11 settembre 2012

Il silenzio

(pag. 22): "Voi parlate quando avete perduto la pace con i vostri pensieri."

Io amo il silenzio. Sono sempre stata poco loquace, fin da bambina, e in famiglia sono sempre stata rimproverata per questo: come se il non parlare in continuazione denotasse mancanza di partecipazione a ciò che accadeva intorno a me. Non sono in molti a dare il giusto valore al silenzio. Con i ragazzi che seguo dedico sempre almeno un incontro ad approfondire questo tema e più che altro a sperimentarlo. E risulta essere sempre l'incontro per loro più imbarazzante...
Comunque, dal momento che preferisco il silenzio, lascio a chi è più bravo di me con le parole il compito di commentare questo testo.
Maria Maddalena

17 agosto 2012

Gradini

L’estate è un tempo molto bello perché ci sono le vacanze e se si coglie questa opportunità come uno stato dell’anima e non come una corsa forsennata a intasare le autostrade è anche un tempo molto bello per fermarsi a pensare da soli o con gli amici o anche con qualche estraneo. L’altro giorno un amico mi diceva che lui da tempo pensa che si dovrebbe vivere ogni giorno come se fosse il primo e non l’ultimo, come qualcuno è invece solito dire e citava questa poesia di Hermann Hesse che è davvero molto bella e che vi voglio dedicare in questo ultimo giorno di vacanza, perché lunedì dovrò tornare al lavoro. Ogni giorno può essere un nuovo inizio per progredire e ampliare la nostra coscienza e a questo anche una poesia può servire. Cristina

Gradini (Hermann Hesse)
  
Come ogni fior languisce e
giovinezza cede a vecchiaia,
anche la vita in tutti i gradi suoi fiorisce,
insieme ad ogni senno e virtù, né può durare eterna.
Quando la vita chiama, il cuore
sia pronto a partire ed a ricominciare,
per offrirsi sereno e valoroso ad altri, nuovi vincoli e legami.
Ogni inizio contiene una magia
che ci protegge e a vivere ci aiuta.
Dobbiamo attraversare spazi e spazi,
senza fermare in alcun d'essi il piede,
lo spirto universal non vuol legarci,
ma su di grado in grado sollevarci.
Appena ci avvezziamo ad una sede
rischiamo d'infiacchire nell'ignavia:
sol chi e' disposto a muoversi e partire
vince la consuetudine inceppante.
Forse il momento stesso della morte
ci farà andare incontro a nuovi spazi:
della vita il richiamo non ha fine....
Su, cuore mio, congedati e guarisci...

3 luglio 2012

Sul dare

(pag. 8): "E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito. Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell'aria la sua fragranza."

Questo capitolo mi riporta all'episodio del Vangelo di Marco (Mc 10,17-31) in cui l'incapacità di un ricco di lasciare i propri beni dà a Gesù l'occasione per avvertire i propri discepoli del pericolo che consiste nel lasciarsi imprigionare nell'orizzonte soffocante delle ricchezze. Se il nostro sguardo è catturato dai beni (da quelli che si hanno e da quelli che si vorrebbero avere) saremo prigionieri dei beni. Vivremo nella paura di perderli o di non poterli mai avere. La ricchezza in sé non va però condannata. Non la mano, ma il cuore deve star lontano da essa. Si tratta di saperla utilizzare per il bene degli altri. Chi è ricco lo è per gli altri. Resta comunque sempre il fatto che è quando si dona se stessi che si dona veramente. E lo si deve fare "senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito". Perchè donarsi in questo modo fa sentir bene se stessi prima ancora dei beneficiari del proprio aiuto. Maria Maddalena

18 giugno 2012

Quale libertà oggi

(pag. 18 e pag. 19) “Se è un despota colui che volete detronizzare, badate prima che il trono eretto dentro di voi sia già stato distrutto. Poiché come può un tiranno governare uomini liberi e fieri, se non per una tirannia e un difetto della loro stessa libertà e del loro orgoglio?”

Si parla molto di libertà oggi e, come qualcuno ha giustamente detto a proposito dell’acqua, quando si parla molto di un bene, vuol dire che questo bene sta cominciando a scarseggiare. Ha ragione l’autore de “Il Profeta” a dire che la libertà comincia da noi stessi e se non abbiamo la libertà interiore, diventa allora inutile detronizzare potenti e tiranni, perché a un potere ne seguirà un altro, se ci sono uomini che non sanno vivere da uomini liberi. Ma, nella concretezza, cosa significa essere uomini liberi? Penso che voglia dire che c’è un bene che promuove la vita e oggettivamente pensabile e non dipende dalle circostanze, ed essere liberi significa avere la capacità di giudizio per individuare quel bene e operarlo. Socrate in catene, che decide di morire, piuttosto che scappare in esilio, non si piega all’arroganza del potere e se oggi il suo pensiero si è tramandato fino a noi e nutre ancora il nostro spirito è in virtù di quella scelta. Se Socrate fosse fuggito, non sarebbe stato per i suoi discepoli un esempio da seguire, perché, nel momento della massima libertà, quello della scelta, lui avrebbe preferito rinunciarvi, per salvarsi, e tutto quello che aveva detto fino a quel momento avrebbe perso di valore. Ma tornando ai nostri tempi, penso che libertà interiore voglia dire libertà della coscienza di riconoscere il bene anche nella situazione più drammatica e farlo. Non ci dobbiamo illudere che oggi possa nascere un  governo che ci assicuri la libertà, perché la democrazia, ammesso che sia mai esistita, oggi non c’è sicuramente e non ci dobbiamo illudere al riguardo. Possiamo, però, operare il bene, in qualunque situazione ci troviamo, e questa libertà non ci verrà mai a mancare. Cristina 

13 giugno 2012

Il lavoro

(pag. 11) Il lavoro è amore rivelato. E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.

Il capitolo sul lavoro de “Il Profeta” è molto bello dal punto di vista teorico, perché mostra che in ogni mestiere, anche quello umile del panettiere, ci può essere poesia, se svolto con amore e, se manca questa qualità, persino il pane verrebbe male. Ma gli antichi dicevano anche che prima bisogna vivere e poi fare della filosofia e leggendo la biografia dell’autore di questo libro si scopre che c’è della verità e del buon senso anche in questa affermazione. Gibran potè studiare, scrivere, dare vita a riviste e associazioni culturali, pur provenendo da una famiglia economicamente disagiata, solo perché ci fu chi lo mantenne, a cominciare dalla madre, con il suo lavoro di merciaia, poi, quando la madre morì, la sorella, con il suo lavoro di sartina, e per finire un'anziana amante, Mary Haskell, che finanziò la maggior parte delle sue iniziative. Nessuno scrittore riuscì mai a mantenersi con il proprio lavoro e fu principalmente per questo motivo che gli scrittori un tempo, o prevenivano da famiglie facoltose, oppure dovevano lavorare, svolgendo mestieri modesti, che non potevano certamente amare, come Pessoa e anche altri. Ci provò Proust a lavorare come bibliotecario o archivista, ma credo che non durò nemmeno un mese. Ma sarebbe certamente bello, non riuscendo a lavorare con gioia, vivere accettando la elemosina di chi con gioia, invece, lavora. Ma io credo che sia esattamente il contrario: che qualcuno possa lavorare con gioia, solo perché c’è chi, lavorando con disgusto, finanzia il suo lavoro. E non dobbiamo pensare per forza male, alludendo a corrotti e parassiti. Penso a chi lavora nella ricerca, con passione, dedicando a essa tutta la vita. Molto spesso lo può fare perché ci sono contribuenti, non sempre così felici di farlo né di lavorare, che lo sostengono. Allora questo capitolo lo modificherei sostanzialmente dicendo che, dovendo lavorare, cercheremo di essere almeno responsabili del nostro lavoro e di farlo bene, cercheremo anche di essere sempre gentili con tutti, sorridendo al mattino, quando entriamo al lavoro, anche quando non avremmo nessuna voglia di farlo. Cristina

12 giugno 2012

Sul matrimonio

(pag. 7) “Cantate e danzate insieme e state allegri, ma ognuno di voi sia solo. Come sole sono le corde del liuto, benché vibrino di musica uguale.”

Il capitolo sul matrimonio del libro che stiamo leggendo insieme: “Il Profeta” di Gibran istruisce sul valore della solitudine, che non è misantropia o egoismo, ma consapevolezza di essere una persona diversa dall’altra, con caratteristiche personali ben distinte, alle quali non occorre rinunciare, perché non c’è amore se manca la libertà di essere se stessi e se il rapporto di coppia viene vissuto come una prigione o come un dovere. Mi è piaciuta comunque l’espressione “cantate e danzate insieme e state allegri” perché credo che sia da questa allegria che riconosciamo che c’è l’amore. Certamente, nella vita insieme, ci sono momenti difficili, ma questa allegria non dovrebbe mai mancare, perché quando finisce la voglia di ridere insieme, finisce tutto. Sento spesso gli anziani che ricordano il tempo della giovinezza, quando bastava poco per divertirsi ed essere allegri e trovo strano che quel poco che bastava allora non si cerchi di tenerlo vivo, come si terrebbe vivo un piccolo fuoco, sotto la cenere del camino, che altrimenti rischierebbe di spegnersi. Oltre all’allegria c’è, a mio avviso, anche un’altra qualità importante, che vale per tutte le relazioni, ed è l’umorismo, che aiuta a ridimensionare tutto, perché nella vita insieme, spesso, si amplificano problemi, che non meriterebbero tanta importanza e preoccupazione. Cristina

10 giugno 2012

Quando l'amore chiama

(pag. 6) Quando l'amore vi chiama, seguitelo. Anche se le sue vie sono dure e scoscese e quando le sue ali vi avvolgeranno, affidatevi a lui. Anche se la sua lama, nascosta tra le piume, vi può ferire. E quando vi parla, abbiate fede in lui, anche se la sua voce può distruggere i vostri sogni come il vento del nord devasta il giardino. Poiché l'amore come vi incorona così vi crocefigge. E  come vi fa fiorire così vi reciderà. Come sale alla vostra sommità e accarezza i più teneri rami che fremono al sole, così scenderà alle vostre radici e le scuoterà fin dove si avvinghiano alla terra.

Non ci può essere vita senza l'amore. L'amore è  un dono, che  non dobbiamo nemmeno fare tanta fatica a cercare, perché non dobbiamo fare altro che aprire il cuore e allargare le braccia, per accoglierlo, quando lo incontriamo. Poi, la società ha cercato di incasellarlo in schemi e istituzioni, che hanno indubbiamente una loro utilità per dare stabilità e continuità all’amore, ma l’amore è una qualità spirituale, che poco ha a che fare con le nostre costruzioni e i nostri recinti. L’amore vero è quello che tiene insieme tutto l’universo: l’amore è forte, saldo ed eterno, ma siamo noi che, a volte, chiudiamo il cuore e non ne vogliamo sapere, perché ne abbiamo paura. Ma è anche vero che può procurare dolore. Per seguire l’amore, quando chiama - come dice il profeta - spesso si abbandona qualcuno: un padre o una madre, un altro uomo o un’altra donna, a volte una fede o una missione e questo porta spesso dolore. Basti pensare a Edith Stein, brillante allieva di Husserl, che dopo aver scoperto che non è la filosofia che porta alla verità, ma la scienza della croce, attraverso Cristo, rinunciò all’ebraismo, per convertirsi al cristianesimo, spezzando il cuore alla madre e lacerando i rapporti tra loro. Ma anche nella vita più normale, i genitori fanno esperienza di questa duplicità dell’amore. Poco tempo fa, chiesi a mia madre quali fossero stati i momenti più felici della sua vita e quali  quelli più dolorosi. Non ebbe alcuna esitazione a rispondere che quelli più felici erano stati la nascita dei figli e quelli più dolorosi erano stati a causa nostra. Cristina

6 maggio 2012

Principi e strategie della decrescita: le otto R

Parlando di decrescita, il passo successivo sarà identificare i principi e le strategie a cui si devono ispirare i comportamenti individuali, in particolare quelli di acquisto e di consumo e quelli collettivi nel suo complesso. Vengono di solito riassunti in modo schematico nelle cosiddette “otto R”: ridurre, riutilizzare, riciclare, rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare. Quanto portiamo queste strategie nel quotidiano della nostra esperienza, dobbiamo sempre tenere presente le due caratteristiche comuni: il dono e la scelta libera e gioiosa. Tradotte significano ad esempio contrastare la delocalizzazione, guidata da considerazioni esclusivamente economiche legate al vantaggio competitivo: il costo inferiore dei fattori di produzione, in particolare del lavoro e recuperare la dimensione locale della produzione: filiere locali o “corte”, finanziamenti alle imprese locali e del consumo: consumo “a Km 0”, G.a.s.-Gruppi di acquisto solidale, di cui abbiamo già parlato. Significa progettare beni che durano nel tempo e che non siano programmati per una obsolescenza rapida nell’ottica del consumo. Significa recuperare e rivalutare l’esistente e non desiderare ciò che è nuovo solo perché è nuovo. Significa ridurre per esempio l’accelerazione. Jean Robert e Dupuy svolsero un’analisi approfondita sul sistema automobilistico e arrivarono ad affermare che, al di là di una certa soglia, oggi ampiamente superata, nei grandi agglomerati urbani la moltiplicazione dei veicoli avvantaggia decisamente il pedone e il ciclista. Ma osserva Dupuy che l’alternativa radicale ai trasporti attuali: “non sono trasporti meno inquinanti, meno rumorosi e più rapidi; è una drastica riduzione della loro impronta nella nostra vita quotidiana.”. ”Gli utenti – scriveva già Illich – spezzeranno le catene del trasporto superpotente quando cominceranno di nuovo ad amare come un territorio il loro circondario e a temere di allontanarsene troppo spesso. […] Come compenso, si avrebbe il ritorno al senso del luogo di vita, che è un elemento strategico del programma della decrescita.” Non c’è comunque teoria buona che  non cominci dal quotidiano: da noi, dalla nostra famiglia, dalla  nostra casa. Proprio ieri sera, sentivo Luca Mercalli, un nucleare cosiddetto di quinta generazione, che in una trasmissione televisiva consigliava di approfittare di questa estate per cominciare a sbarazzarci del superfluo, dedicando tempo e risorse a tutto ciò che rende confortevole la nostra casa, riscaldamento e altro, limitando il consumo di energia, coltivando l’orto, chi ha la fortuna di averlo, curando l’igiene e la salute del nostro corpo, pensando, infine, che poi, di tutto il resto, si può anche fare senza. E a questo elenco di cose che si possono fare durante l’estate, evitando la dispersione e la passività che prende alcuni, aggiungo anche “rivalutare” l’ascolto dell’altro, chiunque esso sia, perché questo non può che far crescere e dare respiro alla nostra dimensione interiore. Cristina

28 aprile 2012

Il Profeta

Kahlil Gibran "IL PROFETA" pubblicato nel 1923. Questo è il secondo e-book che propongo. Si tratta dell'opera principale dello scrittore/pittore libanese. Anch'esso è un testo breve, ma a differenza del libro di Bach è pervaso da una vena poetica la cui efficacia dipende tuttavia dalla bravura del traduttore. Molte edizioni hanno a fronte il testo in inglese, ma non quella che ho trovato sulla rete e che ho messo a disposizione con un apposito link. Il libro affronta 26 temi ad ognuno dei quali viene dedicato un breve capitolo. Si va dal più noto "... i vostri figli non sono vostri figli ... ", al tema della libertà, dell'amicizia, della bellezza, della preghiera ... Tanti spunti di riflessione, tante considerazioni che possiamo analizzare e approfondire.
"... ed io dico che la vita è davvero oscurità se non c'è slancio,
e ogni slancio è cieco se non c'è conoscenza,
e ogni conoscenza è vana se non c'è attività,
e ogni attività è vuota se non c'è amore;
e quando voi lavorate con amore instaurate un legame con voi stessi, con gli altri, e con Dio."
Gianpietro

24 aprile 2012

TRAVIAN

Sorpresi? Consideratelo un momento di evasione, la ricreazione di metà mattinata a scuola. Vuole anche essere un omaggio al gioco che mi ha consentito di conoscere e stringere amicizia con Maria Maddalena. Si chiama TRAVIAN (non ne conosco l’etimologia) ed è un videogioco di strategia militare per browser di tipo multiplayer approdato dalla Germania in Italia nel 2005. Niente a che vedere con le grafiche cruente della maggior parte dei giochi di guerra. Assomiglia molto ai fumetti di Asterix e prevede un impegno che si protrae per circa un anno prima di completare un server di gioco. Normalmente si gioca in squadre (alleanze) di 40/50 giocatori che contendono uno scacchiere a diverse altre migliaia di appassionati. L’immagine del post documenta il risultato finale, la costruzione della Meraviglia (obiettivo che ogni player vorrebbe raggiungere). Quello dell’immagine è l’ultimo che abbiamo giocato (e vinto) e porta anche le firme di Galla (Maria Maddalena) e di Taranis (Gianpietro). 
Lo ammetto, mi sono divertito vestendo talvolta i panni del saggio che dispensa consigli a giovani apprendisti. Ovviamente, per loro sarò stato solo un vecchio rimbambito, brontolone e sputasentenze. E’ un gioco che consente di interagire e, nel tempo, è possibile capire chi c’è dietro ai nickname. Gli stessi comportamenti di gioco, le reazioni alle strategie adottate, evidenziano in modo chiaro il trasferimento nel mondo virtuale di gran parte dei comportamenti adottati in quello reale. Nasce come passatempo, ma per qualcuno diventa una dipendenza (vero Laura?). Durante il gioco si diventa amici o nemici per la pelle, poi, quando finisce, qualcuno ti dà appuntamento ad un nuovo turno di gioco, come se fossimo i personaggi della canzone di Vasco: "... e poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxi bar, o forse non ci incontreremo mai ognuno a rincorrere i suoi guai ...". Ma se si è fortunati ci si imbatte in persone eccezionali, come Maria Maddalena, appunto. Gianpietro

22 aprile 2012

Come si esce dalla via della crescita illimitata

“Quale che sia il vostro livello intellettuale o emotivo, capire di che cosa potete fare a meno è uno dei mezzi più efficaci per convincervi che siete liberi. […] Proviamo a rinunciare a qualcosa, non per abbellire la nostra vita, ma per ricordare a noi stessi quanto siamo attaccati a questo mondo moderno così com’è, e come potremmo tuttavia farne a meno.”(Illich e Cayley, La corruption du meilleur engendre le pire)
I teorici della decrescita sostengono da tempo che se la società dei consumi ha prodotto inizialmente benessere per molte persone, la sua crescita non sarà illimitata, come non saranno illimitate le risorse del pianeta, che ha continuato a utilizzare, senza alcun senso della misura. Paradossalmente, dall’arricchimento e dal benessere iniziale, si passerà all’impoverimento della maggior parte delle persone, provocando disperazione, miseria e suicidi. Chi è vissuto, finora, con il pensiero che questo destino sarebbe toccato alle generazioni successive oggi viene messo di fronte a questa tragica realtà dalla crisi mondiale, causata dai mercati finanziari, perché il fatto determinante e caratterizzante di questa società della crescita illimitata è che la vita dell’uomo non viene regolata da valori come la felicità, l’amicizia, la solidarietà, il bene comune, ma dall’economia. E’ sotto gli occhi di tutti che è l’economia oggi a orientare le nostre vite e a livello teorico questo era il pensiero sia del capitalismo, ma anche di Marx, che affermò il principio che è “l’economia che muove la storia”, mentre per i teorici della decrescita, come Latouche, Castoriadis, Ivan Illich, Nicholas Georgescu-Roegen, André Gorz, solo per citarne alcuni, le  nostre vite devono essere regolate da altro. Il primo presupposto per la decrescita è l’uscita dalla società dei consumi, ma perché questo non provochi frustrazione, deve essere un atto gioioso e libero. Occorre, allora, osservare come agisce la società dei consumi, per obbligarci a consumare sempre di più e quello che vuole.

Latouche indica tre pilastri del sistema consumistico che sono: la pubblicità, che crea il bisogno di consumare, il credito che fornisce i mezzi per consumare anche a chi non ne ha la possibilità immediata mediante l’indebitamento, l’obsolescenza programmata, che prevede il rinnovamento continuo del prodotto di consumo. La prima domanda che dobbiamo porci sarà dunque: è possibile far fronte in qualche modo all’assalto di questi tre pilastri? Per il credito, penso sia facile: basterebbe acquistare per contanti solo quello che è nelle nostre possibilità e tralasciare il resto. Non è facile restituire carte di credito e bancomat, perché le banche e tutto il sistema cercheranno di rendere la cosa difficile, ma basterà aprire il conto in una banca vicino a casa e scegliere un conto a costo zero per i prelievi. Più difficile evitare la pubblicità, che ormai agisce anche in modo subdolo, senza quasi che ce ne accorgiamo ed entra nelle nostre case, attraverso la televisione, interrompendo programmi, in continuazione. La pubblicità si può solo contrastare non acquistando, per esempio, i prodotti che maggiormente hanno invaso la nostra vita. Sulla obsolescenza programmata, invece, temo si possa fare poco: escono continuamente software che rendono i vari dispositivi obsoleti e bisogna cambiarli. L’unico rimedio, al momento, che ho potuto adottare è stato quello di acquistare un computer di una marca non conosciuta e poco pubblicizzata, che costava un terzo di quello di prima, con le stesse prestazioni e adeguato all’utilizzo che ne dovevo fare. Naturalmente, non è possibile esaurire un argomento tanto importante per la nostra vita personale e sociale con un solo post e vorrei scriverne altri, se ci sarà l’interesse a svilupparlo con i vostri commenti e le vostre esperienze personali. Cristina

15 aprile 2012

Odio e sofferenza


(pag. 44) … aveva giurato vendetta, era pronto a combattere contro lo stormo all’ultimo sangue, E così si accingeva a fabbricarsi il suo piccolo inferno privato … è chiaro che non ami la cattiveria e l’odio, questo no. Ma bisogna esercitarsi a discernere il vero gabbiano, a vedere la bontà che c’è in ognuno, e aiutarli a scoprirla da se stessi, in se stessi.

Non credo esista ostacolo più difficile da superare. Più ancora che giungere ad amare la sofferenza. Questa richiede infatti solo un rapporto con se stessi, nel quale gli altri o sono esclusi o sono anch’essi vittime. Ecco che allora si può elaborarla, comprenderla, accettarla, fino ad amarla per l’opportunità di rinascita interiore che sa offrire. Naturalmente c’è anche chi la legge solo come un nemico da odiare e da combattere e allora ne rimarrà vittima senza coglierne gli aspetti positivi. Amarla non significa ricercarla o non curarla, tutt’altro, ma poiché essa esiste da sempre e può colpire in qualunque momento noi e coloro con i quali ci relazioniamo, ecco che possiamo scegliere tra incolparne la natura (o la divinità), o servircene per compiere un passo avanti nel cammino dell’evoluzione.
Differente è il discorso quando ci poniamo a confronto con il male. In questo caso l’identificazione del male in chi lo compie è, il più delle volte, automatica. È tutt’altro che sottile la distinzione tra le espressioni: “è un criminale” ed “è una persona che ha commesso un crimine”. L’individuo, qualunque individuo, è più delle azioni che compie e finchè il male ci porterà a nutrire solo odio nei suoi confronti, resteremo invischiati del nostro “piccolo inferno privato”. Gianpietro
1994 carestia in Sudan. Il bambino avanza lentamente verso il campo profughi dell'ONU, distante oltre un chilometro, sotto lo sguardo interessato di un avvoltoio. Tre mesi dopo, il fotografo, Kevin Carter, ha vinto il premio Pulitzer grazie a questa immagine. La settimana successiva Carter si è suicidato. Nessuno conosce la sorte del bambino.

12 aprile 2012

Asserzione

(pag. 22) Scegliamo il nostro mondo successivo in base a ciò che apprendiamo in questo. Se non impari nulla, il mondo di poi sarà identico a quello di prima e avrai anche le stesse limitazioni che hai qui.
pag. 23) Il paradiso non è un luogo. Non si trova nello spazio e neanche nel tempo. Il paradiso è essere perfetti.


Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere(Ludwig Wittgenstein - Tractatus Logico-Philosophicus). Se applicassimo alla lettera la “asserzione” del pensatore austriaco avremmo un mondo certamente meno assordante, ma assai poco divertente. E’ pertanto sforzo vano parlare di ciò che non si conosce? Personalmente non credo, una volta riconosciuto e accettato il limite. Le espressioni tratte dal libro di R.Bach vanno quindi prese come ipotesi formulate per calmare l’ansia originata da domande che, diversamente, cadrebbero nel vuoto. Tra le tante teorie sul destino dell’individuo e sullo scopo della vita, annovero quella dell’evoluzione dello spirito (comunemente nota come reincarnazione o metempsicosi) tra le più suggestive e per certi versi “ragionevole”. Ovviamente, per reggere alla prova della ragione, ha alla base un consistente insieme di postulati di fede, e quindi per loro natura indimostrabili. Provo ad elencarne alcuni. Per ogni individuo esisterebbe un’anima (o spirito) immortale. Il corpo sarebbe solo uno strumento preso in prestito alla natura (l’uomo sarebbe stata una delle opzioni possibili, ma non è detto che uno scarafaggio non potesse funzionare ugualmente). Per una qualche ragione l’anima, che è perfetta, si nasconderebbe in un corpo (da lei scelto?) che le sta stretto, pieno di difetti, limitato nelle potenzialità, veramente primitivo nei principi, barbaro direi, e decisamente duro di comprendonio. Il gioco si chiama ritornare al Padre, o espiare un peccato originale (?), o riscoprire la perla, più genericamente, evoluzione. Una specie di gioco dell’oca; in ciascuna casella ci sono le esperienze, gli ostacoli, gli stimoli, gli esempi, degli aiutini, gli studi, gli incontri, le sofferenze, più raramente le gioie, le cadute (se proprio si è zucconi i rimandi al via) e le risalite, a volte perfino i miracoli. Ad ogni progressione dell’anima corrisponderebbe una regressione del corpo. Anima e corpo sono impegnati in una lotta dove il bisogno morale si realizza solo con l’annullamento dei bisogni materiali. I cardini sui quali la natura ha plasmato l’uomo (la difesa, la sopravvivenza, il dominio) diventano i primi nemici dell’anima (Francesco che si spoglia era già sulla buona strada). Se, su queste basi, qualcuno pensa che con la morte fisica tutto sia compiuto, gli do il benvenuto nella lotteria dei 6 numeri su 90 ed una sola giocata a disposizione. E se anche c’è chi dura di più e chi finisce prima, chi vive in salute e chi in malattia, chi dispone degli strumenti e chi nemmeno li conosce, chi si impegna per aiutare e chi per sottomettere, ebbene tutto questo occupa lo spazio, insignificante, di un “amen”. Quali scale utilizzare allora? 1, 100, 1.000, 1.000.000 giri di giostra per ogni anima? e ripetuti per quante anime? E su quanti piani spaziali o temporali? E se il corpo servisse solo per la sgrossatura iniziale (diciamo i primi lanci del dado) e poi il gioco continuasse su dimensioni inimmaginabili? Tante individualità o, in proiezione, la fusione in un’unica amalgama (tante lingue di un’unica fiamma)? E dove si pone l’eternità? E l’infinito? Chi misura il risultato? Chi dice: “così può bastare”?
….
Il paradiso è essere perfetti. Se lo fossi, credo che me ne accorgerei. Ma così non è, non ancora, almeno. Gianpietro

11 aprile 2012

Il rapporto con il corpo

Nel servizio che svolgiamo presso persone che sono ammalate o anziane, ma anche nella vita di ogni giorno, osserviamo, sempre più spesso, come il corpo assuma una rilevanza straordinaria, al punto da dimenticare che esso non è più importante di ciò che si svolge al suo interno o dell’anima di chi lo abita. Ce ne accorgiamo quando, parlando di qualcuno, lo definiamo "il non vedente" o "il claudicante" o "il sordo", assimilando la persona alla sua malattia o a una caratteristica del suo corpo, come quando diciamo "la biondina" o "la mora". Scrive Roberto Assagioli, psichiatra: “Avere un atteggiamento corretto verso il corpo significa assegnargli il giusto posto nella coscienza. Quasi tutti si sentono tutt’uno con esso, si appropriano delle sue condizioni e sensazioni, affermando cose tipo: “Io ho fame, ho sete, io sono stanco”, e faticano o addirittura non riescono a concepire un’esistenza separata, indipendente dal proprio corpo. E’, questo, un materialismo vissuto da cui occorre liberarsi.” Il primo passo per liberarsi da questa identificazione con il corpo è riconoscere che esso è uno strumento prezioso, che va tenuto curato, pulito e ordinato, ma è come una abitazione, che non può essere più importante di chi la abita. Andando a trovare un amico, apprezzeremo il buon gusto con cui avrà arredato la casa, ma anche se gli manca qualcosa o un po’ di muffa rovinerà le pareti, non cambieremo la buona opinione che abbiamo di lui o questo rovinerà la nostra amicizia. E se la casa è la nostra, non ci faremo un problema se incomincia a invecchiare o se qualche elettrodomestico è diventato un po’ obsoleto. E per fare un altro paragone che renda l’idea, non ci interesserà il legno, pregiato o no, di cui è fatta la libreria di casa, perché ben più importanti sono i libri che essa contiene. Cristina

10 aprile 2012

Sulla educazione

Volevo fare alcune considerazioni personali, da non addetta ai lavori, come si usa dire oggi, sui diversi metodi educativi, precisando, comunque, che una vera educazione non può essere ristretta nell’ambito di una categoria soltanto, ma ha, lo stesso, delle caratteristiche salienti, di cui occorre tenere conto. A suo tempo, i miei genitori hanno scelto per me una educazione umanistica. I limiti che ho potuto riscontrare in questo tipo di educazione è che questa sia troppo radicata nel passato, per cui, una volta uscita dalla scuola, mi sono sentita a disagio nel mondo del lavoro, non conoscendo bene la tecnologia, il calcolo e una seconda lingua, della quale avevo studiato soltanto la letteratura antica. Venivo presa in giro dalle colleghe, che, avendo fatto le scuole tecniche, sapevano scrivere a macchina velocemente e senza guardare i tasti, e quando il capo ufficio mi vedeva alla macchina da scrivere, rideva e raccomandava ironico di chiudere le finestre, perché la velocità con cui scrivevo faceva volare i fogli. Per fortuna, dopo qualche anno, venne introdotto il personal computer e con quello ebbi la mia rivincita, perché mi appassionai subito alla novità e questo mi cambiò la vita. Ma anche l’educazione tecnica aveva i suoi limiti, perché era in funzione soltanto di una capacità produttiva e di scopi materiali, perdendo di vista l’uomo e la sua complessità. Quale educazione allora devono dare i genitori? Parlare di una educazione di tipo spirituale genera sempre fraintendimenti, perché la si assimila a una educazione religiosa, di tipo confessionale, mentre invece non è così. Una corretta educazione spirituale aiuta il giovane a uscire dall’ambito ristretto del suo io e della sua razionalità e a sviluppare la compassione e la solidarietà, a ridimensionare la tecnica al ruolo di strumento e non di fine e a rinnovare e contestualizzare i valori antichi di una educazione umanistica, rendendoli appetibili e adeguati al tempo in cui vive. I giovani devono conoscere i problemi che affliggono l’umanità ai nostri giorni e vanno portati nei luoghi del disagio, dai quali oggi vengono tenuti lontano: a frequentare le mense dei poveri, gli ospedali, le case della carità e i campi di lavoro che nel sud vengono allestiti, per dare una opportunità ai giovani e tenerli lontano dalla criminalità organizzata. Solo così i giovani possono apprendere che per i mali e la sofferenza del mondo ci può essere rimedio nella cooperazione e nella solidarietà degli altri uomini. A volte i genitori, lamentandosi semplicemente di come va il mondo, producono solo negatività, limitandosi all’aspetto rivendicativo e perdendo di vista quello costruttivo. E così, nel volontariato, raramente mi capita di vedere giovani: il servizio viene rimandato al tempo in cui si è  liberi dal lavoro, quando non è per niente necessario dedicare molto tempo, perché anche un semplice lavoro, restando in casa, può essere di aiuto per gli altri. Bisognerebbe anche insegnare ai giovani la concentrazione, attraverso la meditazione, o la preghiera, o la ginnastica yoga. Sbagliano, a mio avviso, i genitori che dividono i figli in potenziali credenti e non, perché tutti hanno bisogno della concentrazione, che deriva da momenti di raccoglimento e  non importa tanto quale attività essi desiderino di più praticare in quei momenti, basta che sia adatta ad operare un distacco dalla mente e questo lo può fare anche la semplice lettura di una poesia: la poesia non necessità di comprensione, può essere letta o recitata come un mantra e con senso di abbandono. Ma l’educazione più bella, che possono dare i genitori ai figli, è l’esempio: rinunciando alla autocommiserazione, per vedere la bellezza nella vita di ogni giorno, anche in una vita semplice e frugale, lontano dai consumi e dalle mete che la società moderna impone a tutti e che producono soltanto una felicità falsa e illusoria. Cristina

7 aprile 2012

Omologazione

(pag. 5) “Perché non devi essere un gabbiano come gli altri?”
(pag. 6) “Non scordarti, figliolo, che si vola per mangiare.”
(pag. 8) “Lascia perdere queste stupidaggini … accontentati di quello che sei.”

Cos’altro ci insegnano? Famiglia, scuola, società, ci spingono verso l’omologazione. Fai come fanno gli altri. Se vuoi il successo, il benessere, la considerazione, il potere (cos’altro esiste?)… adeguati, striscia, corrompi, calpesta … Non farti domande, tutto ti è lecito se nessuno ti scopre, ed anche in quel caso nega sempre. Non c’è spazio per i sognatori, non è questo il loro tempo. Disponi di una sola vita e sai che sarà breve. Arraffa fin che puoi, quello che puoi. Solo i fessi si pongono domande, intanto che gli altri godono. La spudoratezza viene eletta a ragion d’essere ed il sentimento della vergogna è cancellato dai dizionari. A squallide marionette, votate a meschini tornaconti, sono demandate le sorti di intere nazioni nel più generale disinteresse e senso di impotenza. Ricordatevi di HannaH Arendt “La banalità del male”: si fa l’abitudine anche al male assoluto. Il giorno nel quale faremo la fine della “rana bollita” ci ricorderemo, se ne avremo il tempo, della prima volta che abbiamo pensato: “Beh, in fin dei conti, che male c’è, e poi lo fanno tutti.” Gianpietro

1 aprile 2012

Lo Stormo

(pag. 4) "E fu data la voce allo Stormo."

Lo Stormo attende la voce della propria guida per dar inizio ad una nuova giornata, che di nuovo non ha proprio nulla, un susseguirsi di voli noiosi alla continua ricerca di cibo. Lo Stormo segue una guida. La mediocrità dello Stormo è dovuta alla guida che si è scelta e che per qualche ragione vuole mantenere lo stormo "ancorato a terra"? Oppure è lo Stormo che si è scelto una guida che lo rappresenta nella sua mediocrità? Se la voce che guida lo Stormo fosse quella di Jonathan le giornate dei gabbiani avrebbero ben altro profilo. Maria Maddalena

28 febbraio 2012

La memoria

"I ragazzi oggi non hanno memoria, e soprattutto non la coltivano, e tu sai che anche Michele non aveva memoria, o meglio non si piegava a respirarla e coltivarla. A coltivare le memorie ci siamo forse ancora tu, tua madre, e io, tu per temperamento, io e forse tua madre per temperamento e perché nella nostra vita presente non c'è nulla che valga i luoghi e gli attimi incontrati lungo il percorso. Mentre io li vivevo o li guardavo, quegli attimi o quei luoghi, essi avevano uno straordinario splendore, ma perché io sapevo che mi sarei curvato a ricordarli."
Così Natalia Ginzburg in “Caro Michele” coglieva il senso di un grande mutamento generazionale e anticipava quella perdita della memoria, individuale e collettiva, che potremmo anche chiamare la perdita del senso della storia, che caratterizza oramai tutto il nostro tempo. I ventenni di allora dovevano liberarsi del passato, per poter costruire un futuro diverso da quello dei genitori e questo era anche abbastanza comprensibile, perché non solo in quel periodo di grandi mutamenti, ma in qualunque periodo della storia, bisogna cercare di preparare un futuro migliore del tempo precedente. Quello che, a mio avviso, è sbagliato è non vedere la storia nella sua continuità, come se venissimo dal nulla, perché in questo modo non si può far altro che andare verso il nulla. Il presente deve per forza includere il passato, senza cancellarlo, senza esaltarlo, senza giudicarlo, ma cercando almeno di conoscerlo. Penso che questa operazione sia molto importante e per questo ho apprezzato il progetto chiamato “Locanda della memoria” di scrivere le biografie dei grandi anziani della nostra città. Ma più in generale penso che ognuno, indipendentemente dall’età, dovrebbe scrivere la propria biografia e, se è possibile, farlo in coppia, per conoscere meglio se stessi e anche l’altro. Credo che sia un buon esercizio che, se svolto correttamente, serve a riconciliarci con il passato e a godere meglio del presente, portandoci all’intima consapevolezza che le vicende del passato, che ci hanno fatto male, non possono più nuocerci, mentre il ricordo delle cose belle, che abbiamo vissuto, continueranno a rallegrarci per sempre. Cristina

27 febbraio 2012

Il buonumore

Il buonumore è stato definito il fratello minore della gioia e non c’è qualità migliore per un volontario. Un’anziana invalida, con alcuni problemi di relazione con la famiglia, mi disse che quando arrivava in casa la volontaria, che le prestava assistenza, le sembrava che entrasse il sole, e questa mi sembra una bella espressione che ci fa immaginare una persona sorridente e positiva, che porta un po’ di conforto e di serenità, dove sono venuti a mancare. Però, se chiediamo alle persone che cosa desiderano di più nella vita, le sentiamo rispondere che desiderano la felicità, ma la felicità sappiamo bene che non può essere uno stato permanente, in questa nostra vita terrena, così piena di conflitti e di insidie, mentre il buonumore, invece, può essere un aspetto della personalità più stabile, perché conosco persone che sono sempre di buonumore, nonostante la vita non abbia risparmiato a loro né dolori né affanni. Uno degli errori più comuni al riguardo penso che sia quello di pensare che si nasca con una determinata predisposizione al buonumore o al suo contrario e che non ci sia nulla da fare per cambiarla. Certamente non veniamo dal nulla e nasciamo o veniamo a contatto, già nei primissimi mesi della nostra infanzia, con elementi che influenzeranno le nostre caratteristiche personali future, ma non si deve pensare che queste caratteristiche non siano modificabili. Ci sono diverse tecniche che aiutano a migliorare il nostro umore, ma credo che tra le più efficaci ci sia l’accentuazione costante degli aspetti buoni delle cose, degli uomini e della vita. Questo non significa certamente non vedere i tanti aspetti negativi presenti nel mondo che ci circonda, che devono essere osservati con atteggiamento lucido e disincanto, per non vivere costantemente nella illusione, ma poi occorre volgere l’attenzione e l’apprezzamento verso quelli positivi. E concludo con questo dialogo in versi, tra San Francesco e un suo frate, della poetessa armena, naturalizzata italiana, Vittoria Aganoor Pompilij, riportato da Roberto Assagioli in "Lo sviluppo trans personale", che descrive bene questo atteggiamento:
“Santo Francesco, un triste parmi udire
fischiar di serpi sotto gli arboscelli”.
“Io non odo che il placido stormire
della pineta e l’inno degli uccelli”.
“Santo Francesco, vien per la silvestre
via, dallo stagno, un alito che pute”.
“Io sento odor di timo e di ginestra,
io bevo di gioia e di salute”.
“Santo Francesco, qui s’affonda, e ormai
vien la sera, e siam lungi dalle celle”.
“Leva gli occhi dal fango, uomo, e vedrai
nei celesti orti rifiorir le stelle”.

Cristina

19 febbraio 2012

Dieci motivi

... per diventare volontari biografi del progetto "La locanda della memoria".

1) La storia della tua comunità non sta scritta solo nei libri di storia o nelle gazzette locali. Esistono anche le verità individuali, tasselli ignoti ai più e destinati a perdersi se nessuno li fissa sulla carta.

2) Andandosene, ognuno porta via con sè una fetta del patrimonio comunitario. Essere l'Omero che ne tramanda le gesta, i pensieri, le emozioni, i ricordi, è privilegio non per tutti.

3) Disporre di una "cassetta degli attrezzi" non ti servirà solo per "raccogliere" la storia di un anziano "fragile/vulnerabile", ma ti aiuterà il giorno che davanti ad uno specchio, vero o immaginario, ti cimenterai con le pagine del tuo diario.

4) Un giorno, forse, anche tu desidererai che qualcuno si sieda di fronte a te, prema il tasto "rec" e ti chieda: "Mi racconta i momenti di svolta della sua vita?"

5) Saremo stati ciò che di noi verrà raccontato. Solo in una foto, in un testo potremo proporre il nostro ricordo, diversamente resteremo in balia della costruzione mentale degli altri.

6) Solo a pochi è concesso di avere una targa che testimoni il contributo dato al vivere comunitario. E' bello che a qualcuno venga offerta la possibilità di lasciare la propria testimonianza.

7) Poter dire: "Questo è ciò che tuo/a nonno/a ha raccontato di sè e del suo tempo. Questo testo è parte della sua eredità, leggendolo potrai rinsaldare il legame con la famiglia alla quale appartieni".

8) Chi ha già fatto questa esperienza può dirti quanto sia stata piacevole, coinvolgente, istruttiva. Prova a collocarla nella scala delle tue priorità.

9) Partecipare al corso di formazione, di alto livello, è gratuito; tranne la buona volontà e la curiosità, non sono richiesti prerequisiti (scolastici o sociali); l'assistenza tecnica e organizzativa è garantita.

10) Se non lo fai adesso, potresti non avere un'altra opportunità.

Gianpietro

Il risveglio dell'anima

Accade anche nella vita di una persona comune, talvolta in seguito a una serie di delusioni o la perdita di una persona, ma talvolta senza una causa apparente, anche in mezzo al benessere e alla fortuna, di provare una vaga inquietudine, un senso di insoddisfazione e di mancanza, ma non mancanza di qualcosa di concreto, ma di qualcosa di vago, che si è incapaci di definire. Così descrive questo stato dell'anima un grande scrittore, Lev Nikolàevič Tolstòj, nelle sue Confessioni:
“Ciò accadeva in un momento in cui, sotto tutti gli aspetti, avevo ciò che è considerato come la felicità completa. Non avevo ancora cinquant’anni, avevo una moglie amante e amata, dei bambini buoni, un gran possedimento che, senza alcuna mia fatica, si allargava e prosperava; ero più che mai rispettato dai miei parenti e dalle mie conoscenze; gli estranei mi colmavano di elogi e, senza falsa vanità, potevo credere che il mio nome fosse celebre. […] In tale stato giunsi a non poter più vivere e, avendo paura della morte, dovetti usare degli artifizi verso me stesso per non togliermi la vita”.
Certamente non sempre questo momento di crisi esistenziale appare in modo tanto drammatico nella vita delle persone: dipende dalla sensibilità, che è diversa per ogni persona, e da tanti altri fattori legati alla personalità, ma per molti si tratta di quel fenomeno che viene chiamato notte dell’anima e che è semplicemente un messaggio che ci avverte che la nostra vita materiale si è scollata, per tante ragioni, diverse per ognuno di noi, dalla vita spirituale, che erroneamente si pensa presente solo in chi ha fede, ma è latente in ogni uomo e, a un certo punto della nostra maturità psichica, chiede solo di venire attivata. Quante risposte sbagliate che diamo a questa richiesta, la più sbagliata è certamente il suicidio, perché questo avviene il più delle volte perché l’uomo ha paura di questa improvvisa libertà a cui l’anima aspira naturalmente e invece noi l’abbiamo soffocata con tutte le costruzioni immaginabili possibili, tranne quelle necessarie al suo respiro. Cristina

18 febbraio 2012

Sulla morale

Non c’è parola che la mia generazione abbia detestato di più della morale, assimilandola al moralismo dei benpensanti e a un passato del quale ci si doveva liberare, per un futuro di libertà, pace e giustizia. Certamente, oggi, godiamo di una maggiore libertà morale, ma penso che forse abbiamo ancora le idee un po’ confuse al riguardo. Alcuni pensano che la morale sia il rispetto della legge, dimenticando che non potrà mai essere una maggioranza di governo a stabilire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ma deve essere la coscienza, come d’altra parte sosteneva Thoreau, nel suo trattato “Disobbedienza civile”: la legge va rispettata, ma se è ingiusta e contraria alla coscienza, bisogna fare di tutto per cambiarla. Altri pensano, invece, che la morale alla quale devono attenersi sia solo quella della loro coscienza. Ma in questo modo le cose si complicano, perché è chiaro che se gli uomini devono stare insieme, bisognerà mettersi d’accordo, perché la morale di uno può essere diversa da quella di un altro e le due morali possono entrare in conflitto tra loro. Nella storia del pensiero, c’è stato allora chi ha separato la morale, definendola individuale, dall’etica, come insieme dei costumi e delle usanze che gli uomini decidono insieme, per andare d’accordo. Ma è chiaro che anche morale individuale e morale comune devono per forza trovare un equilibrio, altrimenti si avrebbero degli individui schizofrenici e nevrotici. Penso dunque che anche nella morale, come per la libertà, occorra stabilire una gerarchia. La morale più alta ha sede nella coscienza dell’individuo e non può che essere libera e rivolta al suo bene e alla sua felicità. A un livello inferiore, c’è la morale comune, che è comunque regolata da quella superiore, ma della quale quella superiore dovrà necessariamente tenere conto. Cristina

17 febbraio 2012

La semplicità

“Essere semplici non è la partenza ma l’arrivo. […] Perché la semplicità è la semplificazione del complesso: non precede ma segue l’articolata analisi dell’età adulta, con la sua capacità di introspezione, di valutazione, di critica, di opzioni scaltrite, di indagini acute, di elaborati processi logici e di complicati itinerari psicologici. […] Non si può saltare il salvifico bagno nel complesso.” Così scrive la teologa Adriana Zarri, nel suo bellissimo libro “Un eremo non è un guscio di lumaca”, mettendo in guardia a non confondere la semplicità, che è un valore, con il semplicismo, che è ignoranza e superficialità. Il vangelo ci dice che dobbiamo diventare come i bambini, ma anche qui la Zarri spiega che non dice che dobbiamo “restare” come bambini, perché in altri punti lo stesso vangelo dice che bisogna crescere e diventare adulti, ma “diventare” come bambini, distinguendo l’infanzia degli anni, che è elementarità, infantilismo, semplicismo, dall’infanzia del regno, che viene dopo e raggiunge la semplicità nell’età adulta: punto di arrivo, dopo quello che chiama il "salvifico bagno nel complesso". Appare chiaro, anche a prescindere da un discorso di fede, che il cammino della nostra esistenza non può che tendere all’unità. L’essere umano è complesso e agisce, pensa e sente a diversi livelli e se tra questi livelli c’è conflitto, sente disagio e sofferenza, se c’è equilibrio, si sente sereno e rappacificato. Per questo è importante tenere presente che siamo in cammino verso la semplicità, che è unità, ma non monismo, bensì sintesi che include pluralità e movimento. Può accadere che per tutta la vita non si senta il bisogno di uscire dall’infanzia e si possa restare felici e contenti in questo stadio infantile e semplicistico. Poi, però, può succedere qualcosa, che ci mette di fronte la complessità dell’esistenza, e ci troviamo confusi e rischiamo di perderci e di lasciarci prendere dall’angoscia. Questo blog nasce da un corso di scrittura, che hanno fatto i volontari, proprio perché la scrittura aiuta a mettere in ordine i pensieri, necessità urgente per chi si trova, a un certo punto della vita, accanto alla sofferenza e alla morte, altrimenti tutte le emozioni negative che nascono da questa esperienza rischiano di vagare a lungo nell'inconscio, procurando solo danni. E’ importante ricordare questo, altrimenti tutti questi discorsi che facciamo o che leggiamo in questo blog rischiano di restare un vuoto esercizio di intellettualismo, fine a se stesso, e perciò completamente inutile. Cristina

16 febbraio 2012

Locanda della Memoria

Progetto LA LOCANDA DELLA MEMORIA
4^ Edizione 2012
uno spazio per scrivere di sè e far comunità locale


Vuoi diventare volontario biografo?
Raccogliere la storia di vita di un anziano è un modo originale ed efficace di allargare le relazioni, di contrastare l’isolamento e di condividere l’emozione della vita vissuta. Iscriviti (gratuitamente) al corso di formazione per imparare l’arte della scrittura autobiografica e per scrivere la storia di un anziano. Nelle biblioteche di Reggio Emilia già ci sono biografie che sono patrimonio della comunità. Vuoi contribuire anche tu? Hai un amico a cui può interessare e che puoi coinvolgere?
Ti aspettiamo.

(nel pannello in alto a destra trovi pubblicate in versione pdf le biografie realizzate nelle precedenti edizioni)

per maggiori informazioni chiama entro il 10 marzo 2012:
Annamaria Avanzini  - 338 6078545
Gianpietro Bevivino  - 340 6660401

La comprensione

Sappiamo bene che non possiamo fare a meno dell’amore e che dall’amore nascono la vita e la gioia di viverla, ma spesso ci troviamo in difficoltà quando vogliamo cercare di capire di che cosa sia fatto. L’amore è un assoluto, emanazione del divino, e credo che per questo dobbiamo accontentarci di un avvicinamento per approssimazione, per cui tutta la nostra vita non può che essere un cammino verso questo assoluto, che ci unisce al tutto, mettendo in conto cadute e regressioni per il nostro egoismo, qualità questa pure necessaria alla sopravvivenza, a patto di non superare i limiti necessari. Tornando a una definizione dell’amore, io penso che, anche se non siamo capaci di definirlo, perché, essendo un assoluto, trascende la ristrettezza delle nostre categorie umane, possiamo però arrivare, almeno, a descriverne le qualità. La qualità principale è per me la comprensione. La definizione che ho trovato sul mio dizionario di questa parola, però, non mi soddisfa, perché dice, tra i diversi significati, che è la capacità di intendere e giustificare sul piano pratico o di afferrare e valutare una cosa sul piano intellettivo. Io penso che sia qualcosa di più e che riguardi soprattutto una sfera superiore a quella intellettiva, dove ha sede l’intuizione. D’altra parte, se deve essere una qualità dell’amore, non può che essere spirituale. Sviluppata, invece, a un livello più basso, ci porta a giustificare il comportamento dell’altro, ma una simile comprensione non può che continuare a portare l’altro verso il basso, reiterando un eventuale comportamento sbagliato. Prendiamo, per esempio, la comprensione di una madre per un figlio che perde continuamente il lavoro, che si droga e procura guai a tutta la famiglia. La comprensione, in questo caso, dovrebbe essere un trampolino di lancio per il giovane che, seppure a fatica, acquisisce un senso di responsabilità tale, e non solo per sé, ma anche per gli altri, che gli stanno intorno, che lo spinge a rigenerare tutta quanta la sua vita. Se, invece, è una comprensione che si limita a giustificare il suo comportamento, non riuscirà mai a trovare in se stesso la creatività e le risorse per cambiare. Così penso che sia tra due innamorati. Si dice, a volte, che l’amore sia cieco. Credo, al contrario, che l’amore possa essere veggente e lungimirante e, anche in questo caso, la comprensione non dovrebbe giustificare un comportamento egoistico dell’altro, ma dovrebbe essere la fiamma che incendia il cuore dell’altro e lo porta, spontaneamente, a volere il bene della persona che ama. Un altro aspetto, a mio avviso, fuorviante della comprensione, oltre alla giustificazione di un comportamento sbagliato, è il consiglio. Si pensa di capire l’altro e per questo gli si offre un progetto di vita pre confezionato, sulla base del nostro: la vera comprensione, invece, è generosa e disinteressata, e lascia sempre libero chi la dà e chi la riceve. Cristina

11 febbraio 2012

Il gabbiano Jonathan Livingston

Più di tre ani fa ci eravamo cimentati, Cristina ed io, nella condivisione di alcuni brevi testi letterari. L'avevamo chiamato "book club". Scelto il libro(mettendolo, ove possibile, on-line) si commentavano, con post appositamente etichettati, la parti ritenute più stimolanti. Nell'elenco delle"etichette" potete recuperare "Oscar e la dama in rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt, "Il piccolo principe" di Antoine DeSaint-Exupéry, "Ritratto di un amico" di Natalia Ginzburg. Ho rintracciato sul web i testi integrali di due libri che mi sono molto cari avendomi accompagnato, più di trent'anni fa, in un percorso (uno dei tanti) di rivisitazione dell'esistenza. Vi propongo per primo il breve testo di Richard Bach "Il gabbiano Jonathan Livingston" (nei links utili trovate la versione pdf). La semplicità della struttura e la presa immediata di molte espressioni (definirle insegnamenti sarebbe eccessivo) ne hanno garantito il successo e la larghissima presa sul pubblico dei lettori. Gli spunti di riflessione non mancano, basta sorvolare sullo stile e sullo spessore narrativo. D'altronde, non sempre complessità è sinonimo di chiarezza. Vi auguro buona (ri)lettura dandovi appuntamento tra un po' di tempo per i primi post. Mi piacerebbe che mantenessero l'impostazione grafica data al "book club" (numero di pagina - citazione - commento). Gianpietro
(ps: il secondo titolo? abbiate pazienza, ne parleremo più avanti)

Walden

“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.” La celebre frase di Thoreau mi risuona dentro in questi giorni in cui molte case e paesi sono diventati dei piccoli Walden, isolati dal mondo e, nello stesso tempo, una grande occasione per tutti, per guardare meglio in noi stessi e vedere che cosa siamo diventati, perché, spesso, di questo non ce ne accorgiamo nemmeno. Ho saputo di persone che si sono date da fare per portare cibo e medicine a chi stava lontano e non poteva muoversi; altri, invece, se ne stanno ancora rintanati in casa ad aspettare che torni il sole e piuttosto che prendere in mano una pala, per spalare la neve, morirebbero di stenti e d’inerzia. Poi, ci sono quelli come me, che il primo giorno in cui è venuto a nevicare si sono rigirati nel letto e hanno continuato a dormire, perché abituati da sempre ad avere qualcuno che provvede per loro. Il secondo giorno, però, mi sono accorta che per me non provvede più nessuno, perché tutti quelli che lo facevano, adesso, non ci sono più, e così, ben coperta e attrezzata, ho cominciato a spalare la neve che dal garage mi impediva di uscire con la macchina e mi sono accorta che un po’ di sano esercizio, ogni tanto, può anche fare bene. Il giorno dopo ancora, ho fatto un giro di telefonate ad amici e parenti che sono anziani, ma questi, previdenti, sapendo che sarebbe venuta la neve, avevano già fatto scorta di tutti i generi di prima necessità ed erano a posto.


La frase che ho citato all’inizio vuole dire certamente di più, ma è urgente che il nostro contatto con la natura torni a essere equilibrato e non ci possiamo permettere di essere così fragili o così sprovveduti da non mettere in conto una nevicata invernale. Cristina 

10 febbraio 2012

La vita significativa

Una parte dei volontari di Emmaus si dedica alla assistenza degli ammalati oncologici dell'hospice. In quel contesto, viene naturale interrogarsi sulla morte, ma, soprattutto, sul senso della vita, perché è inutile chiedersi che senso abbia la morte, se ancora non abbiamo capito quello della nostra vita. “Uno dei principali fattori che ci aiuterà a restare calmi e tranquilli al momento della morte è la maniera in cui abbiamo vissuto le nostre vite. […] Se la nostra vita quotidiana è in qualche modo positiva e significativa, quando arriverà la fine, anche se non la desideriamo, la accetteremo come una parte della nostra esistenza. Non avremo rimpianti. Vi potreste chiedere a questo punto che cosa si intenda, quando pensiamo di rendere la vita quotidiana significativa.” Questo parole sono del Dalai Lama e sono contenute nel libro “La via della liberazione”. Non conosco molto bene il buddismo, ma quello che conosco mi piace. Quello che apprezzo è soprattutto il tipo di insegnamento pratico che chiunque può seguire, indipendentemente dal credo e dai convincimenti personali. E’ una spiritualità che prima di tutto vuole aiutare l’uomo a liberare la sua vita dalla sofferenza e non perde tempo a giustificarla né a cercarla. Ma vediamo allora come si può fare a dare un senso alla nostra vita secondo il buddismo, che dice che abbiamo ottenuto una vita preziosa, sotto la forma di essere umano, ma ne disponiamo senza conoscerne il valore. Il primo insegnamento è quello di riconoscere che in noi agiscono istinti buoni, come l'empatia, la compassione, la solidarietà, che dobbiamo coltivare, come se fossero dei fiori o degli alberi, e istinti cattivi, come la rabbia, la vendetta, l'invidia, che provocano sofferenza soprattutto a chi li prova, che bisogna evitare, e per farlo occorre sviluppare delle tecniche, visualizzando, per esempio, i nostri tratti del volto, quando siamo arrabbiati, e così, possiamo vedere come diventano brutti, mentre quelli delle persone buone e serene sono distesi e scaldano il cuore, perché una delle proprietà dell'amore è che irradia la sua luce tutto intorno. Per fare questo, occorre dedicare del tempo alla meditazione, che per noi occidentali potrebbe essere la preghiera o semplicemente nutrire pensieri amorevoli verso quelli che soffrono e che spesso non possiamo aiutare perché distanti o al di sopra delle nostre forze. La vita moderna, purtroppo, ha ridotto se non annullato questo tempo, tanto che vediamo che anche monaci e sacerdoti dedicano molta parte della loro giornata alle attività pratiche, ma, per loro stessa ammissione, poco tempo, invece, alla preghiera e allo studio. “Il momento in cui sarete liberi da tutti gli impegni – dice il Dalai Lama – non arriverà mai, per questo ogni giorno dovete trovare il tempo per praticare. Dovete svegliarvi un po’ prima e cercare di trovare una o due ore nella mattinata per meditare. […] Generalmente, quando le persone invecchiano soffrono della vecchiaia e della malattia e la loro memoria si indebolisce. Ma appare evidente che la mente della gente che studia e medita in gioventù conserva freschezza e si mantiene attiva e agile anche nella vecchiaia.” A un gradino successivo, sta il pentimento per le nostre cattive azioni, che dobbiamo sempre purificare ammettendole, senza nasconderle e, nello stesso tempo, dobbiamo incominciare a rallegrarci per i meriti degli altri. Osservo, infatti, che molto spesso la gente è impegnata a giudicare e a criticare gli altri, ma questa cosa produce solo una grande negatività su tutti quelli che ci stanno intorno. Naturalmente gli insegnamenti del buddismo per rendere la vita più significativa e apprezzarne il valore sono tanti e non è possibile in questo spazio elencarli tutti, ma io penso che anche se ci limitassimo solo a questi, la nostra vita cambierebbe in meglio. Cristina

9 febbraio 2012

Sulla libertà

Sulle pagine di questo blog, il problema della libertà torna spesso, anche se per inciso, perché non c’è situazione o quasi che non ci metta di fronte alla domanda se siamo esseri liberi e responsabili o non lo siamo affatto. Certamente, se pretendiamo di rispondere a questa domanda con un sì o con un no non possiamo fare altro che constatare che la risposta è negativa; ma dobbiamo anche riconoscere che la vita è un fenomeno troppo complesso per ammettere una tale rigidità di pensiero e allora è opportuno pensare alla libertà come a un concetto fatto di mille sfumature o gradi. Il pensiero moderno sembra ormai tutto orientato a ritenere che nell'uomo esistano diversi livelli (spirituale, psichico, biologico) e che la sua felicità dipenda da una relazione armoniosa tra loro, mentre il conflitto tra questi provoca sofferenza. Appare dunque evidente che ognuno di questi livelli è regolato da leggi diverse e che per ognuno ci sia per l'uomo una diversa libertà di scelta. Il livello più alto di libertà è quello spirituale e questa è la libertà del santo, dell’eroe e del saggio. Più in basso, più vicino all'uomo, c'è il mondo morale, con il quale comunque la libertà spirituale non è in conflitto, perché ogni libertà superiore include e non esclude la libertà del mondo inferiore, dal quale non è separabile, perché non siamo puri spiriti. Gesù e i primi martiri cristiani si sarebbero comportati ugualmente bene se, invece di andare incontro alla morte, avessero colto l'occasione per scappare dalla loro prigionia e avessero continuato il loro insegnamento fuori dal paese in cui erano stati resi prigionieri. Scelsero invece la vittoria sul loro istinto di auto conservazione e camminarono incontro alla morte del corpo fisico. A un livello più basso del mondo morale, c’è il mondo biologico, con i suoi istinti e le sue pulsioni, che hanno anch’essi la loro importanza, per cui una legge morale troppo rigida che imponesse, per esempio, la castità o togliesse all’uomo la possibilità di auto determinare quando è ora per lui di morire, sarebbe assurda. Il discorso sulla libertà non si esaurisce certamente qui e queste sono solo alcune riflessioni, per cercare di dare una risposta alla domanda iniziale che avevo posto sulla relazione tra felicità e responsabilità, perché è chiaro che il discorso della felicità è strettamente legato a quello della libertà, senza la quale l’uomo non può essere felice. Cristina

8 febbraio 2012

Nel silenzio

Un tema che mi è molto caro è il silenzio, ma del silenzio lascio parlare poeti e scrittori, che hanno saputo trovare le parole giuste, per evocare questa dimensione interiore così vicina al sublime.
Osho Rajneesh
…Nel silenzio
diventa come una canna
di bambù, cava, vuota dentro:
e appena sarai diventato
come una canna di bambù e
avrai fatto il vuoto dentro di
te, ecco, le labbra divine ti
si accosteranno e la canzone
divina avrà inizio”
(P.Andrea Scnhöeller “La via del Silenzio” ed. Appunti di viaggio)
Vivekananda
“Siediti ai bordi dell’aurora,
per te sorgerà il sole.
Siediti ai bordi della notte,
per te scintilleranno le stelle.
Siediti ai bordi del torrente,
per te canterà l’usignolo.
Siediti ai bordi del silenzio,
e Dio ti parlerà.
Entrare in se stessi, fare
silenzio, restare in attesa…”
Tiziano Terzani

“Il silenzio lassù era un suono.
Un simbolo dell’armonia
dei contrari a cui aspiravo?...
La voce di Dio? La musica
delle sfere?....Senza silenzio
non c’è parola. Non c’è
musica. Senza silenzio non
si sente. Solo nel silenzio è
possibile tornare in sintonia
con se stessi…”
(Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” Ed.Longanesi)

Etty Hillesum
“Mi siedo in silenzio
e mi riposo in me stessa,
e questo lo chiamo riposarmi
in Dio”
(Etty Hillesum “Diario 42/43” Ed.Adelphi)

Swami Paramananda 
“La perla di
gran valore è nascosta profondamente;
come un pescatore
di perle, anima mia, tuffati,
tuffati nel profondo, e cerca,
cerca senza stancarti…”


Cristina

7 febbraio 2012

La rinuncia

I mistici come S. Giovanni della Croce dicevano che non bisognava possedere niente, per potere avere tutto, e così, la rinuncia ai beni terreni, che non durano, è sempre stata un requisito importante per chi aveva invece fame e sete di assoluto. Ma l’educazione alla rinuncia è stato anche un punto fermo della educazione laica, almeno fino alla prima metà del secolo scorso. Si narra che a Montaigne, nato in una nobile famiglia di mercanti nel ‘500, il padre offrisse un'educazione secondo i principi dell'umanesimo e che venisse inviato, per questo, a balia in un povero villaggio, perché si abituasse “al modo di vivere più umile e comune”. La nostra generazione è invece cresciuta nella illusione, alimentata da una società dei consumi, che deve continuamente produrre nuovi bisogni, per poter sopravvivere economicamente, che si potesse avere tutto. Abbiamo dovuto invece imparare, a nostre spese, che tutto non si può avere e ci si è posti così il problema della scelta consapevole. Rinunciare ai figli o alla carriera? Rinunciare a una vocazione che poteva portarci lontano da casa o al matrimonio? Qualunque fosse la decisione, però, abbiamo avuto la libertà della scelta e questo, rispetto alle generazioni precedenti, che non l’hanno avuta, è stato un progresso, anche se forse non ci ha procurato la felicità. Il giornalista Enzo Biagi diceva che un tempo c’erano scelte obbligate, ma qualche volta capitava di essere più felici di oggi, anche se all’uomo sembra ora essere concesso tutto per il raggiungimento della sua felicità. Nasce allora la domanda se la rinuncia sia un valore oppure soltanto una necessità. Io tendo a pensare che la rinuncia sia un valore a patto di sapere, però, a cosa vogliamo rinunciare e quale ne sia il vantaggio, perché una rinuncia fine a se stessa, o vantaggiosa solo per un ipotetico aldilà, non avrebbe certamente molto senso. D’altra parte, il desiderio è tra gli elementi dinamici della personalità che muovono in avanti la nostra vita, senza i quali non ci sarebbe per noi nessuna crescita, e quindi non va rimosso, né represso. Ma se analizzassimo bene i nostri desideri, scopriremmo che la maggior parte di essi non nascono nell’intimo del nostro essere, ma vengono indotti dall’esterno. Ecco allora la sofferenza e la frustrazione di non poter appagare questi desideri, che però non sono i nostri. Occorre allora ritirarsi nell’intimo più profondo del nostro essere e liberarci il più possibile dalle influenze esterne, per trovare quello che veramente desideriamo e vogliamo e concentrarci solo su quello, per farlo diventare realtà. Nel rapporto, però, che abbiamo con persone che soffrono una situazione di disagio e di privazione di beni materiali, non possiamo certamente metterci a disquisire intorno a quello di cui pensiamo potrebbero fare senza, perché sarebbe come mettere addosso agli altri pesi che noi stessi non siamo in grado di sopportare o, se li sopportiamo, è perché abbiamo compiuto un certo percorso, che non è detto che loro abbiano voglia di fare. In molti casi, poi, i veri educatori sono proprio quelli che sono riusciti a realizzare la loro felicità e i loro sogni, pur essendo privi di ciò che a noi, un tempo, sembrava invece indispensabile. Cristina

5 febbraio 2012

La ricompensa di un grazie

Nel post “La ricompensa”, del 2 febbraio, Cristina si chiede (e ci chiede) se “procederemmo in questo cammino di solidarietà se non esistesse davvero nessuna ricompensa al nostro impegno” e nel farlo accomuna il “servizio” individuale alla “organizzazione” di riferimento che necessita di risorse economiche per la sua sussistenza. Mi permetto di dissentire. Premesso che si può svolgere attività di volontariato anche senza aderire ad una organizzazione, il farne parte tuttavia porta evidenti vantaggi sia per il volontario che per i destinatari (non credo sia il caso di farne un elenco in questa sede). Limitandoci a considerare solo gli enti che operano con correttezza e nel rispetto, sia delle norme di legge, che dei principi di solidarietà, più complessa è l’organizzazione più consistenti sono i bisogni di natura economica. Si va dagli affitti, alle spese telefoniche, ai premi assicurativi, ai costi di stampa, agli onorari dei professionisti esterni; componenti di costo che sono già tipiche di piccole associazioni come EmmauS, fino a strutture transnazionali quali Medici senza frontiere o Emergency con gli impegni logistici, immobiliari e professionali che si possono immaginare. In tutti i casi si tratta di attività che implicano l’impiego di denaro e questo si ottiene da quote associative, da donazioni, da finanziamenti pubblici e da contributi volontari. L’importante è che nulla di questo flusso di denaro, che può raggiungere anche valori significativi, costituisca fonte di lucro, o venga distratto dalle finalità per le quali è stato raccolto. Si, certo, le associazioni di volontariato ottengono somme di denaro e queste saranno tanto maggiori quanto più meritorio sarà il servizio svolto. Ma questa non è una “forma di ricompensa”, qui siamo di fronte a “sostegni all’attività” senza i quali l’organizzazione non potrebbe nemmeno far fronte agli obblighi di legge. O dobbiamo pretendere che i fornitori di servizi si attivino gratuitamente se il richiedente è una associazione di volontariato? Partecipare alla vita delle associazioni, curandone l’organizzazione e garantendone la trasparenza è meritorio al pari del servizio svolto sul campo. Vi si può essere portati o meno, in ogni caso non credo proprio che possa costituire "ostacolo all’espansione delle coscienze". Il volontario può essere soggetto alla tentazione di ricevere (rifiuto l’idea che possa pretenderla) una ricompensa, ma questa potrà venire dall’attività sul campo, non certo dall’interno dell’organizzazione di appartenenza. Ho assemblato sul post di Cristina l’immagine del bilancio di EmmauS con quella della confezione di marmellata. Il primo ha consistenza monetaria, il secondo è fatto di affetto e di riconoscenza. Rifiutare la confettura (se non sollecitata e se non diviene abitudine) non è sinonimo di gratuità, ma solo di maleducazione. Seguo da anni un gruppo di ragazzi in una attività di teatro/danza e a fine corso realizziamo uno spettacolo che portiamo in scena laddove ci viene richiesto. L’estate scorsa siamo andati a rappresentarlo in un quartiere di Bologna. Al termine la regista voleva che accettassi una quota del compenso ricevuto dall’amministrazione comunale organizzatrice “a titolo di rimborso spese”, “non ho avuto spese, sono venuto sul mezzo della comunità”, “si ma hai impegnato il pomeriggio e la serata”, “è il tempo che ho deciso di mettere a disposizione del gruppo e per quello non esiste una tariffa”. Fine della tentazione. Ma la vera tentazione, subdola perché siamo noi stessi a sollecitarla sta nel sentirsi “più bravi degli altri”, nell'avvertire l’orgoglio che cresce dentro, fino a farci disprezzare chi non si impegna nel sociale. Questa si che va riconosciuta e combattuta perché se siamo arrivati a quel punto vuol dire che non c’è più amore in ciò che facciamo e se manca l’amore viene meno l’unica fonte di soddisfazione che è concessa al volontario. Se vogliamo parlare di vera gratuità dobbiamo fare riferimento, non tanto al denaro che, lo ripeto, non può entrare in gioco, quanto al piacere di sentirsi dire un grazie, all’aspettativa di un apprezzamento per il servizio svolto. Si tratta di tentazioni? Si, certo, e non vanno ricercate. Ma anche un bel voto o un complimento ogni tanto rappresentano per lo studente un viatico per meglio affrontare le difficoltà (e tutti noi sappiamo quanto siano facili da incontrare nel nostro servizio). L’importante è il grazie che ci nasce dentro, ma accettare la ricompensa di un grazie che ci viene dall’esterno può essere segno di umiltà, così come il respingerlo o il rifuggirlo può significare superbia. Gianpietro