3 febbraio 2009

Il dolore adulto

Ho ascoltato una giornalista, in televisione, raccontare che, avendo da poco perso la madre, le era stato chiesto, dal direttore del giornale per cui lavora, di scrivere un articolo sul dolore adulto; il successo di questo articolo l’aveva poi spinta a scrivere anche un libro. Non ho mai letto né l’articolo, né il libro, ma questa espressione ‘dolore adulto’ mi ritorna spesso in mente in questi giorni e mi chiedo se ci sia davvero una differenza tra il modo di soffrire di un bambino e quello di un grande. Nella memoria, il mio dolore infantile è completamente egoistico: ricordo molto bene la sofferenza che provavo, ogni estate, quando, prima delle vacanze con tutta la famiglia, venivo abbandonata, per un lunghissimo mese, nella colonia per vacanze della ditta per cui lavorava mio padre, custodita da insensibili “signorine Rottermeier”, tra le quali mio fratello maggiore scelse addirittura la moglie; ricordo anche il dolore e la paura per le botte di mio padre, quando, dopo essermi azzuffata con qualcuno, mi rifugiavo in casa di qualche vicina compiacente, nell’attesa che le acque si calmassero. Del dolore degli altri, però, non sapevo nulla, eppure c’era ed era ben visibile: la mia maestra delle elementari vestiva sempre di nero e sul petto aveva una medaglia d’oro che ogni tanto apriva, mostrandoci la foto del figlio morto; anche le bidelle indossavano abiti a lutto ed era noto a tutti che venivano assunte perché vedove di guerra: ma che tutte queste persone soffrissero anche, a me non passò mai per la mente. In tempi più recenti, il mio modo di soffrire si è allargato fino a comprendere tutta l’umanità, con una sostanziale differenza: che il dolore per quello che capita a me, lo controllo, perché so che ha una durata, più o meno variabile, ma prima o poi passa; quello degli altri, invece, mi sembra sempre senza speranza. Uno dei dolori più grandi, negli ultimi anni, è stato quello che ho provato per la mamma di un uomo rom, che aveva violentato e ucciso una signora di Roma, intervistata un’ora prima della sua estradizione dall’Italia. La donna piangeva e chiedeva pietà, che non la facessero uscire dall'Italia, perché questo significava che non avrebbe più rivisto il figlio; ma soprattutto diceva che il dolore della famiglia della donna uccisa lei lo capiva, ma che non era diverso dal suo. Da quando ho ascoltato queste parole, il mio modo di sentire, di percepire gli avvenimenti della cronaca, è molto cambiato: vicende simili, le vivo emotivamente staccate: da una parte, il dolore, grande, per le vittime innocenti di questi delitti efferati; dall’altra però, una sofferenza, se possibile, anche maggiore, per coloro ai quali molto difficilmente verrà offerta una seconda occasione per riparare il danno che hanno causato. Cristina

1 commento:

Gianpietro ha detto...

Misurare il dolore (come qualsiasi altra emozione) mi sembra esercizio inutile e dall’esito aleatorio. Ricordo anch’io il mese di colonia estiva preceduto da pianti inconsolabili e vissuto nell’angosciosa attesa del giorno di visita parenti. Ho ancora presente l’ansia che si trasformava in dolore fisico per l’insicurezza di una preparazione scolastica e che mi faceva giurare che mai ne avrei annacquato il ricordo. Rivedo anche le lacrime versate la notte in cella per una immeritata punizione durante il servizio di leva. Ho vissuto tanti altri momenti di dolore ed ognuno di essi trovava piena giustificazione nel contesto che l’ospitava e nel mio vissuto personale. Se per “dolore adulto” si intende un dolore “maturo” non frutto di un capriccio, e che poggia su motivazioni reali e condivisibili allora io sostengo che il bambino che piange per il gioco sottratto ha le stesse giustificazioni della madre rom che viene allontanata dal figlio assassino. Il peso del dolore non è mai assoluto, ma va commisurato alla sensibilità della persona che lo vive ed al suo stadio evolutivo. In quanto alla “seconda occasione", da ciò che si legge sembra che essa, se non nelle norme nella loro applicazione, ci sia per molti, ma che venga spesa per reiterare il crimine più che per riparare al danno arrecato. Gianpietro