20 febbraio 2009

anniversario

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.15 anni insieme!

18 febbraio 2009

costruire il presente

Leggendo “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery ho trovato questa riflessione (pagg. 123, 124) che uno dei personaggi principali, una bambina di 12 anni, fa rientrando dalla visita alla nonna da poco trasferita in una casa di riposo.
“…
Non bisogna dimenticare i vecchi con i corpi putrefatti, i vecchi vicinissimi a quella morte a cui i giovani non vogliono pensare (e così affidano alla casa di riposo il compito di accompagnare i genitori alla morte per evitare scenate o seccature), la gioia inesistente di quelle ultime ore che bisognerebbe gustare fino in fondo, e che invece subisci rimuginando nella noia e nell’amarezza. Non bisogna dimenticare che il corpo deperisce, che gli amici muoiono, che tutti ti dimenticano e che la fine è solitudine. E neppure bisogna dimenticare che quei vecchi sono stati giovani, che il tempo di una vita è irrisorio, che un giorno hai vent’anni e il giorno dopo ottanta. Colombe
(personaggio del libro) crede che è possibile “affrettarsi a dimenticare” perché la prospettiva della vecchiaia per lei è ancora lontanissima, come se la cosa non la riguardasse. Io ho capito molto presto che la vita passa in un baleno guardando gli adulti attorno a me, sempre in fretta, stressati dalle scadenze, così avidi dell’oggi per non pensare al domani … In realtà temiamo il domani solo perché non sappiamo costruire il presente, e quando non sappiamo costruire il presente ci illudiamo che saremo capaci di farlo domani, e rimaniamo fregati perché domani finisce sempre per diventare oggi, non so se ho reso l’idea. Quindi non bisogna affatto dimenticare. Occorre vivere con la certezza che invecchieremo e che non sarà né bello né piacevole né allegro. E ripetersi che ciò che conta è adesso: costruire, ora, qualcosa, a ogni costo, con tutte le nostre forze. Avere sempre in testa la casa di riposo per superarsi continuamente e rendere ogni giorno imperituro. Scalare passo dopo passo il proprio Everest personale, e farlo in modo tale che ogni passo sia un pezzetto di eternità. Ecco a cosa serve il futuro: a costruire il presente con veri progetti di vita.
…”

Riflessioni semplici, alla portata di molti adolescenti, ma che, forse, nemmeno noi adulti ci soffermiamo a fare. Non credo sia necessario avere un parente ricoverato per condurre il proprio figlio a visitare una casa di riposo. Gianpietro

9 febbraio 2009

Per chi suona la campana?



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Nessun uomo è un'isola,

completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.

Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare,
l'Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.

La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell'umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
suona per te.

(John Donne - Meditation XVII)


Oggi è morta una ragazza che era in coma da diciassette anni. La vicenda ha fatto molto discutere l’opinione pubblica, perché il padre aveva chiesto al tribunale di poter sospendere la somministrazione dei farmaci e dei liquidi, che tenevano in vita la figlia. Ho fatto molta fatica a capire il delirio e l’esaltazione collettiva che ha preso così tante persone, per una vicenda che, negli ospedali, si ripete ogni giorno, quando per una persona non ci sono più speranze di una ripresa di coscienza. Ho pensato che, forse, questo famoso sermone di Donne possa spiegare questo meccanismo di identificazione, di rifiuto della morte, ma forse anche di affetto, per una persona che non si conosceva. Le emozioni che, invece, questa vicenda mi ha suscitato, sono state espresse in modo efficace, in una poesia di Guido Ceronetti, che si intitola “La ballata dell’angelo ferito”. Cristina

6 febbraio 2009

segue la vita tracce


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Segue la vita tracce a completar disegni
che d’incerto l’inizio frutto non son dell’oggi
anche se assenza tollerar non puoi
di passi fatti a bilanciar cadute.

Lungo è il percorso e dubbio spesso il pane,
tanta la voglia di lasciarsi andare
a ripagar richiami brevi come il giorno
fatti esperienze in somme spesso amare.

Vai come in gioco a riscoprir lo scopo
con tasche colme di virtù e talenti,
nulla temendo e l’animo sereno
già che venisti sol col tuo bagaglio.

Disseminati amici a lastricar le strade
verità sanno dare adatta al tempo
che di far tue decidi se ti serve
a ritrovar radici chiuse in fondo al cuore.

Cercale attenta e fino a quel momento
diffida scelte che non han ritorno.
Corpo è strumento e mente conoscenza
pedine entrambe mai elette a meta.

Temi l’attesa che non porta frutto
nemica prima in odio al tuo padrone,
donati a lui, cavalli e cocchio insieme,
che strada certa altrove altra non c’è.

Gianpietro

5 febbraio 2009

libero arbitrio

Ho letto, fornitomi da Cristina, il testo dell’intervento del gesuita francese Michel Rondet sul tema “Dio ha una volontà particolare su ciascuno di noi?” La trattazione offre diversi spunti di riflessione che vanno oltre la specificità della domanda. Soffermandomi, per ora, al nucleo centrale credo lo si possa sintetizzare come opposizione all’assunto di chi sostiene l’esistenza di un “disegno di Dio previsto da tutta l’eternità” che ci porrebbe davanti ad “un programma da riempire, stabilito al di fuori di noi, senza neppure darci dei mezzi sicuri per conoscerlo”, per cui “correndo parallelamente al disegno di Dio, ponendoci pur involontariamente al di fuori del suo progetto, avremmo perduto tutto”, se ne conclude che “la storia umana si svolge come uno spettacolo senza sorpresa (dato che Dio) si attende che noi occupiamo il nostro posto di comparse là dove Egli lo ha previsto da tutta l’eternità”. La risposta di Rondet si appella a Paolo “in Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo” (Ef 1,4-5) per affermare che ”è verissimo che vi è un desiderio da parte di Dio che raggiunge personalmente ciascuno di noi”, ma che “rivolgendosi a persone libere … Egli si attende che noi ci esprimiamo in una parola che vada a ricongiungersi con la Sua”. Parola che “sta a noi pronunciarla senza che essa ci sia mai imposta”. In base a ciò “la risposta che daremo a Dio non è iscritta da nessuna parte, né nel libro della vita, né nel cuore di Dio, se non come un’attesa e una speranza”. In definitiva più che di “parlare di una volontà particolare di Dio su ciascuno di noi … sarebbe più esatto parlare di una risposta personale da parte di ognuno di noi al desiderio di Dio”.
Non conosco il contesto nel quale sono state pronunciate queste parole, probabilmente funzionali ad un particolare tipo di uditorio, ma invidio a Rondet la sicurezza di cui fa sfoggio asserendo di conoscere Dio ed i Suoi desideri. Stando al gioco della umana banalizzazione della divinità ed ammettendo che Rondet parlando di “
persone libere” intenda riferirsi al “libero arbitrio” mi viene da chiedere in cosa “realmente” si differenzino le due posizioni. Esse sono infatti solo apparentemente contrapposte dato che la prima non è altro che la radicalizzazione dello stesso principio che ispira la seconda. In entrambe infatti si afferma che esiste “un disegno per tutta l’umanità”, solo che Rondet lo addolcisce chiamandolo, “desiderio”. Mi sembra trattarsi solo di forma, non di sostanza. Nella prima ipotesi il “libero arbitrio” ci può far compiere la scelta sbagliata facendoci “perdere tutto” senza possibilità di ravvedimento. Una volta puntate le fiches sul rosso, se esce il nero sei condannato. Nella seconda ipotesi Rondet afferma che hai la “parola (Vangeli)” che ti guida nella roulette della vita ed il “libero arbitrio” non è altro che la capacità di riconoscerla e farla propria (vedi le tribolazioni patite dai Santi nel loro cammino alla ricerca della santità). Ma se anche la risposta che daremo “non è scritta da nessuna parte”, ciò non di meno una sola è quella giusta e finchè non la si trova si resta al di fuori “della volontà di Dio” nella prima assunzione, “del desiderio di Dio” nella seconda. Qualcuno mi spieghi la differenza. Gianpietro

3 febbraio 2009

Il dolore adulto

Ho ascoltato una giornalista, in televisione, raccontare che, avendo da poco perso la madre, le era stato chiesto, dal direttore del giornale per cui lavora, di scrivere un articolo sul dolore adulto; il successo di questo articolo l’aveva poi spinta a scrivere anche un libro. Non ho mai letto né l’articolo, né il libro, ma questa espressione ‘dolore adulto’ mi ritorna spesso in mente in questi giorni e mi chiedo se ci sia davvero una differenza tra il modo di soffrire di un bambino e quello di un grande. Nella memoria, il mio dolore infantile è completamente egoistico: ricordo molto bene la sofferenza che provavo, ogni estate, quando, prima delle vacanze con tutta la famiglia, venivo abbandonata, per un lunghissimo mese, nella colonia per vacanze della ditta per cui lavorava mio padre, custodita da insensibili “signorine Rottermeier”, tra le quali mio fratello maggiore scelse addirittura la moglie; ricordo anche il dolore e la paura per le botte di mio padre, quando, dopo essermi azzuffata con qualcuno, mi rifugiavo in casa di qualche vicina compiacente, nell’attesa che le acque si calmassero. Del dolore degli altri, però, non sapevo nulla, eppure c’era ed era ben visibile: la mia maestra delle elementari vestiva sempre di nero e sul petto aveva una medaglia d’oro che ogni tanto apriva, mostrandoci la foto del figlio morto; anche le bidelle indossavano abiti a lutto ed era noto a tutti che venivano assunte perché vedove di guerra: ma che tutte queste persone soffrissero anche, a me non passò mai per la mente. In tempi più recenti, il mio modo di soffrire si è allargato fino a comprendere tutta l’umanità, con una sostanziale differenza: che il dolore per quello che capita a me, lo controllo, perché so che ha una durata, più o meno variabile, ma prima o poi passa; quello degli altri, invece, mi sembra sempre senza speranza. Uno dei dolori più grandi, negli ultimi anni, è stato quello che ho provato per la mamma di un uomo rom, che aveva violentato e ucciso una signora di Roma, intervistata un’ora prima della sua estradizione dall’Italia. La donna piangeva e chiedeva pietà, che non la facessero uscire dall'Italia, perché questo significava che non avrebbe più rivisto il figlio; ma soprattutto diceva che il dolore della famiglia della donna uccisa lei lo capiva, ma che non era diverso dal suo. Da quando ho ascoltato queste parole, il mio modo di sentire, di percepire gli avvenimenti della cronaca, è molto cambiato: vicende simili, le vivo emotivamente staccate: da una parte, il dolore, grande, per le vittime innocenti di questi delitti efferati; dall’altra però, una sofferenza, se possibile, anche maggiore, per coloro ai quali molto difficilmente verrà offerta una seconda occasione per riparare il danno che hanno causato. Cristina