27 settembre 2008

Le famiglie infelici

"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo". Così comincia il romanzo di Lev Tolstoi, "Anna Karenina". Un volontario, che conosco da molto tempo, mi ha chiesto di sostituirlo, temporaneamente, nel servizio a domicilio. Mi aveva già parlato di questa famiglia dove, al problema già grave di un ammalato in casa, si è aggiunto quello di un familiare, sul quale grava maggiormente il carico dell'assistenza, che è diventato aggressivo, e sfoga tutta la sua rabbia e frustrazione sull'ammalato che dovrebbe curare. Questa situazione dura ormai da molti anni, ma non c'è nulla da fare, perché gli episodi di violenza avvengono sempre in assenza di testimoni. I sociologi riferiscono che ci sono oggi tre fasce sociali: una alta, che ha le risorse materiali e le idee in testa per risolvere da sola i suoi problemi; una bassa, che vive un disagio visibile e riconosciuto, che viene presa in carico dai servizi sociali; una terza, che sta in mezzo, di cui non si occupa nessuno, o chi se ne occupa lo fa parzialmente. Penso che le famiglie, che hanno un ammalato grave in casa, dovrebbero ricevere, in modo continuativo, l'aiuto di uno psicologo a domicilio, perché sono certa che, con un supporto adeguato, anche una situazione difficile come la malattia, potrebbe essere vissuta con una certa serenità. Cristina

25 settembre 2008

oltre l'opportunità

In questi anni di volontariato ho partecipato ad un progetto di “danzability” che ha messo insieme ballerini professionisti e ragazzi diversamente abili, ospiti di alcune comunità reggiane. L’esperienza, stimolante e molto coinvolgente, ha attraversato varie fasi con picchi di entusiasmo ed altrettanti abissi di delusione. Gioie e rabbie si sono mescolate senza che, a volte, ne fosse chiara la causa. Leggendo il testo di un’intervista fatta proprio a quei ragazzi ed ai loro accompagnatori, apparsa qualche mese fa sulla stampa locale, mi sono soffermato a riflettere su alcune affermazioni:
“… vogliamo diventare una compagnia di danza a tutti gli effetti ed essere inseriti in un circuito di assoluta normalità …” Come questa, diverse altre espressioni sembravano finalizzate a valorizzare l’impegno dei danzatori a prescindere (Totò mi perseguita!) dall’handicap, spesso evidente, nel timore che la propria esibizione venga sostenuta dal pubblico solo per non rischiare di apparire cinici. Il pietismo esiste nonostante i maldestri tentativi di nasconderlo, difficile liberarsene e su questo tema la loro sensibilità ha antenne lunghe e perfettamente funzionanti.
“Non volevamo che fosse solo un’opportunità per gli ospiti” sostiene un accompagnatore. La danza vista come diversivo alla monotonia del quotidiano; l’uscita col pulmino; un paio d’ore di svago; la promessa di un gelato al rientro se ci si è ben comportati. Una terapia differente, che nessun medico ha prescritto ed i cui risultati nessuno potrà avvalorare. Una medicina assunta su base volontaria, dato che più d’uno di quelli che si erano cimentati sul parquet ha poi scelto di non continuare, o di limitare l’impegno. Ad altri invece è mancato lo spazio, le chiamate in pista sempre più diradate, si faceva tappezzeria. Per quelli che vogliono continuare questa è una “opportunità” che mantiene ancora intatte tutte le sue potenzialità. Va quindi sfruttata, incentivata, applicata a quanti più “ospiti” possibile. Per contro, l’auspicata trasformazione in spettacolo teatrale e competizione sportiva, dovrebbe salvaguardare il gioco, il dilettantismo di chi usa la danza ad integrazione della terapia personale. Credo che attorno a questi magnifici ragazzi vada stesa una rete protettiva, fatta di chiarezza, sia dei ruoli, che delle attese. Auspico venga creata un’organizzazione affidabile, dotata di ambienti, mezzi e risorse economiche adeguate, al cui interno ognuno conosca il proprio compito e rispetti quello degli altri. Fatto questo, l’esercizio più difficile sarà allora quello di respingere la tentazione che, al superamento della dicotomia abile/disabile, si sostituisca la selezione tra danzatori diversamente abili di prima serie e di seconda serie. Gianpietro

23 settembre 2008

Un tu che mi viene incontro

Mi era stata chiesta la disponibilità per un servizio straordinario all’hospice, in occasione di un evento speciale. La giornata era stata molto intensa, per il grande afflusso di gente e la sera, per la stanchezza, avevo dovuto chiedere ad un carissimo amico di rinviare l’appuntamento che avevo con lui. Mi rispose con un messaggio durissimo, e da allora non ha più voluto vedermi. L’amico importante, buono, paziente, che sapeva ascoltare, capire, condividere i miei interessi, si è rivelato un despota inflessibile. Nel libro che lo rese famoso, “Ich und Du”, che l’italiano traduce, in modo abbastanza incomprensibile, con “Il sistema dialogico”, Martin Buber sostiene che l’uomo nasce nella relazione, ma che di questa ne esistono due tipi, che corrispondono a due parole e due atteggiamenti diversi. La prima è la relazione Io-Esso, ed è l’esperienza con un oggetto, che si può possedere, e del quale si conoscono esattamente la forma e le caratteristiche. Questa relazione ci dà la stabilità, la sicurezza, ma è un’esperienza frammentaria: se mi concentro su un oggetto, per esempio il bicchiere sul tavolo, non ho la visione dell’intera stanza. La seconda relazione è Io-Tu, ed ogni incontro con il Tu è un incontro totale, ma questa relazione non ha stabilità, infatti ne facciamo altre. Le due relazioni non sono organizzabili, si intersecano, scolorano di continuo l’una nell’altra: da una dipende la stabilità, dall’altra la felicità. Nella relazione Io-Esso, il mistero è fonte di angoscia, nella relazione Io-Tu, il mistero è fonte di gioia. Io penso che oggi siamo tutti meno disponibili a questa relazione con un Tu che ci viene incontro, e questo lo si percepisce soprattutto nella paura che abbiamo degli stranieri, che ci danno angoscia, perché non riusciamo a prevederne il comportamento: siamo tutti profondamente insicuri, e preferiamo la sicurezza di un rapporto che, alla fine, diventa una prigione. Cristina

22 settembre 2008

neanche un lembo di pelle

Avevo dieci anni e tutte le mattine venivo in treno da Bagnolo alle scuole medie di Reggio in via Malta. Passando per piazza Prampolini entravo spesso in Duomo e mi ricordo che quell’inverno c’era sempre una vecchietta accovacciata accanto alla porta che chiedeva l’elemosina. Non avevo soldi con me, però ogni volta ci guardavamo sorridendo. Una mattina mi fa segno di avvicinarmi e mi chiede di andare nel bar e prenderle un bicchiere di latte caldo. Rovista nella scodella che ha accanto ai piedi e mi allunga le poche monete che servono. Mentre attraverso la piazza ho l’impressione che da dietro alle vetrate, non solo del bar, ma di tutte le case intorno, migliaia di facce mi stiano osservando incuriosite. “Un bicchiere di latte caldo per quella signora là. Grazie” ed indico il sagrato della chiesa. “E’ per tua nonna, bambino?”, “Mia nonna? Oh no!”, poi mentre esco, mi volto e dico a tutti i presenti: “E’ solo una mia zia”.

Una sera di circa quarant’anni fa, terminato un corso di informatica, camminavo per le vie di Roma in attesa di trovare un buon ristorante. Ad un tratto vedo un giovane in carrozzina che, agendo sui cerchioni fissati all’esterno delle ruote, sembra procedere a fatica lungo la strada in leggera pendenza. Lo seguo per un tratto osservandone l’aspetto trasandato, i capelli lunghi, la barba incolta ed i lineamenti spigolosi, marcati da chiari segni di sporcizia sul viso e sulle braccia scoperte. Le mani calzano dei mezzi guanti sbrindellati e lerci. Fissati alla carrozzina diversi pacchi che sembrano sul punto di scivolare tra le ruote. L’apparenza è di un ragazzo forte e alto, che io leggo come un disabile diseredato e che potrei aiutare, quantomeno a superare quel tratto di strada. Ci penso a lungo, poi lo avvicino e prendo saldamente i manubri della carrozzina borbottando qualcosa come: “Scusi, posso aiutarla?”. Lui si divincola senza voltarsi neppure, dà uno strappo alle ruote e si stacca, allontanandosi imprecando. Avverto vampate di caldo al viso ed un tremore per tutto il corpo. Lo raggiungo e lo affianco: “Guardi che volevo solo darle una mano, nient’altro”. Agitando minaccioso le mani guantate mi snocciola una serie di epiteti e si allontana con energiche bracciate, sempre inveendo. Pieno di vergogna e di rabbia mi guardo attorno, ma l’indifferenza è totale. Una bottiglia di ottimo vino ed una cena che ne bastava per due, non sono valsi a riassorbire un malessere che mi sono tenuto dentro per diverso tempo.

Ho raccontato questi due episodi pensando allo stereotipo del bisognoso, che noi vorremmo anonimo, immediatamente identificabile, ma che di se stesso non mostra neanche un lembo di pelle, solo la richiesta di aiuto, in modo evidente, tanto ostentata quanto impersonale. Ma così è troppo facile.

Gianpietro

21 settembre 2008

Il mendicante

Tempo fa, un'amica mi raccontò che un giorno, mentre passeggiava con il marito, in una via del centro storico di Roma, vide un signore molto distinto, con tanto di sciarpa e cappotto di cammello, andare loro incontro e, tendendo la mano, chiedere l'elemosina. Stupito, il marito incominciò a chiedergli come mai, per quali circostanze, cause o imprevisti, si trovasse in quella situazione, e perché chiedesse dei soldi. L'uomo rispose soltanto: "Perché ne ho bisogno". Questa risposta mi viene sempre in mente quando, di fronte ad una richiesta di aiuto, che presupporrebbe solo un si oppure un no, divaghiamo, perdendoci in considerazioni superflue e, talvolta, anche un po' meschine. La domenica, per il silenzio che c'è nella strada e nella casa dove abito, mi piace dormire fino all'ultimo minuto e, così, finisco sempre, come questa mattina, per arrivare trafelata e di corsa dalla famiglia, da cui sono attesa per il servizio di EmmauS. Entrando in casa, racconto, ridendo, un espisodio al quale ho assistito venendo qua, e che mi ha divertito, ma mi fermo subito, fulminata dalle occhiate severe, che tutti mi lanciano. Il marito, con grandi gesti delle mani, mi fa segno di abbassare la voce e, venendomi vicino, mi sussurra all'orecchio che il figlio, questa notte, ha fatto le ore piccole con gli amici, e se lo svegliamo potrebbe arrabbiarsi. Mi metto a preparare la colazione, stizzita. Dopo un po', però, mi passa, e mi vergogno anche del mio malumore, perché, in fondo, se vengo in questa casa, non è perché chi vi abita è perfetto, ma perché ne ha bisogno. Cristina

18 settembre 2008

perchè lo faccio?

Non doveva essere un nuovo post, ma il commento a “Le domande inutili”. Ho optato per questa soluzione per dare maggiore visibilità ad alcune considerazioni sul “perché lo faccio?”, tema centrale della riflessione di Cristina, sia in riferimento al servizio, che alla costruzione del blog. E se anche queste cadranno nel vuoto, pazienza. Con riferimento al servizio le motivazioni possono essere di ordine etico, o estetico. Le prime si richiamano al dovere, alla morale, al senso civico, alla dottrina religiosa; le seconde hanno a che fare con il piacere, la gratificazione, la pace interiore, l’amore. Cristina dice: “il greco mi piaceva più di tutte le altre materie”. Quale risposta migliore di quel “mi piace farlo” per motivare il proprio servizio? Nessuno ci costringe, anche se saper dire di no implica coraggio. Nel “mi piace farlo” ci stanno anche i momenti di noia, di stanchezza, di tristezza, di insofferenza, a volte. Situazioni contingenti che vanno messe in conto ed accettate, magari calandosi sul viso una maschera perché l’altro non ne resti turbato. Anche la fedeltà al blog deve avere alla base il piacere, ma se “quasi nessuno legge” è assimilabile al prestare il servizio in assenza dell’assistito, ecco che allora subentra l’impegno verso se stessi al “limite delle proprie (e le tue sono tutt’altro che scarse) capacità”, ricercando la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità ed io aggiungo la sincerità e la passione, perché ad essere “under construction” non è solo questo blog, ma la nostra mente. Gianpietro

17 settembre 2008

Le domande inutili

Sono ormai dieci anni che vado per il servizio dalla stessa persona, e ancora mi chiede perché lo faccio. Questa è una delle domande a cui non so dare una risposta, e che mi sembrano sempre abbastanza inutili. Quando andavo a scuola, mi piaceva, più di tutte le altre materie, il greco, e ancora adesso, se prendo in mano un testo in greco antico, non riesco a trattenermi dall’impararlo a memoria o tradurlo: ma alla domanda, che tutti mi hanno sempre fatto, a cosa serva imparare il greco, proprio non so rispondere. Anche questo blog, che quasi nessuno legge, mi impegna abbastanza, perché, nei limiti delle mie scarse capacità, cerco di osservare le regole della buona scrittura: la leggerezza, che contrasti il peso della materia che siamo costretti a trattare, la rapidità, perché chi legge non si annoi, la esattezza, perché le citazioni siano corrette, la visibilità, perché si prenda coscienza di problemi non marginali, la molteplicità, perché il discorso non si consideri mai concluso. Eppure, se un giorno qualcuno, per caso, o semplicemente per curiosità, dovesse accedere a questo blog, sono certa che la sua prima domanda sarebbe: “Ma perché lo fa?”. Cristina

La lettera

La tecnologia ha sempre avuto su di me un grande fascino. Ricordo ancora il primo PC e un sistema informativo arcaico, chiamato DOS, che mi dava così tanti problemi, che tutti mi dicevano di lasciar perdere, e che avrei fatto prima a svolgere il lavoro manualmente; ma io saltavo il pranzo, e mi accanivo ancora di più. Da allora, non esiste problema al quale io non cerchi di dare una soluzione, sfruttando la tecnologia. Quando ho conosciuto la persona da cui vado per il servizio EmmauS, le ho subito proposto delle soluzioni, che lei, ogni volta, fermamente respinge. Non ha quasi voce, e molti mi hanno detto che non riescono più a comprendere quello che dice; un sintetizzatore vocale, collegato ad un computer, con una tastiera visiva, credo che aiuterebbe. Lei però dice che, se smette di parlare, perderà la voce per sempre. La muscolatura non ha più tono, e occorre sistemarle ripetutamente l’assetto; operazione che sarebbe più agevole con una carrozzina attrezzata a questo scopo; ma lei sostiene che questo ridurrebbe, ancor di più, quella minima capacità di controllo sul corpo che le resta. Alla fine, penso che abbia ragione lei: la tecnologia va bene, ma deve andare di pari passo con la nostra capacità di comprenderla, altrimenti il rischio è quello di esserne usati e sopraffatti. Ho ricevuto una bella lettera, scritta a mano, con affetto, da una persona molto colta, che però non sembra usare il computer, almeno per la corrispondenza. Io ricevo sulle quindicimila e-mail all’anno, e ci si aspetta che a molte di queste risponda anche, essendo questo il mio lavoro. Ma una lettera scritta a mano, credo che non saprei più scriverla, abituata come sono a scrivere cose facilmente cancellabili, con un click del mouse: parole che possono sparire in un momento, e che non resteranno nella memoria e nel cuore di nessuno. Cristina

14 settembre 2008

ubriachi, umani, guerrieri

Tutti gli umani evolvono,
nel tempo.
Per brevi vite intanto vagano da ubriachi.
Legato a un Punto inutile,
l’ubriaco aggroviglia matasse di cui ha perso i capi.
Non pianti, non rimorsi, non ansie, non aneliti, non sguardi,
non speranze,
l’ubriaco ondeggia in bilico tra l’esser belva od umano.
Lo guida l’ignoranza, lo spinge la disperazione,
altre voci non ode, né potrebbe.
L’ubriaco vede solo ciò che le sue mani contengono,
possiede solo ciò che le sue mani toccano,
desidera solo ciò che altre mani gli mostrano,
distrugge tutto ciò che le sue mani non conoscono.

L’ubriaco ama il suo stato e lo difende da tutto,
delle conseguenze non si cura,
la sua sola meta è esserci fino a sera.
Dell’umano ha tutto
fuor che la consapevolezza.
Il lieve muover dell’ago segna passaggi nei due sensi.
Nessuna condizione è stabile, nessuna scelta definitiva.
Quante altre sofferenze graveranno il fardello di quell’anima
prima che la bilancia rompa l’equilibrio!
Della Casa del Padre occupa la cantina
e la condizione lo aggrada.
Non ha specchi interiori ed il suo sguardo
riflette muri imbiancati.
Possiede trenta denari e sa come spenderli.


La storia risuona dei suoi strepiti
e il rumore rimbomba nella stanza
senza che l’eco varchi la parete.
L’ubriaco si ciba di se stesso
ed il passato gli è giustificazione
per nulla imparare.
In lui si compiace il maligno
che marca l’anima al proprio impero.
Ma la coscienza del suo stato
porterà lo spirito a ricercare nuove opportunità.
Nulla è per caso,
e i suoi denari non sono stati spesi invano.

Tra la moltitudine di ubriachi
talvolta l’umano apre una breccia,
e se ancora non geme sotto il peso di sè,
pure ne sente il giogo.
Fieri proponimenti, ampie promesse, solenni impegni,
s’infrangono davanti a
brevi attese, risultati non visti, la cura di ogni giorno.
Chiare visioni, momenti di conoscenza, prime certezze,
lasciano il passo a
ritorni dell’io, insidie del corpo, debolezze della mente.
Paziente è l’Uno,
ma questo non ti consoli,
ubriaco od umano che tu sia.
Se di non aver mai saputo, dir non potrai,
tua sarà la tromba nel dies irae.


Solo pochi rinascono già guerrieri,
nel tempo prevale l’umano.
E se i loro sentieri, già tracciati, s’incrociano,
è per altre mete.
Una stalla senza finestre è il giaciglio dell’umano,
l’acre odore della terra impregna il guscio
e nasconde la perla.
Il guerriero si è fatto cieco per vedere attraverso il muro,
ha chiuso le narici per sentire altri odori,
ha voluto esser sordo per udire.
Il guerriero non tocca, né si lascia toccare.
L’umano geme e strepita,
il guerriero è sceso in picchiata tra le nubi.
L’umano conta e accumula,
il guerriero è divenuto ricco spogliandosi.

Il guerriero e l’umano convivono,
ma non abitano la stessa casa.
Il passato dell’uno è il solo legame con il presente dell’altro.
L’umano è dentro le stanze,
il guerriero ha già varcato la soglia.
Il guerriero possiede armi che nessun umano sa costruire.
Egli ama combattere perché il suo nemico è l’inedia
ed egli ha scelto.
L’umano verrà vomitato perché l’attesa è spreco
e per quanto impegno metta a profumare l’esistenza,
ogni giorno che passa
il lezzo della morte ne impregna le carni.
Il guerriero spande luce attorno a sé
perché ad ogni scoria che toglie
attinge sempre più alla luce della perla.

La sua luce è tagliente
come lama che egli non controlla né dirige.
Entrambi hanno fame e sete,
ma il cibo e l’acqua avvelenano l’umano
rendendolo insaziabile.
Le parole di vita danno forza al guerriero
e turbano i sonni dei suoi nemici.
Chi oserà sfidare il guerriero?
Nessuno sale sul suo campo di battaglia.
E’ facile ucciderlo,
impossibile vincerlo.

Talvolta un umano incontra un guerriero.
Tanti sono gli aiuti,
tante le occasioni per squarciare il velo.
Le voci urlano nei timpani per arrivare al cuore,
le immagini trapassano lo sguardo
e s’inchiodano al cervello.
Le ferite della carne ripuliscono da vermi, terra e sterco.
Perché allora tanta ignavia resiste ancora?
Guerrieri nascosti e astuti s’insinuano nei pensieri,
tra le pieghe dei giorni,
nel vuoto di cui si riempie l’umano
e lanciano strali dolorosi e crudeli
che s’infrangono sulla terra
intaccandone appena la crosta.
Talvolta un guerriero,
nel percorrere le sue battaglie,
attraversa il sentiero di un umano e,
senza nulla perdere,
lascia che brandelli di luce scalfiscano timpani sordi
e stacchino immagini da pareti dimenticate.

Talvolta un umano studia per diventare guerriero.
Egli ha tante scuole ove andare
e tanti maestri vengono a lui.
Taluni sono guerrieri.
Che egli lo sappia poco importa
perché sentirà la lama aprirgli ferite profonde.
Urlerà vedendosi amputare le membra infette
finchè, con gioia,
rinnegherà suo padre e sua madre.
Sarà il rancore del mondo a dare il giusto voto all’allievo.
Da ogni pianta prenderà allora un frutto,
ma non dovrà fermarsi,
perché nessuna verità sarà l’ultima.
L’umano ha più di un modo per diventare guerriero,
e Ovunque è un buon posto per trasformarsi
e camminare su una Retta via,
purché vi sia silenzio.

Gianpietro

13 settembre 2008

i nostri saperi

Nel percorso di formazione 2008 rivolto ai nuovi volontari è prevista una “tavola rotonda” dal titolo “i nostri saperi: competenze e caratteristiche del servizio EmmauS” alla quale parteciperemo (al momento) Laura Morellini ed io. Più che di tavola rotonda direi che si tratterà di una chiacchierata a due stante le defezioni intervenute a vario titolo. In attesa di eventuali input sui temi da sviluppare, ho riletto i testi degli interventi effettuati nei corsi del 2005 e 2006. Mi sono sembrati quanto mai attuali. I temi che ho trattato (e che qui sintetizzo) hanno riguardato:
i limiti - l’inquadramento dell’attività del volontario entro i binari fissati da una organizzazione comporta la definizione degli ambiti, delle regole e delle responsabilità. E’ facile che il nuovo volontario si faccia prendere dalla fretta di scendere in campo, sia per superare la paura del primo impatto, sia per soddisfare il proprio ego con un segno tangibile di onnipotenza. E’ da mettere in conto l’ansia di far sapere in giro che si va ad assistere un anziano o un disabile sentendosi già al livello del missionario votato agli altri. Non mi pare superfluo allora rammentare che entrare in una casa per due ore la settimana significava soprattutto restarne fuori per altre 166, impegnando così una percentuale del proprio tempo pari all’ 1,2%. Un rendimento inferiore ai tassi di mercato di qualunque strumento finanziario, anche di basso profilo.
la capacità di adattamento – il volontario teme di dover dare prova di quanto vale per poter essere accettato. Nella pratica invece si trovano ambienti molto aperti, accoglienti e che non richiedono forzature. Ciò, tuttavia, non esclude l’esperienza del rifiuto. Ogni nucleo familiare ha una storia a noi non nota e vive su equilibri talvolta molto delicati. L’unico atteggiamento che ci è concesso è di umiltà e di accettazione. Non si può inoltre escludere a priori che si manifestino delle forme di gelosia, delle ritorsioni per disponibilità negate. Possiamo sentirci rinfacciare di riversare sull’assistito le attenzioni che non prestiamo nel nostro ambito familiare. Non sempre infine la domanda formalmente espressa corrisponde all’effettivo bisogno latente. Si tratta in questo caso di limiti legati alle aspettative, talvolta divergenti, tra l’assistito ed i suoi familiari. Per il volontario l’ancoraggio al compito offre tranquillità, ma occorre avere fantasia e la disponibilità ad attuare modifiche in corso d’opera, cercando di valorizzare le potenzialità residue del nostro assistito.
la comunicazione – è possibile che aspettative e disponibilità non si incontrino ponendoci in una situazione altalenante tra il sentirsi inadeguati, o del tutto sprecati. Talvolta le aspettative non saranno immediatamente riconoscibili per la difficoltà ad esplicitarle, causa anche l’indisponibilità di strumenti di comunicazione omogenei. In questo caso occorre essere consapevoli della diversità, senza farla pesare. Non va modificato il piano della relazione, né va preteso il riscontro di un attraversamento di campo.
andare oltre il ruolo – il rapporto che si instaura presso la persona assistita tende, col tempo, a toccare le corde della familiarità, finendo con il portare il volontario su di un terreno sul quale sente di volersi addentrare, in quanto persona fatta di sentimenti e di emozioni, ma che richiede di essere gestito e coordinato dall’organizzazione che ci rappresenta e della quale, in quel momento, siamo portavoce.
gratuità – dando per scontato che il volontario non deve essere retribuito per il servizio che fornisce (lo prevede lo statuto e lo impone l’etica), va detto che la gratuità non si esaurisce nel rifiuto di un corrispettivo economico, ma include le stesse aspettative di gratificazione del volontario. Rifiutare l’assaggio di una fetta di torta, o il vasetto di marmellata fatta in casa, non significa mostrarsi disinteressati, ma solo maleducati. Occorre tuttavia porre attenzione a non trasformare certe piccole attenzioni in un fatto dovuto e continuativo, poiché si finirebbe con l’innestare un meccanismo dal quale risulterebbe poi difficile uscirne. Ma la gratuità significa soprattutto accettare di sentirsi male al termine del servizio, quando invece ci si aspettava di uscirne ricaricati. Va messa in conto la possibilità di non avere il ritorno atteso, ed anzi provare delusione e rancore verso una scelta che sembra mostrarsi inadeguata. Gratuità, significa soprattutto non aspettarsi un grazie, un elogio, una citazione.
modestia – permea tutti gli aspetti sin qui citati ed implica la capacità di donare sapendosi adattare alla situazione prospettata, con tutta l’umiltà della quale si è capaci, con la modestia di chi sa di non sapere e nella consapevolezza che non si ha né il diritto, né il titolo per imporre la propria presenza, o le proprie convinzioni. Può succedere infatti che il volontario venga visto come il tecnico dal quale ci si aspetta la soluzione dei problemi. anche di natura medica. Occorre ricordare che un nostro parere, un: “… per me farei …“, oppure: “… io la vedo così …” può essere letto come il consiglio di un esperto. Questo non è il nostro ruolo. Occorre molta cautela ed umiltà, consapevoli che durante quelle poche ore siamo degli ospiti, disponibili, ma educati, rispettosi e che sanno adattarsi alle esigenze della casa che ci accoglie.
Pur con queste attenzioni, non dobbiamo avere timore a dare, dare e dare.
“Scegli la strada che nel cuore è scritta,
seguila e in fondo poni la tua vita.
Vesti umiltà e di speranza scarpe.
E d’ogni giorno fai che sia preghiera.”

Gianpietro

Le stelle

In una bella lectio sul Salmo 8, che Franco Mosconi, monaco camaldolese, ha tenuto per i volontari, operatori e familiari degli ammalati oncologici gravi, si parla di Davide, che il re Saul ha già tentato tante volte di far fuori. Ad un certo punto, Davide, braccato, tradito dal re, dalle sue guardie, fugge, correndo, nel deserto di Giuda e, a un certo momento, cade la notte. Davide si ferma, si sente solo, il nemico ha perso le sue tracce, tuttavia è ancora pieno di spavento, di paura, ha perso la fiducia nel re, ha quasi l'impressione che Dio l'abbia abbandonato. Si trova solo nel freddo del deserto, nella notte. Ed ecco, che in questo momento alza gli occhi e vede il cielo sopra di sé. Vede queste stelle meravigliose che stupiscono, con una chiarezza, con una limpidità che quasi trafiggono gli occhi. E Davide incomincia a pensare: "Come è grande Dio, come è immenso. O Signore, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra". Di fronte a questa visione com'è piccola la mia vicenda! Io mi sono fatto importante, ho creduto di essere qualcuno e ora tutta la mia fortuna è andata a rotoli. Che cosa sono io di fronte a questo immenso universo, di fronte a questo tempo senza fine di Dio, di fronte a queste ricchezze sterminate che le dita di Dio hanno intessuto nella volta del cielo? Di fronte a questo spettacolo, incomincia a capire la sua vicenda, che può anche ridimensionare. E mentre Davide si immerge in questa contemplazione, si placa gradualmente, dimentica i suoi affanni, dimentica il suo passato e si perde in questo sguardo, e ad un certo momento pensa: "Io sono amato da Dio. In fondo, tutto questo universo è per me. Dio si ricorda di me. Dio non può dimenticarmi, Dio mi visita".
Sono in attesa dell'esito di una biopsia che hanno fatto a mia madre, e sulla base di questo risultato si dovrà prendere una decisione molto importante. E' notte, guardo il cielo, ma nelle nostre città le stelle ormai non si vedono più da molto tempo. Cristina

10 settembre 2008

Haiku





“Tornando a vederli/i fiori di ciliegio, la sera,/son divenuti frutti.” (Yosa Buson).
Della cultura giapponese, mi piace più di tutto l’haiku, un componimento breve, di tre righe, diciassette sillabe, privo di titolo, che racchiude tutto l’amore di questa cultura per il minimalismo, l’essenzialità e la compattezza: un verso, un attimo di vita. Mi hanno chiesto di accompagnare fuori, in giardino, un ammalato sulla sedia a rotelle, mentre gli riordinano la stanza. E’ un coetaneo, con il quale giocavo da piccola, e che non ho più rivisto da allora. Ha conservato i lineamenti del viso che aveva da bambino. In mezzo c’è stata tutta una vita, di cui non so nulla, ma che questa sera mi sembra, più che mai, un soffio. Cristina

9 settembre 2008

Viaggio a Kandahar

Nafas è una giovane donna afgana, fuggita dal suo Paese durante la guerra civile dei Taliban e rifugiatasi in Canada, dove lavora come giornalista, impegnata nell'ambito sociale e nella rivendicazione dei diritti delle donne. In una lettera disperata, la sua sorellina, priva di gambe, per lo scoppio di una mina, e rimasta a casa in Afghanistan, comunica a Nafas di voler togliersi la vita prima dell'eclisse di sole, l'ultima del secolo, che sta per verificarsi. La donna decide di fare ritorno a Kandahar per salvare a tutti i costi la sorella. Ieri sera ho visto per la prima volta questo film, che mi ha colpito, oltre che per l’impegno del regista di far conoscere la condizione di miseria di questo popolo dimenticato da tutti, per l'idea del viaggio, faticosissimo, che intraprende chi accorre al grido di aiuto di qualcuno. Sono ormai dieci anni che una mia giovane cugina manifesta la volontà di uccidersi, senza peraltro averne il coraggio. All'inizio della sua depressione, aveva chiesto l'accompagnamento di un volontario ad una associazione, che non ha potuto aiutarla, perché quella dove abitava non rientrava nelle zone di sua competenza. A me aveva chiesto l’aiuto per trovare un lavoro, che io non sono riuscita a trovare. I medici, con cure che lei sostiene non appropriate, hanno peggiorato la sua situazione. Adesso, non vuole più vedere nessuno, nemmeno i parenti, e noi ci siamo arresi. Questo film mi ha ricordato che ci sono tante persone al mondo che non si arrendono mai, come la protagonista del film. Nella realtà, però, la vera Nafas, non è mai riuscita ad entrare in Afghanistan. E anche la nostra vita va sempre avanti così, come possiamo, tra utopia e realtà. Cristina

8 settembre 2008

I pensieri maligni

La mia famiglia ha sempre avuto una visione molto disincantata della realtà, esprimendo spesso giudizi negativi su situazioni e persone, anche in assenza di prove concrete. La considerazione che i fatti abbiano, qualche volta, dato loro ragione, non attenua l’irritazione che continuo a provare nei confronti di un simile atteggiamento. Anche nel servizio, mi capita spesso di incontrare persone che pensano male di medici, infermieri, associazioni, volontari, vicini di casa e dei loro stessi familiari. Io preferisco dare fiducia alle persone, perché questo, a volte, è l’unico atteggiamento che riesce a ottenere qualche risultato. Per lavoro, mi occupo, tra le altre cose, di qualità del prodotto, e trattandosi di prodotti abbastanza costosi, non è raro che, in presenza di danni dovuti in modo inconfutabile a cattivo uso, i clienti attribuiscano la responsabilità al costruttore. Io li ascolto sempre come se avessero ragione, e succede abbastanza spesso che, smorzata la aggressività iniziale, diventino più ragionevoli, riconoscendo, alla fine, la loro responsabilità. Cristina

5 settembre 2008

Il senso della vita

Nella rubrica “Lettere al Corriere” di ieri (4/9) un lettore scrive: “… il 90% delle persone non sa perché vive, lavora, procrea e muore e non sa neanche di non saperlo. Il 9% crede di saperlo, i religiosi in positivo e gli atei in negativo. Lo 0,9% non lo sa e sa di non saperlo, ci pensa e ripensa freddamente e “professionalmente”, sono i filosofi e gli agnostici. Infine ci sono io che non lo so, so di non saperlo, mi angoscio, mi dispero e non riesco a capire tutti gli altri, che comunque mandano avanti questo assurdo mondo senza senso. Perché?” Gli risponde Sergio Romano: “Credo che il quadro da lei dipinto sia verosimile. Ma non posso rispondere alla sua domanda. Posso soltanto suggerirle, pragmaticamente, di unirsi a una delle categorie descritte nella sua lettera. Si sentirà meno solo.” Nel Corriere di oggi un lettore torna sull’argomento per dire: “… Ho avuto anch’io periodi nei quali non conoscevo, ma ricercavo, il senso della vita. Ora non ho la risposta ma vorrei dare un piccolo consiglio che con me ha funzionato e sta funzionando: meglio non pensarci troppo, e godersi il presente.” Si tratta, ovviamente, di un campione d’indagine assolutamente privo di valenza statistica (al pari delle percentuali citate), tuttavia la tiratura del quotidiano fa si che diverse migliaia di persone possono essersi confrontate con quelle parole. Concetti grossolani, ma che sembrano avere quale unico sbocco l'invito ad abbandonare qualunque velleità di ricerca esterna, accettando per contro la condizione dell’esistere come un dato di fatto regolato dalle leggi della Natura. Vana pertanto ogni forma di speculazione che non sia rivolta a favorire la scoperta e lo sviluppo della propria virtù, il “demone” individuale che i greci assegnavano a ciascun individuo, ed alla cui valorizzazione e potenziamento dedicare ogni energia per il tempo che ci è concesso. Gianpietro

3 settembre 2008

Erica, la speranza

Il servizio che svolgo all’hospice è un po’ diverso da quello a domicilio, e consiste principalmente nell’accoglienza dei visitatori. Anche se può sembrare strano, succede abbastanza spesso che i familiari degli ospiti di questa casa continuino, anche in seguito, a tornare di tanto in tanto. Questo ci fa conoscere le loro storie, e vedere come, a volte, gli avvenimenti della vita si ricompongono in un modo che, quando eravamo nel dolore, mai avremmo pensato. Erica è una sgambettante bimbetta, nata un anno esatto dalla morte della sorella di cui porta il nome. Erica grande, una diciannovenne dalla incontenibile gioia di vivere, nei giorni in cui non stava bene, se ne stava sdraiata con il cucciolo di Labrador, che le era stato permesso tenere in stanza, accucciato ai piedi del suo letto; ma non appena stava meglio, si faceva portare in paese per una passeggiata e tornava, da quelle brevi esplorazioni, felice, come chi torna da un viaggio meraviglioso. Io penso che un po’ di quella gioia di vivere l’abbia trasmessa ai genitori dando loro la forza di concepire una nuova vita. Il poeta francese Charles Péguy, in un poema interamente dedicato alla speranza, scrive: “Tirata, appesa alle braccia delle sue sorelle più grandi (fede e carità ndr), che la tengono per mano, la piccola speranza avanza. E in mezzo alle due sorelle grandi ha l’aria di farsi tirare.Come una bimba che non avesse la forza di camminare. In realtà è lei che fa camminare le altre due” (da Il portico del mistero della seconda virtù). Cristina

2 settembre 2008

Saper dire di no

Guardo sgomenta la pila degli indumenti da stirare e sento arrivare, inarrestabili, le lacrime. Stirare non è tra le mansioni del volontario, ma nella casa in cui vado, le necessità sono così tante che, all'occorrenza, svolgo volentieri anche qualche piccolo lavoro domestico. Questa volta però, la stanchezza accumulata negli ultimi tempi si fa sentire tutta in un colpo, e capisco che è arrivato il momento di rinunciare a qualcosa. Passo mentalmente in rassegna tutte le mie attività e sento che il servizio EmmauS è quello più sacrificabile: anche se non ci siamo mai incontrati, so che i volontari che vengono in questa casa sono cinque, molti di più di quelli che l’associazione offre normalmente agli ammalati che prende in carico. Inoltre, la malattia di mia madre costituisce un buon motivo per rinunciare a questo impegno. Mentre stiro, preparo il discorso da fare a questa famiglia per spiegare che non verrò più. Con molta cautela, espongo la situazione, ma prima ancora di arrivare alla fine del discorso, così accuratamente preparato, vedo gli occhi della signora riempirsi di lacrime, e allora mi viene in mente la monaca di Monza, quando si trovò al momento di dire un no, inaspettato, o un sì tante volte detto, e lei disse sì e “fu monaca per sempre”. Con prontezza, devio il discorso assicurando tutti che l'intenzione era solo quella di avvertirli che, in caso di necessità, avrei potuto essere costretta a sospendere temporaneamente il servizio, ma per il momento, non c'è motivo di pensare a questo. Cristina

1 settembre 2008

Dialogo

Ho ascoltato, nel corso di alcuni giorni e per un totale di sei ore, la conferenza, interessantissima, di un relatore, che dicono essere il migliore in Italia sul tema trattato. Su sua proposta, è arrivato il momento di quella che, con un’espressione un po’ dotta, viene chiamata “collatio”, una specie di condivisione che si fa alla fine di queste conferenze, per raccogliere le impressioni. L’imbarazzo è generale: siamo tutti un po’ intimiditi e ci sentiamo del tutto inadeguati per fare una qualsiasi domanda. Decido di buttarmi e, con voce anche un po’ tremante, parto con le mie osservazioni, che non devono essere poi molto acute, perché il relatore incomincia vistosamente a sbadigliare e, alla fine, non mi risponde nemmeno. Questo è soltanto uno dei tanti episodi che dimostrano che il “dialogo”, in qualunque ambiente, sembra essere definitivamente morto, sostituito dal meno impegnativo “monologo”, di cui anche questo blog è un esempio. Ci sono indubbiamente dei vantaggi: in passato, quando c’era ancora la consuetudine al dialogo, se si parlava a sproposito, si veniva mortificati con le critiche: questo adesso non succede più. Per questo motivo, ovunque, assistiamo a persone che parlano, ma a chi non lo sappiamo bene. Se poi succede che qualcuno prenda il coraggio di fare una domanda, non sappiamo nemmeno più rispondere, perché questa era un’eventualità che non avevamo preso in considerazione. Io penso che dovremmo avere tutti il coraggio di smettere di parlare e, soprattutto con i giovani, incominciare, invece, a rispondere alle domande o, almeno, essere capaci di suscitarle. Cristina