Il capitolo sul lavoro de “Il Profeta” è molto bello dal
punto di vista teorico, perché mostra che in ogni mestiere, anche quello umile
del panettiere, ci può essere poesia, se svolto con amore e, se manca questa
qualità, persino il pane verrebbe male. Ma gli antichi dicevano anche che prima
bisogna vivere e poi fare della filosofia e leggendo la biografia dell’autore
di questo libro si scopre che c’è della verità e del buon senso anche in questa
affermazione. Gibran potè studiare, scrivere, dare vita a riviste e
associazioni culturali, pur provenendo da una famiglia economicamente disagiata,
solo perché ci fu chi lo mantenne, a cominciare dalla madre, con il suo lavoro
di merciaia, poi, quando la madre morì, la sorella, con il suo lavoro di
sartina, e per finire un'anziana amante, Mary Haskell, che finanziò la maggior
parte delle sue iniziative. Nessuno scrittore riuscì mai a mantenersi con il
proprio lavoro e fu principalmente per questo motivo che gli scrittori un tempo, o prevenivano da famiglie facoltose, oppure dovevano lavorare, svolgendo
mestieri modesti, che non potevano certamente amare, come Pessoa e anche altri.
Ci provò Proust a lavorare come bibliotecario o archivista, ma credo che non
durò nemmeno un mese. Ma sarebbe certamente bello, non riuscendo a lavorare con
gioia, vivere accettando la elemosina di chi con gioia, invece, lavora. Ma io
credo che sia esattamente il contrario: che qualcuno possa lavorare con gioia,
solo perché c’è chi, lavorando con disgusto, finanzia il suo lavoro. E non
dobbiamo pensare per forza male, alludendo a corrotti e parassiti. Penso a chi
lavora nella ricerca, con passione, dedicando a essa tutta la vita. Molto spesso lo può fare perché ci sono contribuenti, non sempre così felici di farlo né di lavorare,
che lo sostengono. Allora questo capitolo lo modificherei sostanzialmente
dicendo che, dovendo lavorare, cercheremo di essere almeno responsabili del nostro
lavoro e di farlo bene, cercheremo anche di essere sempre gentili con tutti,
sorridendo al mattino, quando entriamo al lavoro, anche quando non avremmo
nessuna voglia di farlo. Cristina
1 commento:
A scuola, alle superiori, la prima cosa che mi sono detto è stata: “Per i prossimi cinque anni (se ti va bene), che ti piaccia o no, passerai tutte le mattinate dentro una classe. Vedi di fartelo piacere, sfrutta quelle ore più che puoi e ne spenderai di meno per studiare a casa. L’alternativa è sprecare le mattinate avvelenandoti l’anima rimpiangendo alternative impossibili. Decidi tu cosa ti conviene.”
Questo stesso ragionamento può valere per il lavoro. Anche se oggi tutti l’invocano, e averlo sembra essere diventato un lusso, in realtà, nella maggioranza dei casi, lavorare è esclusivamente sinonimo di paga. Ti vendo il mio tempo in cambio di denaro (immediato e differito). Pochi amano ciò che fanno ed anche chi ha una posizione dirigente, al denaro aggiunge, come obiettivo, il potere. E quello che può sembrare lavorare con piacere è solo espressione del godimento che deriva dal suo esercizio.
Credo anch’io che Gibran metta molta enfasi nel decantare il lavoro; un aspetto che nella vita ha forse conosciuto solo marginalmente. Ma questo non significa che solo chi è sposato ha titolo per fare il consulente matrimoniale.
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