I nostri comportamenti dipendono da un’infinità di fattori.
Impossibile stilarne un elenco esaustivo. Solo per citarne alcuni: la
differenza di genere, lo stadio dell’esistenza, le condizioni di salute, le
risorse a disposizione, le condizioni ambientali, le convenzioni ed il ruolo
sociale, la storia personale, i vincoli familiari, la cultura, le tradizioni,
l’educazione, le aspettative individuali e le pressioni sociali, lo stato
emotivo e psichico del momento, il carattere, la sensibilità … i pensieri … i
sentimenti …. E questi sono solo una parte degli elementi che entrano in gioco,
a diversi livelli d’intensità e senza che si possa tracciare una scala di
priorità. Si tratta di un mix che può variare, per quantità e rilevanza, anche
sensibilmente da individuo a individuo. Parlarne in termini generali sarebbe da
sciocchi. Un po’ come definire il livello di felicità, o di sofferenza,
attribuendo peso prevalente a quello che, a nostro giudizio, costituisce il
fattore dominante. “Quella persona non
potrà mai essere felice con la situazione familiare/economica/di salute che si
ritrova…”, oppure “Non capisco cosa gli
manchi per essere felice. Si gode la pensione, è in buona salute, senza
problemi economici, né familiari …” La realtà può essere ben diversa, può dipendere
da tutt'altro. “Il piacere di vivere”,
così come “il male di vivere”, possono
coesistere alternandosi fino a sembrare, riflessi
nello stesso specchio, uno il negativo dell'altro. Non si tratta di compensazione tra opposti e nemmeno
della ricerca di un compromesso. Nel campo dei sentimenti questa dicotomia si
manifesta con maggiore evidenza. La capacità di controllo è ridotta, i dubbi
possono diventare assillanti e la percezione della realtà è fortemente
distorta. Si convive con spinte contrapposte ed il passaggio dall'una all'altra sponda è sempre un salto nel vuoto, un momento di vero panico, di fiato
sospeso. In quei frangenti gioia e dolore crescono in modo esponenziale e la
differenza tra la strada e la scarpata diventa minima. Gianpietro
22 maggio 2013
18 maggio 2013
November rain
Si pensa di potere aspettare, che non sia necessario
correre, avere fretta di decidere. Ci saranno altre possibilità, nuove occasioni. Basterà farsi trovare pronti. Passano gli anni e li riempiamo di
cose non fatte, di opportunità che ci siamo lasciati scivolare
addosso, perdendole definitivamente. Tanto ne verranno altre: abbiamo detto. È
stato così per le scelte di studio, lavorative, culturali, di
svago, di ricerca, affettive… Sono soprattutto le persone che tendiamo a considerarle
di passaggio. È come se le vedessimo immerse in un flusso continuo nel quale crediamo di poterci inserire a nostra discrezione. Siamo
convinti di avere il diritto a pescarvi sempre il meglio, ma senza fretta,
tanto c’è tempo, ne passeranno di più interessanti. Per alcuni, queste scelte risultano condizionate dall'ambiente, dalle
tradizioni, da vincoli oggetivi, da figure estranee. Il peso delle decisioni viene rimosso
dalle spalle di chi dovrebbe/vorrebbe portarlo e spostato su altri che
diventano così proprietari anche dell’anima. In entrambi i casi le difese accumulate negli anni si ergono a formare una barriera che toglie l’orizzonte
alla vista e respinge chi vorrebbe accostarsi. Molte occasioni non si ripresenteranno più. Ma quando un giorno incontriamo la persona che sognavamo di poter scegliere e dalla quale vorremmo essere scelti, ecco che intorno a
noi la gabbia ha già preso forma e consistenza, ed anche il tempo assume ben altra
rilevanza. L’insofferenza pervade le giornate, ogni attimo d’attesa è visto
come uno spreco. Siamo noi a trovarci trascinati dalla corrente,
invocando un braccio che si allunghi nella nostra direzione prima di venire
sospinti oltre. Vorremmo gridare: “Non perdere questa opportunità! Cambia il
corso dell’esistenza! Fermati e scegli!”. Parole che pronunceremo a gran voce, consapevoli che potremmo non essere ascoltati. Gianpietro
7 maggio 2013
Fine vite
Nutro stima e rispetto nei confronti di Vito Mancuso e mi
trovo solidale con diverse sue analisi (ho apprezzato in particolare “L’anima e
il suo destino” ed. Raffaello Cortina – 2007). Non altrettanto convincenti mi
sono parse le considerazioni riportate nell’articolo pubblicato su “La
repubblica” del 5 maggio 2013 (clicca qui per leggerlo, prima di proseguire).
Il tema (eutanasia, o suicidio assistito) è ampio e non offre
appigli a chi fosse alla ricerca di verità incontrovertibili (tralascio gli integralisti
e i dogmatici). Assumo pertanto come valide, sia le due premesse “alleviare la
sofferenza, sempre” e “rispettare la libera autodeterminazione delle coscienze,
sempre”, sia la classificazione dell’individuo, la sua “consistenza”, nelle
cinque forme di vita (di qui il plurale nel titolo del post) raggruppate nelle
tre classi “bios-zoè” (biologica e animale), “psychè” (psichica) e “logos-nous”
(ragione e spirito). Accetto anche che tra di esse esista un ordine crescente in termini evolutivi (sia temporali che di consapevolezza). Detto questo mi è parso evidente, dalla lettura del
testo, che all’ultimo livello “logos-nous” viene attribuita la responsabilità delle
scelte che impattano sui livelli inferiori: “io penso che il rispetto della
vita debba consistere alla fine nel rispetto della sua vita spirituale (nous),
della sua coscienza o libertà” e più avanti: “cosa è più sacro: la vita
biologica o la vita spirituale?”. Queste affermazioni pongono già un problema nei confronti
di chi quel livello non lo ha ancora raggiunto (infanzia e sottocultura) o lo
ha perduto (malattie e infortuni). Chi stabilisce inoltre la sua esistenza,
completezza e integrità? È quindi al livello del “nous” che andrebbero
assegnati tutti i poteri decisionali sulle “vite” dei livelli “inferiori”: non
solo su quella biologica/animale, ma anche su quella psichica. Eventualmente in
modo selettivo?
Sviluppando il discorso credo si possa andare oltre il
limite posto dall’autore: “di fronte ai casi estremi di malattia, quando la
disarmonia tra le forme vitali diviene lacerante…” dato che egli stesso fa
riferimento a: “esseri umani che non riescono, o non vogliono, mantenere
l’armonia tra la loro vita biologica, la loro vita psichica e la loro vita
spirituale” e poco più avanti lo ribadisce con un’affermazione che, a mio
avviso, apre la porta a scelte di “fine vita” non strettamente collegabili a
condizioni di tipo “vegetativo”. Dice infatti: “e se un essere umano ha
liberamente scelto di mettere fine alla sua vita bios perché per lui o per lei l’esistenza
è diventata una prigione e una tortura … lo (si) deve rispettare”. Quali
tipologie di suicidio non rientrano in tale casistica? Chi, oltre
all’interessato, può valutare le condizioni di: “ansia, paura, sofferenze
devastanti per la salute psichica e spirituale”?
Le lascio come domande aperte.
Personalmente ritengo che nessuno stato e nessuna religione debbano tramutare
il “diritto” alla vita in un “dovere” e in questo condivido l’affermazione
dell’autore: “nessun essere umano può essere costretto a continuare a vivere”,
ma la amplio, sostenendo: “a prescindere dalle condizioni e dalle circostanze
della scelta”. Gianpietro
6 maggio 2013
L'arte della semplicità
“L’arte della semplicità” è il titolo di un bel libro di Dominique Loreau, che dagli anni ’70 vive in Giappone e ha adottato lo stile della filosofia zen anche nella sua vita pratica di tutti i giorni. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e credo che sia importante precisare che semplice non ha il significato di una diminuzione, ma significa essenziale. Viviamo circondati da migliaia di oggetti, molto spesso inutili, che però ci dispiace buttare via, perché sono legati a un ricordo o perché sono stati di moda e li abbiamo pagati tanto o perché pensiamo possano tornare a servire un giorno o l’altro. Dopo aver letto questo libro, viene voglia di eliminarli una volta per tutte e certamente non li rimpiangeremo. Gli oggetti che ci servono veramente sono davvero pochi e non bisogna pensare che una casa disadorna perda in bellezza, perché invece gli spazi si riempiranno di luce, di profumo, di aria: elementi bellissimi che renderanno migliore la nostra vita. Io ho cominciato anni fa a liberarmi degli oggetti inutili e soprattutto di quelli brutti e questo ha fatto nascere in me, per ogni nuovo acquisto, il bisogno di comprare solo quello che veramente mi serve e non occupa solo spazio, ma che sia anche bello, artigianale, piacevole al tatto e alla vista, pensando anche che quando lo eliminerò, perché mi avrà stancato, potrò darlo a qualcuno e questa persona ne ricaverà il piacere, alla sua vista, che ha dato a me la prima volta. E non importa se questa persona, che avrà un mio abito, o una borsa, o un servizio di piatti, o un gioiello, sarà un’amica, un familiare, un povero, che si veste con quello che si lascia nei cassonetti della Caritas. Sarà bello condividere con altri l’oggetto che abbiamo acquistato, solo se non è sciupato ed è ancora bello, come quando lo abbiamo ricevuto noi la prima volta. Così ho fatto con i libri. Quelli che non mi erano piaciuti sono finiti nel cassonetto della carta da riciclo e ho regalato solo quelli che, pur essendomi piaciuti, non avrei riletto, perché nella biblioteca di casa è meglio tenere solo pochi libri, essenziali, importanti, che amiamo leggere e rileggere, e per tutti gli altri, fortunatamente, adesso c’è il lettore digitale, che ne contiene migliaia e non occupa spazio. Dopo essermi circondata solo di oggetti belli e funzionali, in casa, è stata la volta di fare pulizia nei miei pensieri. Quanti luoghi comuni, quante idee fisse inculcate nella mia testa, chissà quando e chissà da chi. Solo tra le amicizie non ho fatto nessuna pulizia, come invece sembra raccomandare questo piccolo libro, perché quelle che ho sono poche e mi sono tutte care. Sono tutte diverse tra loro e anche da me, ma non importa: alcune sono recenti, magari acquisite sul web o frequentando qualche comunità, altre, di vecchia data, risalgono addirittura all’infanzia.
Concludo infine con un pensiero di Thoreau a cui ricorro spesso e che forse oggi varrebbe la pena per molti di ricordare: “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno.” (David Thoreau, Walden). Cristina
Concludo infine con un pensiero di Thoreau a cui ricorro spesso e che forse oggi varrebbe la pena per molti di ricordare: “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno.” (David Thoreau, Walden). Cristina
5 maggio 2013
DOMINO
Nel corso dell'esistenza si creano tra le persone intrecci che, a priori, non si sarebbero potuti immaginare. Le relazioni che contano prendono spesso il
via da episodi che nulla hanno di canonico e seguono snodi dagli esiti talmente
aleatori da sembrare poggianti sul nulla. Succede poi che queste relazioni prendono consistenza,
quasi fossero sorrette da fili invisibili: si rafforzano,
diventando prioritarie e prevalenti. Alla base restano tuttavia equilibri instabili,
dichiarazioni d'intenti che sembrerebbe facile spezzare, o disconfermare. Ad
esse si contrappongono situazioni esteriori, dipendenze relazionali e
affettive, tante particolarità contingenti che puntellano l’intera struttura,
fino a quando, modificandosi anche un solo tassello, viene ad alterarsi
l’equilibrio complessivo. Sono come le tessere di un domino accostate le une alle
altre. A seconda del tipo di disequilibrio che si viene a creare, causa anche fattori
del tutto esterni alla relazione, si presenta un nuovo quadro
d’insieme, al cui interno le tessere assumono un differente orientamento, talvolta opposto a quello iniziale. Ciascun attore è allora chiamato a recitare una
parte del tutto nuova. Ruoli che erano comunque già contemplati
dal copione: noti, dichiarati e condivisi da ogni recitante, ma dall'esito incerto perché mai provati sul campo. Se in una scena si attiva una promessa,
ancorché basata su una mera ipotesi, si deve essere consapevoli che in una
delle scene successive è possibile, con variabile probabilistica da zero a
cento, che quella promessa debba essere mantenuta. Puntellarsi su equilibri basati
unicamente su scenari teorici e mai sperimentati, è fattibile, ma impegnativo.
Può venire il giorno della verità, del sì pronunciato al posto di una sequenza infinita di no, ed allora si deve essere pronti a rendere conto di quanto
promesso, degli impegni assunti. Quando ciò accade va inoltre tenuto presente che gli
attori sono già stati duramente provati dalle condizioni che hanno portato al
cambiamento. I tempi di attuazione delle scelte sono ridotti ed i margini di
manovra minimi. In quella fase le possibilità di modifica delle prospettive sono
nulle, o possono risultare inaccettabili agli occhi di chi ha puntato tutto sugli impegni
dichiarati e costantemente ribaditi.
Ecco, con questa consapevolezza, io rinnovo la promessa.
Qualunque sia la sua scelta. Gianpietro
3 maggio 2013
il "giusto mezzo"
Sono trascorsi due mesi dall’ultimo post pubblicato su
questo blog. Un intervallo comunque limitato, dato che ormai si tratta di uno
spazio riservato a pochi intimi, non più identificabile come strumento
comunicativo di un’associazione. Credo sarebbe anche corretto modificarne il
nome: operazione però non consentita dato che fa parte dell’url. Prima tuttavia di
rimuovere, quanto meno, il logo di EmmauS, mi piacerebbe avere vostri
suggerimenti. Dicevo di questi due mesi trascorsi nel silenzio degli
autori, al pari di quello dei visitatori. Oggi Cristina lo
ha interrotto citando Tolstoj in un commento su “Alternanza” del 3 marzo. Sono
lusingato per l’accostamento, ma dissento rispetto all'invito ad adottare il
“giusto mezzo” (l’aurea mediocritas proclamata da Orazio). Per gran parte
dell’esistenza ho seguito proprio quella regola: “non rischiare”, “aspetta”,
“stai alla finestra”, “ fai il minimo”, “scegli il male minore, o il bene meno
impegnativo”, “adattati alle circostanze”, “non esagerare”, “sopporta”, “non
esporti”, “soffoca le passioni”, “pensa agli altri”, “non creare sofferenza”,
“sii responsabile”, “pazienta”, “rinuncia” … sempre alla ricerca dell’equidistanza tra il nihil e lo slancio (non me
la sento di usare il termine “illusioni” scelto da Cristina).
Oggi avverto per intero il peso di questa politica della non
scelta, di questo comportamento votato alla disperazione, frutto di compromessi,
spesso nemmeno sollecitati. Questo periodo è terminato, quell'io ha cessato di
esistere il 9 marzo. Una volta varcata l’ultima sliding door è nato un nuovo
individuo. Due mesi fa ho scelto un differente battesimo, che in questi giorni
ho riconfermato con una promessa fatta seduto in terra, la schiena appoggiata
ad una lapide. Da oggi non più galleggiamenti avvolti dalla nebbia, silenzi mascherati
da quieto vivere. Da oggi voglio urlare di gioia, ed allo stesso modo piangere di dolore. Bruciarmi se mi attira il fuoco, annegarmi se mi attrae l’abisso. Da oggi ho
scelto di amare a dispetto delle regole e delle convenzioni, dell’età e delle
circostanze. Ho scelto di amare, qualunque sia la sua scelta. Ho deciso di
vivere. Gianpietro
I due ruscelli
Finalmente riuniti
Un solo canto
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