella posizione di partenza. Una vera discussione, invece, ci porta al cambiamento e, finalmente, ad agire secondo “scienza e coscienza”. Cristina

31 marzo 2009

Il corso quotidiano dell'esistenza

In Ritratto di un amico”, che fa parte di una raccolta di saggi che si intitola “Le piccole virtù”, Natalia Ginzburg parla della tragica morte di Cesare Pavese. “Noi stessi suoi amici, lui ci diceva, non avevamo più segreti per lui e lo annoiavamo infinitamente; e noi, mortificati d’annoiarlo, non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava: nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell’esistenza, che procede uniforme, e apparentemente senza segreti”. La coordinatrice dei volontari dell’hospice mi telefona, chiedendomi di passare a prendere alcuni quotidiani per un anziano degente della casa. Quando entro nella stanza, per consegnare i giornali, trovo il malato seduto a letto che fuma. E’ un uomo molto bello: con un grande naso aquilino e una folta criniera di capelli brizzolati che gli cadono un po’ sulla fronte. Mentre riordino la stanza, mi dice che la conversazione con i volontari è per lui la migliore delle medicine. Mi parla della sua vita di tutti i giorni, che lui dice felice, perché ha l'essenziale: l’amore e la solidarietà. Dice che vive da solo, essendo vedovo da molti anni, e dalla figlia, genero e nipoti, che ama tutti teneramente, va solo la domenica, perché è giusto che i giovani vivano la loro vita. La mattina si alza e fa colazione, poi parte per una lunga passeggiata di molti chilometri: gli piace molto camminare, perché lo ritempra nel fisico e nello spirito. Tornando a casa, passa dall’edicola a prendere i giornali, che legge in poltrona dopo il pranzo. Spesso, finisce con l’assopirsi, cullato da una nenia, che la signora del piano di sopra canta, allattando il bambino che ha avuto da pochi giorni. A metà pomeriggio, scende per curare l’orto, dove coltiva ortaggi e frutta per tutti i condomini, aiutato spesso dai bambini del vicinato, ai quali è molto affezionato, al punto che loro lo chiamano nonno. Penso a queste due vite, apparentemente così diverse: quella dello scrittore suicida e quella di questo uomo che sta morendo di cancro. Io non credo però che la vita dell’uno sia sempre stata piena di noia e la vita dell’altro sempre felice. Penso piuttosto che questi due sentimenti così contrastanti, la noia e la gioia di vivere, si alternino costantemente, nell’esistenza di ognuno: ci sono momenti, più o meno lunghi, in cui anche la vita più interessante ci viene a noia, e ci sono momenti in cui amiamo la semplicità della nostra vita ordinaria, e siamo felici per il solo fatto di esistere. Cristina

il post è inserito nel circuito del "book-club" avendo come riferimento il saggio di Naatalia Ginzburg "Ritratto di un amico". Nella colonna di sinistra del blog alla voce "links utili" ho impostato il collegamento alla versione del brano (in formato .pdf) che potete, sia leggere direttamente sul vostro PC, che stampare.

29 marzo 2009

Conflitto interiore

Sto leggendo in questi giorni "Le quattro casalinghe di Tokyo" di Natsuo Kirino. Probabilmente, non avrei nemmeno saputo di questo libro, se non fosse stato scelto, come libro del mese, da un gruppo di lettura web, al quale ho aderito recentemente. Il pregio di questo libro è quello di portare il lettore là, nei luoghi dove la scrittrice ha collocato la sua storia e di fargli vivere le emozioni dei personaggi. A me ha ricordato il conflitto di sentimenti che una volontaria ci raccontava aver vissuto nella sua famiglia, fin dall'infanzia, con una madre inferma, che soffriva anche di depressione. Le protagoniste di questo romanzo sono operaie in una fabbrica di confezionamento del cibo e fanno un lavoro notturno, durissimo, ma ben pagato. Alla fine del loro turno di lavoro, tornano a casa dove le aspettano mariti violenti, figlie capricciose ed egocentriche, suocere inferme da curare, nel totale disinteresse del resto della famiglia. Non sono solita chiosare i libri, nemmeno quando sono miei, ma in questo non ho potuto fare a meno di scrivere a margine giudizi, commenti ed epiteti riferiti ai personaggi negativi. Mi ha totalmente catturato la vicenda di Yoshie, la più anziana delle quattro, la più forte e abile sul lavoro, al punto che le altre la chiamano, un po' ironicamente, "maestra". Yoshie è vedova e vive con la figlia Michi adolescente e la suocera, che da alcuni anni non si alza dal letto, per le conseguenze di una paralisi. "Yoshie aveva dimenticato il modo odioso in cui l'aveva trattata nei primi tempi del suo matrimonio. Ora era soltanto una povera vecchia indifesa che non sarebbe riuscita a sopravvivere senza il suo aiuto. Senza di me non ce la farebbe. Questo pensiero era una ragione di vita per Yoshie (...) Non voleva riconoscere che nessuno era disposto ad aiutare lei, non avrebbe potuto sopportarlo (...) in tal modo aveva finito col fare della fatica la regola suprema della propria vita". La suocera, nei primi tempi della sua malattia, era diventata mansueta e gentile, per necessità, poi però era tornato a prevalere il suo vero carattere dispostico ed egocentrico ed aveva ripreso a maltrattare la nuora e ad essere sempre più esigente e ad accusarla di fare apposta a ripondere così lentamente alle sue richieste. "Ti sbagli", rispose Yoshie provando per un attimo la tentazione di ucciderla. Che si pigliasse pure il raffreddore. Che bello sarebbe stato se si fosse presa una polmonite e fosse morta. Ma come al solito Yoshie la zelante soffocò subito i propri sentimenti. Che orrore! Augurare la morte a uno che ha bisogno di aiuto". Cristina

26 marzo 2009

Un bisogno insopprimibile di debolezza

Negli ultimi tempi ho riletto l’opera e la vita di Natalia Ginzburg, una delle mie scrittrici preferite. Ho trovato molto interessante e attuale quello che dice della sua esperienza politica. Nel 1983 venne eletta in Parlamento, dove rimase per due legislature, ma come era prevedibile, per chi la conosceva bene, fu una delusione. Nella biografia di Maja Pflug, si dice che quello che lei auspicava era “un governo aereo, leggero, inconsistente e invisibile, un governo debole”. Ma in realtà nella vita pubblica “c’è rumore, sopraffazioni … menzogne di ogni specie” e, per la debolezza, per “un governo senza armi, fondato unicamente su alcuni beni che sono cari allo spirito, come la giustizia, la verità, la libertà” non c’è posto nella politica rumorosa e sanguinaria … “e noi abbiamo invece un bisogno insopprimibile di debolezza. Ho avuto il privilegio di conoscere, per aver frequentato le sue conferenze, una persona che ha fatto invece della sua debolezza un punto di forza, essendo impegnato nella cooperazione internazionale, ma con gravi problemi di deambulazione fin dalla nascita. In una missione in Israele, fu costretto a seguire gli altri su una sedia a rotelle, perché camminando con il bastone avrebbe rallentato la visita e fatto aspettare i suoi accompagnatori: ebbene, disse che ebbe forte la percezione che proprio da questa posizione di svantaggio, le sue parole venissero ascoltate con più attenzione. Anche la nostra attività di volontariato racchiude in sé l’atteggiamento politico, perché non può che rapportarsi e dialogare con le istituzioni, e la missione dell’incontro con la debolezza dell’altro. Per questo, dovremmo sempre tenere in mente anche le parole di Padre Christian Chessel, della chiesa di Algeria, che diceva che “accettare la nostra impotenza e la nostra povertà radicale è un invito, un forte appello a creare con gli altri dei rapporti di non-potenza; riconoscendo la mia debolezza, riesco ad accettare quella degli altri e a considerarla come un appello a 'portarla', a farla mia. Un tale atteggiamento ci trasforma e ci invita a rinunciare ad ogni pretesa nell’incontro con l’altro e ad andare a lui senza paura delle sue debolezze fisiche, morali o spirituali. Il mio sguardo sull’altro cambia e non cerco di imporgli niente. Quest’atteggiamento c’invita a non temere l’incontro con l’altro o con un avvenimento, anche 'forte', ma ad andare a lui nella forza della debolezza.” Cristina

24 marzo 2009

Chiamati al servizio

Penso sia soprattutto per l’età che avanza, ma da un po’ di tempo sento molto la curiosità di conoscere e capire il mondo dei giovani e in particolare le motivazioni e il percorso interiore di quelli che entrano adesso nel mondo del volontariato. Ieri sera, ho assistito per caso ad una parte di un percorso formativo dedicato ai giovani dai 25 ai 35 anni, organizzato dalle associazioni di volontariato Effatà e Rabbunì. I partecipanti erano tanti e mi è piaciuto vedere tanti giovani tutti insieme: ne conoscevo qualcuno e ho fatto domande. Mi è sembrato di capire che, almeno per alcuni, il servizio fosse il punto di arrivo di un percorso interiore anche non facile e un po’ tormentato. E’ stato molto interessante anche l’incontro a cui ho assistito: il tema era “Chiamati al servizio”. L’ispirazione era chiaramente evangelica e faceva riferimento alla chiamata, come grazia che Dio opera nel cuore nell’uomo, per cui la figura del ‘servo’ non si collega all’agire, al fare, ma all’essere di una persona: è l’atteggiamento di chi si lascia aprire il cuore da Dio, plasmare e conformare, per cui il servizio non diventa un’iniziativa dell’uomo, ma la conseguenza di un atteggiamento di fede e di obbedienza. E questa considerazione rende inevitabilmente sbagliata ogni scelta del servizio per altri motivi, come auto gloriarsi o emergere sugli altri o per interesse personale. Io non penso si possa fare una distinzione tra i volontari credenti e laici: per tutti, la scelta del volontariato è parte di un percorso interiore profondo, ma credo che a tutti noi sia sempre richiesta una grande vigilanza sulle nostre motivazioni, perché il rischio di fare del volontariato un trampolino di lancio per una propria affermazione personale esiste sempre. Cristina

21 marzo 2009

Il nostro pensiero

Le nostre relazioni con gli ammalati che seguiamo sono talvolta rese un po' difficili dalla ricerca di un equilibrio tra la sincerità del rapporto, che vorremmo instaurare con loro, e la prudenza che viene richiesta in situazioni familiari complesse, con le quali non desideriamo interferire. Anche nelle nostre associazioni, non vorremmo mai essere quelli che portano problemi e così spesso preferiamo tacere anche quando ci troviamo in una situazione di disagio. In una raccolta di saggi che si intitola "Vita immaginaria" Natalia Ginzburg scrive: "... in questa nostra vita italiana, tutti passiamo il tempo a farci dei sorrisi, dei convenevoli, e non diciamo mai il nostro pensiero". Nel corso di una riunione straordinaria, per la presentazione di un nuovo dirigente, nell'azienda in cui lavoro, il presidente incominciò ad elogiarne le grandi qualità, contrapponendole alla scarsa opinione che, a suo dire, aveva suscitato il predecessore. Il dirigente che se ne era andato era una persona che io stimavo molto e di fronte a questa diffamazione molto ingiusta mi mostrai indignata che si parlasse di lui in questo modo. Allora, il presidente, sorridendo, mi disse che se le cose stavano così, doveva ammettere che eravamo in due a stimare il dirigente uscente, perché anche lui ne conosceva il valore. Rimasi sconcertata per come si potessero esprimere due opinioni così diverse, nel corso dello stesso intervento. Questo tema della sincerità e della capacità di sapere esprimere sempre il nostro pensiero, mi sta molto a cuore, perché sono consapevole che spesso è davvero difficile; mi piacerebbe che affrontassimo una discussione su questo argomento per conoscere anche la vostra esperienza. Cristina

20 febbraio 2009

anniversario

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.15 anni insieme!

18 febbraio 2009

costruire il presente

Leggendo “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery ho trovato questa riflessione (pagg. 123, 124) che uno dei personaggi principali, una bambina di 12 anni, fa rientrando dalla visita alla nonna da poco trasferita in una casa di riposo.
“…
Non bisogna dimenticare i vecchi con i corpi putrefatti, i vecchi vicinissimi a quella morte a cui i giovani non vogliono pensare (e così affidano alla casa di riposo il compito di accompagnare i genitori alla morte per evitare scenate o seccature), la gioia inesistente di quelle ultime ore che bisognerebbe gustare fino in fondo, e che invece subisci rimuginando nella noia e nell’amarezza. Non bisogna dimenticare che il corpo deperisce, che gli amici muoiono, che tutti ti dimenticano e che la fine è solitudine. E neppure bisogna dimenticare che quei vecchi sono stati giovani, che il tempo di una vita è irrisorio, che un giorno hai vent’anni e il giorno dopo ottanta. Colombe
(personaggio del libro) crede che è possibile “affrettarsi a dimenticare” perché la prospettiva della vecchiaia per lei è ancora lontanissima, come se la cosa non la riguardasse. Io ho capito molto presto che la vita passa in un baleno guardando gli adulti attorno a me, sempre in fretta, stressati dalle scadenze, così avidi dell’oggi per non pensare al domani … In realtà temiamo il domani solo perché non sappiamo costruire il presente, e quando non sappiamo costruire il presente ci illudiamo che saremo capaci di farlo domani, e rimaniamo fregati perché domani finisce sempre per diventare oggi, non so se ho reso l’idea. Quindi non bisogna affatto dimenticare. Occorre vivere con la certezza che invecchieremo e che non sarà né bello né piacevole né allegro. E ripetersi che ciò che conta è adesso: costruire, ora, qualcosa, a ogni costo, con tutte le nostre forze. Avere sempre in testa la casa di riposo per superarsi continuamente e rendere ogni giorno imperituro. Scalare passo dopo passo il proprio Everest personale, e farlo in modo tale che ogni passo sia un pezzetto di eternità. Ecco a cosa serve il futuro: a costruire il presente con veri progetti di vita.
…”

Riflessioni semplici, alla portata di molti adolescenti, ma che, forse, nemmeno noi adulti ci soffermiamo a fare. Non credo sia necessario avere un parente ricoverato per condurre il proprio figlio a visitare una casa di riposo. Gianpietro

9 febbraio 2009

Per chi suona la campana?



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Nessun uomo è un'isola,

completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.

Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
l'Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.

La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell'umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
suona per te.

(John Donne - Meditation XVII)


Oggi è morta una ragazza che era in coma da diciassette anni. La vicenda ha fatto molto discutere l’opinione pubblica, perché il padre aveva chiesto al tribunale di poter sospendere la somministrazione dei farmaci e dei liquidi, che tenevano in vita la figlia. Ho fatto molta fatica a capire il delirio e l’esaltazione collettiva che ha preso così tante persone, per una vicenda che, negli ospedali, si ripete ogni giorno, quando per una persona non ci sono più speranze di una ripresa di coscienza. Ho pensato che, forse, questo famoso sermone di Donne possa spiegare questo meccanismo di identificazione, di rifiuto della morte, ma forse anche di affetto, per una persona che non si conosceva. Le emozioni che, invece, questa vicenda mi ha suscitato, sono state espresse in modo efficace, in una poesia di Guido Ceronetti, che si intitola “La ballata dell’angelo ferito”. Cristina