31 agosto 2008

Meglio farsi straniero

"Meglio farsi straniero, che accogliere uno straniero" (E. Canetti). Un tempo, come molti europei occidentali, pensavo allo straniero come ad "un altro" che dovesse adattarsi alle nostre regole, o stare fuori. Più recentemente, ho cominciato a considerare una terza via, quella, appunto, degli ebrei: la "stranierità" come condizione umana, spesso non scelta, che accompagna tutta la vita, nella perenne ricerca delle proprie radici. E' una dimensione inquietante e destabilizzante, non semplice, sia quando l'abbiamo di fronte, sia quando ci riguarda; che, però, dilata esperienza e conoscenza, perché, se si accetta questa condizione, niente è dato una volta per tutte. Il difficile è che si deve continuamente abbandonare la casa, la strada già tracciata per noi, o che avevamo programmato, quella che ci dava sicurezza, e intraprendere la via della precarietà, del mistero, accogliendo anche quel lato oscuro, che ci abita silenziosamente, perché la "stranierità" è soprattutto dentro di noi. La malattia e la vecchiaia fanno spesso dire agli altri: "Non lo riconosco più" oppure a noi: "Non mi riconosco". Ma quando siamo più veri? Quando abitiamo la nostra terra, la casa paterna, nel lavoro di sempre, quando pensiamo che non potrà mai capitarci nulla di male, o nell'esilio di una situazione nuova e difficile? Ci sono persone con cui ho lavorato per anni, senza conoscerle; in un momento di difficoltà dell'azienda, ci siamo dispersi in cerca di nuove occupazioni, ma sono nate amicizie profonde tra di noi, perché in quel momento eravamo noi stessi, pellegrini e stranieri in casa nostra, senza un lavoro, con un futuro incerto, senza voglia alcuna di nasconderlo. Cristina

24 agosto 2008

L'ospitalità

"Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo" (Lettera agli Ebrei, 13,2). La figlia della mia vicina di casa mi racconta che la madre, novantenne, ha qualche difficoltà ad accettare la convivenza con la signora straniera, che i figli hanno scelto per assisterla, essendo rimasta sola, in una casa diventata troppo grande per lei. L'ospitalità, anche per gli ammalati da cui andiamo per il servizio, è una virtù difficile e generalmente trascurata nel nostro tempo. Nei ricordi della mia infanzia, la chiave di casa veniva sempre lasciata nella serratura esterna della porta; quando si usciva, si girava semplicemente la chiave, senza toglierla. Chiunque passasse di lì, se trovava la porta aperta, poteva entrare per due chiacchiere e una tazza di tè. Oggi, se si va a casa di qualcuno, senza preavviso, si ha sempre la sensazione di essere capitati in un momento poco opportuno: l'ospitalità richiede tempo e di questo, il nostro mondo diventa sempre più avaro. Chi è ammalato, o anziano, torna ad imparare, dopo le prime resistenze, ad accogliere con gratitudine chi viene in visita, e ad apprezzare anche il semplice scambio di due parole. "Ospite" è, inoltre, una parola dai due significati, perché l'ospite è sia chi riceve, sia chi viene accolto; entrambi hanno la possibilità di aprirsi ad una relazione che ha la caratteristica sostanziale della reciprocità. La mia vicina imparerà presto ad apprezzare le cure di questa signora che, a sua volta, potrà sostenere la famiglia lontana, con il suo lavoro: le due donne saranno, l'una per l'altra, una risorsa preziosa, se sapranno trasfigurare il loro bisogno in un dare reciproco. Cristina

20 agosto 2008

Il perdono

La persona da cui vado per il servizio EmmauS è ammalata da molti anni, ma i medici non hanno mai fatto una diagnosi precisa della sua malattia. Un tempo, pensavo che la medicina fosse una scienza esatta, ma poi ho scoperto che, spesso, si procede per tentativi e, a volte, anche esperimenti. I medici sono esseri umani, hanno dei limiti, e questo deve essere accettato. Se non lo si accetta, la mente del malato vaga per cercare delle cause, delle ragioni e, non trovandole, a volte crea rapporti misteriosi con il proprio male. Questa signora, da cui vado, mi ha parlato diverse volte di situazioni e persone che le hanno provocato malessere e, di conseguenza, uno squilibrio fisico, causa della sua invalidità. Per i sostenitori della medicina psicosomatica, questo discorso non si può escludere: resta comunque il fatto che, anche ammettendolo, produce solo rabbia e frustrazione. La rabbia, anche se a volte ci può persino sembrare una ragione di vita, nella realtà, ci allontana sempre più dal nostro centro interiore, unica fonte di serenità ed equilibrio. L'alternativa è il perdono, la riconciliazione con chi ci ha fatto del male, ma anche con noi stessi; perché il perdono non è mai unilaterale, ma ha sempre questa ambivalenza: da una parte, la chiarezza sui nostri errori, dall'altra, la comprensione per le debolezze altrui. Cristina

18 agosto 2008

Un cuore attento

Un episodio della bibbia che mi piace molto è quello di Salomone, nel Primo Libro dei Re. A Salomone, eletto re quando era ancora molto giovane, appare in sogno il Signore, che gli chiede di esprimere un desiderio. Il ragazzo, consapevole della sua incapacità a governare, con le sue sole forze, un popolo così numeroso, chiede a Dio un cuore docile, attento, capace di distinguere il bene dal male. A Dio piacque molto questa richiesta e, soprattutto, che non avesse chiesto per sé né una vita lunga, né la ricchezza, né la morte dei suoi nemici, e gli diede quello che aveva domandato. Io penso che un cuore attento sia davvero la qualità più importante che possiamo avere: il suo contrario è un cuore indifferente, non solo ai bisogni degli altri, ma anche al bene che c'è in noi e nella nostra vita. Alcune sere fa, su invito di un'amica, ho partecipato a un incontro di persone che fanno parte di un movimento religioso. Sono andata per curiosità, nonostante io abbia, per i movimenti in generale, alcune riserve e pregiudizi. Ho conosciuto, così, una realtà un po' diversa da quella in cui vivo abitualmente: persone molto semplici, anche un pò fragili, forse; alcuni hanno alle spalle problemi di dipendenza da alcool, droga o gioco. Quello che mi ha colpito, di questa serata un po' insolita, è stato che, ogni tanto, qualcuno andava al microfono e ringraziava per qualcosa di bello che gli era successo durante la giornata o la settimana: a volte, erano cose anche un po' insignificanti, altre, invece, erano importanti; ma, per tutte, sentivano il bisogno di ringraziare Dio. Sono persone che, nella loro povertà, hanno ricevuto un grande dono: un cuore attento, capace di ascolto e, insieme, sapiente. Cristina

15 agosto 2008

Il tempo

Tra le tante cose che il servizio ci insegna, c'è il buon impiego del tempo. Per chi, durante la settimana, lavora, quelle domeniche, dedicate al servizio, vogliono dire tempo sottratto al riposo, alla famiglia, ai fine settimana al mare e in montagna, agli amici: tutte cose che sarebbe impensabile sacrificare in modo definitivo. Abbiamo dovuto, allora, ridimensionare le nostre attività e, alla fine, abbiamo scoperto che la vita può essere anche più armoniosa e ci può essere spazio per tutto, se lo vogliamo: nel lavoro, per esempio, otto ore, lavorate con efficienza, possono essere anche più produttive delle tredici (a volte anche quindici) ore di un tempo; e uscire dal lavoro alle cinque del pomeriggio, invece delle otto o dieci di sera, cambia davvero la vita. Il servizio ci ha anche insegnato a ridurre l'ansia e l'affanno di fare più cose nello stesso tempo: i malati ci chiedono che quel tempo venga dedicato soltanto a loro e, così, abbiamo imparato a fare una cosa sola alla volta. In uno dei suoi mattutini su "Avvenire", Gianfranco Ravasi riporta una delle tante considerazioni sull'uso del tempo che Jean La Bruyère, scrittore moralista del '600, offre nei suoi "Caratteri". Si potrebbe trascrivere con un'esperienza che tutti fanno: quando si ha un favore da chiedere a un altro, non bisogna mai andare da chi ha poco da fare, perché ti dirà sempre che è troppo preso e occupato. Va', invece, dalla persona dalle mille attività e vedrai che ritaglierà il tempo per aiutarti. E questo non sempre perché il primo è pigro, quanto piuttosto perché "impiega male il tempo" e, quindi, pur avendo davanti a sé un arco di giorni ampio, si lamenterà sempre che "il tempo passa troppo in fretta". Cristina

14 agosto 2008

immagini

Ogni immagine ha la sua storia. Alcune mi sono subito parse perfette per quel post; la maggior parte, tuttavia, sono state scelte tra diverse altre e non sempre quelle scartate (che ho conservato) valevano di meno. In prevalenza si spiegano da sole. Alcune tuttavia meritano un cenno esplicativo circa i significati da me attribuiti. Eccone alcuni.
Amicizia
Ciò che ho colto nel post è il concetto di imparzialità, di eguaglianza in qualsiasi situazione o condizione. Cercavo un’immagine che rispecchiasse questi aspetti della vita e la rappresentazione (concordo sul terrificante) della grande “livellatrice” mi è parsa l’unica sulla quale sfido chiunque a vantare aspettative, o campare diritti negandoli agli altri. Quel giorno sarà la morte stessa il regalo maggiormente gradito e che non credo solleverà le gelosie di alcuno.
Nel bene e nel male
Al riempimento dell’esistenza concorre la presenza di ogni elemento che la compone. L’idea della morte come compagna costante, così come la gioia che deve “abbracciare tutta l’esistenza” e non solo singoli momenti sono raffigurate da un fiume saturo, fatto di esistenze tutte uguali tra loro anche se nessuna identica all’altra. Ad ogni sasso corrisponde una vita. Ognuna adattata nella forma in relazione allo spazio riservatole. Tutte orientate nella stessa direzione, ma con l’illusione dell’unicità data dal minimo margine che separa una pietra dall’altra. Una continuità fatta di diversità che si illudono di essere uniche in un fluire ordinato verso …. probabilmente il nulla.
Paura
Tu scrivi “portare sempre il malato sul terreno della razionalità”. E cosa vi è di più razionale di un frattale? Ogni sua forma non è altro che il risultato di un calcolo matematico, la riproduzione continua di se stessa sia nell’infinitesimamente piccolo come nell’infinitamente grande. La razionalità, come il frattale, non si discute; la si accetta e si applica, o la si rifiuta. E non è detto che quest’ultima scelta non sia la migliore.
Una morte che scaturisce dalla vita
L’immagine dello “specchio di ciò che in una vita è essenziale” mi è parsa ben raffigurata dal riflesso che la vita vissuta al di là della finestra (la soglia dell’esistere) proietta sul piano della realtà (il terreno sgomberato dal superfluo). Solo un piccolo frammento di ciò che ci caratterizza nel tempo che viviamo oltre il vetro si rispecchierà, inalterato, in ciò che saremo una volta ricongiunti alla terra. E quel frammento rappresenterà l’essenziale.
La via regale
Lo spunto è stata la frase “La sua bussola interiore gli dice dove si trova e non fa cose al di fuori della sua portata”. La bussola che ho scelto (adattandola) non rispetta l’orientamento canonico dei simboli e questo sta ad indicare che quand’anche sapessimo riconoscere di possedere una bussola interiore, avremmo ancora il compito di orientarla e senza un riferimento esterno ciò è impossibile. Una volta scelto il riferimento, questo potrebbe risultare fallace, frutto di un bisogno più che un’essenza oggettiva, inducendoci così ad assegnare ad ogni simbolo valori che non gli sono propri.
E qui mi fermo, per adesso. Gianpietro

9 agosto 2008

Amicizia

Sono tante le persone che, più o meno assiduamente, frequentano la casa della signora da cui vado per il servizio e, tra queste, lei non manca mai di eleggere la sua preferita. Per molti anni è stata Anna, una volontaria di San Remo, città a cui ha fatto ritorno per assistere la madre. Adesso, la sua prediletta è una giovane studentessa straniera che, nel tempo libero dagli studi, offre un po' di collaborazione nella gestione della casa. Saper esprimere i nostri sentimenti in tutte le loro sfumature è molto importante per una vera maturità affettiva. Nella mia famiglia, invece, una delle poche regole che venivano imposte era l'imparzialità, fino al punto che, ancora adesso, i compleanni dei bambini non vengono celebrati singolarmente ma, quando compie gli anni uno, anche tutti gli altri ricevono regali. La finalità pedagogica di evitare gelosie e invidie è poi fallita miseramente: siamo diventati tutti persone affettivamente viziate e gelose, dal momento in cui abbiamo scoperto che, nella società, non si osservava il medesimo criterio. Cristina