17 aprile 2009

Emergenza caldo

Il Centro di ascolto “Emergenza caldo” è un servizio esclusivamente telefonico, attivo nei tre mesi estivi. È un servizio gestito in collaborazione tra Comune di RE, Servizio Sanitario Regionale, AUSER, EmmauS, Croce Verde e Croce Rossa. Lo scopo è di aiutare le persone che rimangono in città durante l’estate e che possono avere bisogno di assistenza sociale, o sanitaria, o “psicologica”. Possono telefonare direttamente le persone che hanno bisogno, ma chiunque può segnalare situazioni di persone, per lo più anziane, che potrebbero vivere situazioni di disagio. Alcuni medici di famiglia ci forniscono un elenco di pazienti soli e in situazioni precarie ai quali telefoniamo direttamente noi. Questa, quindi, non è un’esperienza di “assistenza domiciliare”, ma è pur sempre un’esperienza di rapporto interpersonale con persone in stato di bisogno. Qui l’interazione è esclusivamente verbale. Quel poco che puoi fare viene immediatamente riconosciuto dall’altro e ciò è indubbiamente gratificante. Converso molto volentieri con le persone, cerco di comprendere la loro situazione, mi sforzo di “mettermi nei loro panni” e non ho mai fretta di chiudere la conversazione. Naturalmente, mi sento più a mio agio quando sono le persone che telefonano al Centro d’ascolto, anziché quando sono io che chiamo loro. Ma è solo uno stato d’animo iniziale, poi il rapporto si fa fluido e sereno. L’utilità del servizio è abbastanza tangibile. Spesso, oltre e dopo la conversazione, avrei voglia di recarmi direttamente dalle persone con cui ho parlato, per conoscerle di persona, per constatare la loro situazione, anche logistica. Ma questo non è previsto. Il nostro compito, finita la conversazione telefonica, è di attivare i servizi richiesti e ritenuti necessari e possibili (trasporto, consegna pasti, medicinali, spesa a domicilio …). Spesso alla conversazione telefonica non fa seguito uno specifico servizio, in quanto il dialogo costituisce ed esaurisce il significato della telefonata. Questo servizio è particolarmente sentito nel periodo estivo, sia per i disagi che creano le alte temperature, sia perché andando in ferie fuori città i famigliari, molti anziani restano soli. Per la mia esperienza, considerando il bisogno di un rapporto, comunque presente in molte persone sole, questo servizio, anche se di comunicazione solo telefonica, potrebbe essere svolto anche nei restanti mesi dell’anno. Si tratta di un servizio che richiede soprattutto una grande capacità di ascolto. Le persone hanno bisogno di parlare e non solo della loro situazione presente. Il riferimento al passato, il raccontare la loro vita, il mettere in evidenza la continuità o la discontinuità di certi filoni esistenziali, per gli utenti di questo servizio, è assolutamente un bisogno. E si comprende, in questo contesto, che il tuo compito è di saper ascoltare, di comprendere e di dimostrare di avere capito e condiviso. Pino

16 aprile 2009

Nulla è impossibile

Mi chiamo Grazia, sono a Reggio Emilia per periodi sempre più lunghi da circa due anni. Risiedo ancora a Matera, ma qui a Reggio e nei dintorni di Parma vivono i miei quattro figli da diversi anni. Esigenze familiari hanno reso necessaria la mia presenza qui, pertanto, fin dall’inizio, ho avvertito il bisogno di rendermi utile nel tempo liberato dagli impegni familiari. Frequentando la parrocchia e soffermandomi a leggere i vari avvisi nelle bacheche della chiesa, ho trovato un invito ad operare nel volontariato domiciliare, dopo avere frequentato un corso di formazione gestito dall’Associazione EmmauS, che mi avrebbe consentito di dare una mano a chi è solo o in difficoltà in modo più corretto e adeguato. Sentivo che questa era la mia vocazione, in quanto, autonomamente, da quando ero in pensione, mi prendevo cura, nel quartiere dove abitavo, di una signora anziana, in difficoltà e sola. L’esperienza del corso di formazione, così ben strutturato e organizzato, è stata un’occasione preziosa di crescita personale, mediante l’acquisizione di strumenti indispensabili nello svolgimento di questo delicato servizio. Ho avuto modo di frequentare il corso con la carissima A. che avevo avuto modo di conoscere, grazie a mia figlia, durante una cena comunitaria nel mio quartiere. In quell’occasione mi aveva colpito la sua solarità e disponibilità che poi, durante il corso, ho potuto apprezzare in modo ancor più tangibile. Nel gennaio 2007 la famiglia, con la nascita della prima nipotina, mi impegnava sempre di più, riducendo il tempo a mia disposizione. A ciò si aggiungeva la mia difficoltà a muovermi su Reggio, essendo senza macchina e temevo pertanto di non essere più in grado di svolgere questo servizio. Ma A., a cui “nulla è impossibile”, mi diceva: “non ti preoccupare, troveremo un servizio adatto a te!” E questo è arrivato. Una mattina mi ha accompagnata a casa di una signora, poco distante dalla mia abitazione, per farmela conoscere e iniziare con lei un rapporto di ascolto e di fiducia. E’ iniziata così la mia prima esperienza in EmmauS. La signora da cui vado ha subito manifestato di gradire la mia compagnia, ma mi ha anche precisato di non avere bisogno di una presenza settimanale costante, ma di sentirci e vederci ogni tanto e di avvisarla telefonicamente prima di andarla a trovare, poiché non sempre è in casa e la mattina rimane a letto fino a tardi. Per me tutto ciò andava bene, stavo vivendo un momento particolare per problemi familiari e queste condizioni non mi avrebbero creato ansia. All’inizio sono andata a trovarla a casa, lei si apriva con me, come anch’io mi aprivo con lei. Prima di lasciarci lei voleva pregare con me per tutte le necessità dei figli e per la sua salute. Dopo qualche mese, un figlio che aveva perso il lavoro, si era trasferito a casa sua e quindi preferiva che io non andassi, così abbiamo incominciato a comunicare per telefono attraverso il quale mi confidava le sue preoccupazioni. Io la incoraggiavo e lei era molto contenta di sentirmi vicina. Poi il figlio ha trovato il lavoro e lei ha riacquistato la sua autonomia e ciò la rendeva più serena. Ci sentiamo sempre, ma telefonicamente. È una sua scelta. Qualche volta ci siamo incontrate per la strada o in chiesa. È sempre lei che mi riconosce e mi viene vicino. Credo di essere una volontaria un po’ anomala. È poco quello che faccio, ma lo faccio con il cuore e nel rispetto delle esigenze e dei bisogni della persona che mi è stata affidata. Ringrazio tutti voi per l’opportunità che mi è stata offerta e, in particolare, A., la mia referente, “una persona speciale” che mi ha sempre sostenuta in questo servizio. Grazia

15 aprile 2009

Piccole enciclopedie

Mi chiamo Giusi e faccio parte di EmmauS da 12 anni come volontaria, anche se non sempre in servizio attivo, per motivi familiari, o perché le persone che andavo a visitare ci hanno lasciati. Ricordo con piacere il mio primo corso di formazione EmmauS. Fu una mia amica, già volontaria, a consigliarmi la frequenza. Il corso è stato di grande utilità, mi ha preparata ad entrare nella vita “dell’altro” in punta di piedi. Partecipare al corso e ad altri incontri mi hanno dato una grande opportunità di crescita. I vari temi trattati, più che interessanti, mi sono serviti per capire come comportarmi, sentirmi utile e sapere reagire davanti ai bisogni sia della mia famiglia, sia del mio servizio EmmauS con un adeguato coinvolgimento. E soprattutto sapere ascoltare. Appartenere ad una associazione come EmmauS per me è gratificante, perché so di non essere sola e che, per qualsiasi necessità o consiglio posso rivolgermi alla mia referente, una figura di grande prestigio per l’Associazione. Con l’occasione voglio esprimere la mia gratitudine alla mia attuale referente, una persona “speciale” per tutto quello che fa e per il modo gentile e professionale di tenere unito il nostro gruppo. Tutto ciò mi dà serenità e sicurezza nello svolgimento del mio servizio. Durante questi anni di volontariato ho avuto modo di stare accanto a delle persone giovani e meno giovani. Conoscerli è stata una esperienza stimolante. Le loro storie di vita, per alcuni anche lunga, sono state per me un privilegio; capire il loro modo di adattarsi alle varie situazioni che si presentavano, spesso non facili, senza mai arrendersi, con dignità, rispetto, tolleranza e tanta voglia di aiutarsi l’uno con l’altro. Ascoltarli è stato per me un arricchimento, mi ha insegnato ad approfondire ed a condividere le emozioni. Credo che ogni persona è una “piccola enciclopedia” e quando qualcuno di loro ci lascia, in me rimane un perenne ricordo di gratitudine per ciò che ho ricevuto. Giusi

14 aprile 2009

Passeggiata in carrozzella

Sono una volontaria di EmmauS da molti anni. Sono casalinga da sempre, mamma di tre figli adulti ed ho due nipoti già grandi. Ho avuto i miei genitori ammalati a lungo prima di iniziare col volontariato. Sono stati anni difficili e duri perché entrambi hanno patito sofferenze fisiche, ma soprattutto mentali. Quando loro sono mancati ho saputo del volontariato EmmauS e, dopo il corso, ho scelto di dare questo piccolo aiuto agli anziani perché, anche se limitato come tempo, a mio parere aiuta un po’ anche i parenti. Ho sostenuto il colloquio finale del corso base nel marzo del 1995. Sono stata messa in contatto con una famiglia con due anziani, marito e moglie, ammalati. Dopo una certa diffidenza iniziale del marito mi sono trovata sempre molto bene, forse anche perché un po’ di tirocinio l’avevo fatto con i miei genitori. Il resto della famiglia mi ha accolta con molto calore e comprensione. Poi, prima il marito poi la moglie, sono mancati, ma ancora oggi mi sento con i loro familiari e se ci si incontra per caso ci troviamo a dire le stesse cose. Abbiamo dei buoni ricordi malgrado la situazione di sofferenza dei loro cari. Il marito, in particolare, che, pur non potendo camminare e comunicare bene, anche per il carattere un po’ chiuso, mi ha dato la soddisfazione di lasciarsi accompagnare a fare piccole passeggiate in carrozzella, cosa che non voleva fare da tempo. Ho frequentato questa famiglia per circa quattro anni. Il secondo incarico che mi è stato dato era in casa di una coppia di coniugi non molto anziani. La moglie stava abbastanza bene, il marito invece era completamente paralizzato, per cui la moglie, che lo accudiva con tanta dedizione e tanto dolore, era molto provata. Anche in questo caso sono stata accolta molto bene anche dai figli che venivano a trovarli. Facevo loro un po’ di compagnia e qualche piccolo aiuto saltuario. Poi il marito è mancato, ma, quando posso, vado ancora a trovare la moglie. Poi la mia famiglia ha avuto bisogno di me e ho dato la mia disponibilità a EmmauS per piccoli servizi saltuari per anziani che ne avessero bisogno. Da quasi tre anni ho un incontro settimanale con una signora con problemi di salute, ma molto lucida. Una volta alla settimana andiamo a fare la spesa e ci facciamo un po’ di compagnia. Direi che come volontaria EmmauS sono stata sempre fortunata e i problemi che ho avuto sono sempre stati piccoli e risolvibili con un po’ di pazienza. Auguro a tutti i volontari presenti e futuri di avere esperienze positive come ho avuto io. Buon lavoro a tutti. Mirella

13 aprile 2009

Il cerchio intorno

Questa è una cura, oltre alle pasticche, che mi aveva assegnato Loredana, amica e medico. Ho estrapolato dal componimento una riflessione che mi è tornata alla mente leggendo il post di Carmela. “Scrivi Patti cosa è per te vivere accanto ad un disabile totalmente dipendente come lo è tuo fratello”. Salto la storia perché non è in questo contesto che voglio leggere la mia vita e la sua. Il punto di partenza mi viene offerto da una riflessione sulle persone che frequentano casa. Sono tante; tutte rispondono ad una efficiente organizzazione che mi permette di lavorare, di seguire le figlie, di vivere un pezzetto di vita privata a volte tanto intenso da essere paragonabile ad una grossa fetta, a volte così esiguo e pesante. I volontari di EmmauS sono persone che ruotano a seconda delle giornate e mi sostituiscono quando sono al lavoro, e non solo, occupano uno spazio di tempo e un luogo dove esprimono la normalità semplicemente con il loro esserci. A volte chiedo loro di svolgere sul famigliare alcune manovre con la possibilità del rifiuto se tale impegno comporta disagio, altrimenti occupano questa casa, la vivono con i loro interessi, con le loro esperienze di vita, con la loro cultura, idee, opinioni. Mi fa stare tranquilla sapere che sul mio divano siede una persona che legge il giornale o un libro, che si occupa di tenere accesa la stufa perché il freddo che sente è identico a quello che sente chi sta seduto in carrozzina, risponde al telefono e altre semplici normali attività che si fanno in casa nello spazio di compagnia ad una persona disabile che spesso dorme, non parla, ride, guarda, osserva, forse ascolta. Poi ci sono i rari e veloci momenti in cui ci incrociamo e sono spesso le consegne da ambo le parti che occupano questi spazi. Nonostante il breve tempo c’è il piacere di confrontarmi con una persona che mi rimanda alla normalità della vita. Non è mia intenzione fare una classifica di cosa è più importante per mio fratello, non voglio affermare che l’infermiera è più o meno importante dell’assistente domiciliare, o del medico, o di chi mi consegna a domicilio il materiale sanitario ecc. Sono tutte persone professioniste delle quali non potrei fare a meno e delle quali riconosco l'impegno e l'umanità che mi esprimono, ma ciò di cui ho bisogno è di sentirmi in un contesto fatto di normalità. Sono consapevole di essere io bisognosa, io ho necessità di avere risposta alle ansie, alle paure che mi assalgono quando non riesco a vedere oltre alle difficoltà. Non so se la finalità di EmmauS è questa, ma mi piace si sia incrociata con le mie esigenze e con la mia esistenza. Patrizia

12 aprile 2009

La fiammella

Sappiamo che quando la malattia, o la grande vecchiaia, bussano alla porta, la realtà diventa più che mai difficile. Per E., grande anziana, e per A., sua figlia, sono state esperienze dure da accettare sotto tanti aspetti. Questo disagio che da otto anni si era abbattuto sia sul fisico che mentalmente, essendo compromesse molte facoltà, ha disturbato profondamente il carattere forte della malata. E. di ciò ha molto sofferto e ne è sempre stata, suo malgrado, consapevole. Dopo una vita piena di attività e di vicissitudini, ha scoperto di dover dipendere dagli altri e di non essere più in grado di provvedere ai propri bisogni. Avere bisogno e non essere più autonomi, è stato detto, è la più grande paura degli italiani e ciò viene ancor prima della paura della morte. È quindi molto difficile per tutti accettare tali situazioni, poiché si tocca con mano la fragilità dell’esistenza umana. Per E. che, nonostante i troppi limiti, con forza smisurata, cercava quella autonomia che le era negata, è stata una sofferenza che è sempre aumentata nel tempo. Ho notato che in questi casi è molto difficile anche fare assistenza poiché c’è diffidenza da parte della malata che non ascolta, non parla quasi più, si legge soltanto nei suoi occhi ancora vivi la disperazione. Nei primi tempi c’è stata forse la curiosità per una voce nuova, la sensazione di una persona amica (e questo è già gran cosa), ma con la progressione della malattia non si può pretendere che una fiammella possa rischiarare il buio più profondo. Da parte mia ho pensato però che se il recupero era problematico per una persona di tale gravità, era necessario uno spostamento di persona, anche se in questi casi il problema coinvolge talmente il familiare da renderlo tutt’uno con il malato. Sono convinta, anche per esperienza personale, che per una figlia specialmente, la situazione diventi difficile perché l’angoscia della madre è reattiva e colpisce emotivamente provocando infiniti disagi. Quindi da parte mia, pur essendo stata partecipe con A. per il carico che doveva sostenere quotidianamente, ho cercato di distoglierla da questo “chiodo fisso” parlando semplicemente della mia vita quotidiana, lavorativa, estendendo poi il discorso su altre situazioni di attualità. È stato detto che da una sola parola può germogliare il seme della speranza. Il famigliare “crolla”, si chiude in se stesso. A questo modo ho notato progressivamente la gioia nell’accogliermi in ogni momento per cui è nato un rapporto di fiducia reciproca, grande comprensione e stima. In questo mio lavoro di volontariato ho soprattutto capito che ogni situazione di malattia è diversa e perché “la fiammella diventi un grande fuoco” bisogna studiare il modo migliore e far leva, come meglio si può, sul percorso più adeguato da seguire. In questo caso direi di esserci riuscita. Carmela

10 aprile 2009

terzo settore

Il tema toccato da Cristina nel post “Un tozzo di pane secco” è di scottante attualità, ma temo che la visione da lei suggerita sia tanto utopica, quanto inapplicabile. L’argomento, anche se in forme e con sfumature diverse, è già stato trattato in più di un post su questo blog, così come in uno scambio di e-mail al di fuori di questo contesto. Alla base della “diatriba” (se così vogliamo definirla) c’è il rimpianto verso “un diverso stile”, l’invito al ritorno ad un volontariato che si sostiene unicamente sulla vocazione e sulla bontà delle intenzioni, contrapposto alla prospettiva di un volontariato che necessita di organizzarsi sulla base di regole e di gerarchie. Non a caso ho esordito affermando che il tema è di attualità, sia per l’eccesso di delega che lo stato, o meglio la comunità internazionale, attribuisce alle organizzazioni di volontariato, affidando loro compiti che invece gli dovrebbero competere, sia perché dietro a non poche organizzazioni si celano interessi economici e politici di rilievo. Essersi resi conto che una proliferazione incontrollata poteva avere effetti destabilizzanti e lasciare aperti varchi ad approfittatori e lestofanti, ha indotto molti stati, sin dalla seconda metà del secolo scorso, a legiferare in materia di associazionismo. Paletti a mio avviso inutili quanto necessari (non è un ossimoro!). Inutili se riferiti a chi, come Cristina, interpreta il volontariato come “uno stile di vita basato sulla semplicità e sulla sobrietà”, necessari invece se si vuole che l’organizzazione di volontariato persegua le proprie finalità in modo trasparente e professionale. La spinta emotiva e la buona disposizione dei singoli non bastano a giustificare l’esistenza del terzo settore, quando chi vi opera ha la capacità di costruire e gestire ospedali o interi villaggi, organizzare migliaia di volontari, muovere montagne di denaro, fino a proporsi come intermediario nei conflitti internazionali. A volte si eccede nei formalismi, nell’applicazione di norme che sembrano avere una validità di sola facciata, mentre la sostanza sta altrove, ma questa è la burocrazia; con le sue regole, del tutto inutili fino a quando non vengono invocate e fatte entrare in gioco. Anche lo stato italiano ha capito che il giocattolo stava sfuggendogli di mano e nell’ultimo decreto anticrisi ha disposto verifiche a tappeto sull’idoneità delle ONLUS. Il professionista citato da Cristina, che, in incognito, sottopone ad un “esame di carità” l’ignaro parroco non rappresenta il volontariato, così come non lo rappresentano tutti quegli improvvisati samaritani che, sull’onda dell’emotività, scavalcando il barbone sdraiato sul marciapiede sotto casa, si mettono in macchina diretti in Abruzzo con l’intento, lodevole, di portare aiuto, ma raggiungendo l’obiettivo di intralciare il lavoro di chi, forte della sua preparazione e dell'organizzazione che lo rappresenta, quell’aiuto saprebbe veramente assicurare. Concordo che talvolta si eccede nello scimmiottare l’organizzazione delle aziende a natura commerciale (il più delle volte però si tratta solo di mutuare una terminologia e degli strumenti operativi già collaudati senza ingenerare confusione inventandosi nomi nuovi per concetti e prassi operative vecchie), ma questo non va confuso con lo “stile del volontariato”. A qualcuno può infatti stuzzicare l’orgoglio “possedere un titolo” o avere dei “gradini da scalare”, ciò rientra nella natura umana, ma credo che, per i più, questi incarichi siano un fardello accettato con lo stesso spirito di sacrificio di chi mette tutto il proprio impegno esclusivamente “sul campo”. Gianpietro

7 aprile 2009

Un tozzo di pane secco

Per lavoro, ricevo molte telefonate ed è sempre interessante, dal punto di vista antropologico, ascoltare come le persone si presentano. Non è inconsueto che qualcuno si presenti in modo minaccioso, come avvocato o funzionario di polizia, sperando di suscitare un interesse e una collaborazione maggiore, di quella alla quale forse sono abituati, in genere, parlando con un anonimo impiegato della assistenza clienti. Ho conosciuto Cesare, uno stimato professionista, ai ritiri spirituali dei gesuiti ed è una persona simpaticissima, che da anni segue con passione gli esercizi di questi padri. Ha compiuto, recentemente, su istruzione della sua guida spirituale, quello che chiamano “pellegrinaggio in povertà”, con il quale ci si propone di conoscere meglio gli altri, in un rapporto gratuito, nella consapevolezza che ciascuno si presenta meglio per quello che veramente è, quando non ha niente da offrire. Insieme ad un compagno, ha ricevuto l’incarico di fare un pellegrinaggio di trecento chilometri in cinque giorni, senza un centesimo in tasca, chiedendo passaggi e fermandosi a dormire e mangiare nelle parrocchie. L’impegno era che non dovevano dire chi fossero e recitare una formula del tipo “In nome di Cristo Gesù, chiediamo un tozzo di pane e un posto per la notte”. Solo nel caso fossero stati accolti, potevano presentarsi con le loro generalità. E’ stato molto divertente il resoconto che ha fatto sulla diversa accoglienza dei parroci, perché c’è stato anche chi li ha presi alla lettera e ha dato loro un tozzo di pane secco, invece di invitarli a cena alla loro tavola. Anche nelle nostre associazioni, ci sono titoli e gerarchie e spesso mi chiedo se siano davvero necessari e a cosa servano. Si parla spesso di stile diverso del volontariato, ma ancora non vedo tante differenze con l’organizzazione di un’azienda a profitto, e auspico davvero un modo nuovo di vivere queste attività con maggiore semplicità e sobrietà. Cristina

2 aprile 2009

Le parole

Quando ho iniziato a scrivere su questo blog, l’intenzione era di conoscere meglio le persone che fanno parte di EmmauS e di verificare se quella espressione “insieme”, che usiamo così spesso quando parliamo di volontariato, avesse un senso. Non ho trovato quello che cercavo, ma forse ho incontrato la “felice casualità” che ti fa trovare le cose buone, non cercate. Scrivere su questo blog mi ha insegnato a mettere ordine nei miei pensieri e nel mio agire, a sfumare l’aggressività, a cui spesso mi conduce un carattere impulsivo, a tenere memoria di un percorso interiore, che spesso non procede lineare, ma è invisibile e a volte sconosciuto anche a noi stessi. E poi gli amici. A parte Gianpietro, che cura questo blog, e mi ha sostenuto e incoraggiato, non ho fatto altre amicizie, all’interno della associazione: anzi, alcune, che avevo, le ho perse per strada, perché quando mi incontrano o deviano o cambiano discorso, se si parla del blog, perché ho capito che per loro questo non è ancora uno strumento con il quale hanno familiarità.
Adesso partecipo anche ad altri network come anobii, facebook o picasa. Gli amici con cui adesso mi incontro sul web, hanno nomi come Balenaazzurra, Giakot, Walden o Conchiglia.. Non so quasi nulla di loro, tranne le discussioni sui libri che amiamo, le riflessioni che condividiamo, i pensieri che abbiamo. Dedico, a questo tipo di comunicazione, un’ora ogni mattina, prima di andare al lavoro. E’ un’ora sottratta al sonno, alla colazione, alla preparazione mattutina. Un amico mi ha detto che faccio cose stupide: che questa, virtuale, è un tipo basso di comunicazione, perché non impegna, a fondo, come quella vera in cui ci si guarda negli occhi. Io non penso che questa comunicazione possa essere un’alternativa all’altra o tanto meno possa essere confrontata. Preferisco pensare a quello che le unisce: "le parole" che, come dice Natalia Ginzburg “quando sono adoperate per raccontare senza menzogna ciò che abbiamo visto, sofferto, vissuto, le parole quando salgono dal profondo del nostro animo, insegnano sempre qualcosa, accendono dinanzi agli occhi del prossimo una zona di realtà." Cristina

1 aprile 2009

Meditazioni di bioetica

Ho iniziato ieri sera un percorso di formazione dal titolo “Meditazioni di bioetica”, sottotitolo “Per una bioetica non gridata”. Il tema di discussione della prima lezione ha preso spunto dal caso di Eluana Englaro, e la sfida che ha posto il docente Paolo Dordoni, professore di filosofia teoretica, è di vedere se sia possibile arrivare ad un accordo sui temi etici, tra individui che hanno esperienze e modi di pensare diversi. Su questo caso, dice, non è stata possibile una vera discussione, perché nessuno di noi è riuscito a mettere insieme la ragione, la scienza (la testa) con la coscienza, il sentimento (la pancia). Il dialogo non è mai cominciato perché nessuna delle parti è riuscita a comprendere le ragioni dell’altra, così si è finito per lasciare ad altri la decisione, in questo caso alla politica, che però non possiede un suo modo di ragionare, perché il politico fa soltanto un’operazione di marketing: fa un discorso rivolto ad ottenere consenso, che non deriva da un ragionamento. Qual è allora il percorso che dobbiamo fare per sviluppare una decisione e non lasciare che invece decidano gli altri, come di fatto succede ogni giorno? Ci ha invitato a percorrere questo caso in tre tappe, che ha chiamato: "il percorso del diritto", "una frattura" e "dentro al dilemma". La parte giuridica ha occupato molto tempo, perché le sentenze sono state diverse: dalla prima, con esito negativo, fino all’ultima, che è di trentatre pagine. Sono tutte sentenze molto interessanti, attraverso le quali il docente ci ha mostrato il modo di ragionare del diritto: le paure, i dubbi, le incertezze, le ipotesi. Si è verificata una frattura, perché il nostro modo di pensare, quando l’altro non è d’accordo con noi, è che sia malato, abbia un problema, o sia in malafede e le sue ragioni siano ideologiche. Al punto indicato come “dentro il dilemma”, ci ha interpellato e chiesto di dire se pensiamo che il tutore, da una parte, e i curanti, dall'altra, possano avere avuto, oltre ai problemi, anche delle buone ragioni, perché la discussione incomincia solo quando riusciamo a vedere anche le buone ragioni dell’altro. Arrivati a questo punto, però, ci ha mostrato che c’è il rischio di parlare solo delle motivazioni che supportano l’una o l’altra tesi e di rimanere dentro il dilemma. Una discussione vera ci porta a lasciarci interrogare dalla vita dell’altro e uscire dalla discussione diversi da come ci eravamo entrati. Non è una discussione vera, quella in cui ognuno espone la sua opinione, poi se ne torna a casa e rimane della sua idea, irrigidendosi nella posizione di partenza. Una vera discussione, invece, ci porta al cambiamento e, finalmente, ad agire secondo “scienza e coscienza”. Cristina