16 marzo 2014

La domanda giusta

Da bimbo, alla domanda: “Cosa farai da grande?” avrò indicato, come tanti, il gioco del momento, ma non ne conservo memoria. Negli anni, le domande sono diventate: “Che studi vuoi fare?”, “Quale lavoro cerchi?”,Su cosa ti vuoi impegnare?”, “Insieme a chi vuoi vivere?”. Domande comuni, che ben ricordo, anche se a nessuna posso associare una risposta basata su solidi convincimenti. Chi invece può giurare di avere risposto in piena libertà, cosciente delle proprie certezze? E quanti hanno portato a compimento la scelta iniziale? Chi volevo essere, chi sono diventato: spesso, sogni diversi. A decidere, il più delle volte, è stata la vita stessa con la sua insondabile casualità, fatta di percorsi obbligati, più che di reali alternative. Se oggi mi ritengo frutto delle circostanze, è dovuto all’essermi trovato in un certo posto, in un dato momento e non altrove, o in un’altra condizione. Ho deciso quasi nulla, accettando di rimanere entro binari che non avevo tracciato. Ad ogni incontro mi sono limitato a cogliere quel tanto che bastava per sopravvivere. Ho dato valore alle cose solo dopo averle possedute, prima non esistevano, e non m’importa sapere che presto le perderò definitivamente. Da vecchio, nel vedermi dall’alto, quando sono generoso mi giustifico, se sono obiettivo mi condanno, volendo mentire non nutro rimpianti. “Quanti talenti hai da spendere? E per quale fine?” questa sarebbe stata la domanda giusta, a patto di avere una colonna alta sei metri sulla quale rimanere appollaiato a riflettere per il resto dei giorni. Nessun biografo mi aiuterà a rileggere il passato, meglio allora accettare che il nulla prosegua nell’opera di spegnimento della memoria. Gianpietro

10 ottobre 2013

La ricerca del bene

La ricerca del bene è uno dei temi trattati nel corso dell'intervista concessa da Papa Francesco ad Eugenio Scalfari, giornalista di Repubblica (vedi questo link).
Sostiene il Papa: “La questione, per chi non crede in Dio, sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.” Sono rimasto molto perplesso nel vedere convalidati i comportamenti delle persone (e per estensione dei popoli) sulla base della sola "percezione del bene". Così facendo: l'ignoranza, le tradizioni, le sottoculture, le superstizioni, le suggestioni, gli indottrinamenti, le innumerevoli forme di auto-convincimento, sia a livello individuale, che di gruppo (dalle più piccole sette, ai più importanti movimenti politici, religiosi, etnici) consentono di collocare un individuo tra i “buoni” solo che egli si ritenga in buona fede e “percepisca” il proprio agire “come bene”. Temo che in questo modo sia possibile giustificare ogni obbrobrio! È lecito supporre che il Papa intendesse giustificare chi non si è ancora incamminato lungo il percorso tracciato da Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6) e quindi, nel limbo di questa attesa, gli vada riconosciuta un'attenuante: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34)? Su questo punto mi sento tuttavia di condividere l’opinione di Scalfari: “In un regime di libertà e di democrazia convivono diverse visioni del bene comune, che si confrontano e si scontrano tra loro. Chi ottiene la maggioranza dei consensi e quindi l'egemonia, cerca di realizzare la sua visione del bene comune.” E alla domanda, di rinforzo: “Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?” il Papa risponde: “Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”.
Mi domando allora se anche il kamikaze che si fa saltare tra i banchi di una scuola elementare, o quelli di un mercato rionale, andrebbe incitato a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene. Di fronte all'insistenza del giornalista: “Santità, lei aveva detto che la coscienza è autonoma e ognuno deve obbedire alla propria coscienza” il Papa non ha tentennamenti: "E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo". 
A questo punto non ho altro da aggiungere. Gianpietro

6 ottobre 2013

sconvolgente banalità rivoluzionaria

Ho raccolto, sotto l’etichetta LINKS UTLILI; una parte di quanto pubblicato sul dialogo intercorso tra il Papa ed Eugenio Scalfari. Cliccando sulla voce “Papa Francesco” si apre un file pdf che contiene:
- La lettera di Papa Francesco
- La risposta di Eugenio Scalfari
- Il testo del loro incontro intervista
- I commenti di Hans Kung e di Vito Mancuso
Sono 18 pagine ricche di spunti di riflessione che credo meritino un’attenta lettura, perché ciò che in esse il Papa dice è, a mio avviso, di una “sconvolgente banalità rivoluzionaria”.
Sconvolgente - perché, anche se si tratta di parole inserite in un contesto privato ed informale, lontano quindi dalle comunicazioni fatte ex-cathedra, credo vada loro attribuita importanza pari a quella di una enciclica, resa tuttavia comprensibile alla maggior parte dei lettori, essendo priva degli orpelli e dei detto e non detto del linguaggio ufficiale.
Banalità – perché, in prevalenza, si tratta di affermazioni che il sentire comune riconosce come base fondativa della dottrina di Cristo. Ovvie come lo può essere la ricerca del bene ed il rifiuto del male, ma, al contempo, lontane dalla realtà come lo è il catechismo insegnato ai ragazzi, rispetto a quello praticato dagli adulti.
Rivoluzionaria - perché se quegli impegni venissero effettivamente applicati, se la Chiesa accettasse di seguire l'insegnamento di Papa Francesco, ci troveremmo ad uno sconvolgimento delle consuetudini e della pratica ecclesiale e temporale la cui portata non riesco nemmeno ad immaginare.
Per natura, non sono facile all’ottimismo e credo che, anche ammessa la sincerità e la buona fede di Papa Francesco, tali e tanti saranno gli ostacoli che incontrerà il suo pontificato, da far svuotare di significato gran parte di quanto ha promesso. Egli stesso mette le mani avanti ricordando i “profondi cambiamenti e compromessi” che il santo, suo omonimo, dovette a suo tempo accettare per vedere riconosciute dalla gerarchia e dal papa le regole del suo ordine. Tentativo velleitario? A giudicare dalla portata delle sue affermazioni (e sempre che non si voglia continuare a giocare con il loro significato) sembrerebbe di si. Ma oggi è lui, il Papa, a proporle, non un frate straccione: e se non ci prova lui e ora, chi altri e quando? Gianpietro

4 ottobre 2013

Una tragedia grande come il mare

La tragedia di Lampedusa, grande come il mare, nel quale è accaduta, mi ha fatto pensare alle tante persone, profughi o no, che vivono una vita tormentata dalla paura. E’ successo ai nostri genitori o nonni, che hanno vissuto il periodo della guerra, e non hanno più potuto dimenticare le incursioni, le perquisizioni e i bombardamenti. Ma c’è ancora tanta gente, al mondo, che vive in questo stato costante di terrore e non c’è bisogno di leggerlo sui giornali, quando scoppia la tragedia, perché, spesso, questa gente è molto più vicina di quello che noi pensiamo. Mi ero accorta, da tempo, che quando entravo in casa o in una stanza, dove lei era di spalle, la signora moldava, che da tanti anni viene in casa nostra, il giovedì, per aiutarci a fare le pulizie, sobbalzava e ci guardava con gli occhi spaventati per la paura. E’ una donna strana, che a me non ha mai ispirato troppa simpatia, e con mia madre aveva sempre da discutere e da litigare e minacciava sempre di andarsene. I motivi erano sempre piuttosto futili e tutti sul metodo di lavoro. L’una pensava che si dovesse spazzare prima di spolverare, l’altra l’esatto contrario. L’una pensava fosse meglio pulire una stanza alla volta, l’altra tutta la casa insieme. Fatto sta che con gli anni è invecchiata ed è diventata sempre più lenta, e tutte le volte che era ora di cena, dovevamo restare lì ad aspettare che lei finisse, perché non c’era una sedia su cui sedersi e la casa ancora sottosopra. Ma tutte le volte che minacciava di andarsene, mia madre, impietosita, la pregava di restare, e che facesse come credeva lei, perché a noi, le diceva, non importava. Questo anche perché, per il suo brutto carattere, veniva sempre licenziata dovunque andasse e certamente non avremmo potuto privarla anche di questo unico e stabile sostegno che era il magro stipendio che ha sempre preso da noi. Ieri sera, quando sono tornata a casa, le ho chiesto se fosse stata lei ad aver portato i fiori che avevo trovato sulla tomba di mia madre al cimitero. E così, mi ha confessato che lei va ogni tanto e su quella tomba piange tutte le sue lacrime. Non piange solo per mia madre, con la quale vorrebbe ancora litigare, ma anche per lei stessa e per la sua vita disgraziata. Le ho chiesto, allora, perché resti in Italia e se non ha una famiglia da cui tornare, soprattutto adesso che è anziana. Mi ha risposto, allora, che ha dovuto scappare, perché là ha un marito, che ha promesso di ucciderla e per di più sta occupando la sua casa, per cui non saprebbe nemmeno più dove andare. Era nata in un villaggio in cui la madre era l’unica levatrice e per lavoro doveva spesso assentarsi, anche per più giorni, fino a quando il bambino della partoriente, in travaglio, non fosse nato.
Quando era bambina, piangeva, per questa lontananza dalla madre e allora il padre, un perito meccanico, che curava la manutenzione dei trattori, la portava con sé in campagna, dove lei era felice e tornava a sorridere dall'alto del trattore, guardando il volo degli uccelli e inebriandosi del profumo dei fiori, delle piante, dell’erba e dei campi. Aveva deciso, così, che da grande lì avrebbe voluto lavorare e vivere per sempre. Terminata la scuola, che aveva frequentato per dieci anni, aveva trovato un impiego in una grande azienda agricola, con centoventi dipendenti, dove il suo lavoro era quello di organizzare la manodopera dei braccianti, secondo il lavoro che c’era da fare. L’altro suo sogno era quello di costruire una casa e in questo progetto i genitori l’avevano aiutata e incoraggiata, all'inizio, dicendole che una casa era il bene materiale più prezioso, perché dava la sicurezza di non dover dipendere da nessuno. Nel frattempo, però, aveva sposato un uomo violento, che la riempiva di botte e senza una ragione. Quando picchiava più forte, lei andava a denunciarlo, ma dopo l’interrogatorio della polizia, quello, arrabbiato, picchiava ancora più forte. Subì trent’anni di violenze e sevizie inenarrabili, crescendo i figli e lavorando, per costruire questa casa. Ma quando la casa fu finalmente terminata, il marito, armato di una spranga di legno, l’aveva picchiata, fino a ridurla a una maschera di sangue, per potersene impadronire. Lei svenne e quando riprese conoscenza scappò, così, tutta piena di sangue, scalza e mezzo svestita, rifugiandosi in un canneto, lungo la strada, non appena vedeva qualcuno, perché si vergognava. Raggiunse, così, la casa della figlia, che l’aiutò a fuggire in Italia e a raccogliere i soldi, tremila dollari, necessari. La mamma levatrice è morta due anni fa, e l’intero paese ha riempito le strade per andare al funerale, tanti erano quelli che in sessant'anni di lavoro aveva fatto nascere, ma lei nemmeno al funerale della madre è potuta andare, perché il marito continua a dire a tutti che se la incontra, questa volta, l’ammazza davvero. E’ una storia triste, ma la compassione non basta e penso proprio che dovrò aiutarla a cercare un secondo lavoro, oltre a quello che le posso ancora offrire io, anche se di questi tempi non so davvero come. Ma porterò nel cuore il ricordo di quella bambina allegra, che dall’alto del trattore guardava il volo degli uccelli e si riempiva del profumo dei fiori dei campi, e so già che quando si hanno pensieri positivi, come questi, alla fine, c’è sempre qualche santo in cielo o sulla terra che ci aiuta. Cristina

2 ottobre 2013

Care memorie

La signora alla quale tengo, ogni tanto, un po’ di compagnia, come tutti gli anziani, ama ricordare di più le cose passate di quelle più recenti. Di queste, poi, non ricorda le delusioni o il male eventualmente vissuto o ricevuto, ma solo le cose belle e le ricorda con nostalgia, perché quelli erano gli anni della giovinezza, anni preziosi, che non torneranno mai più. Era nata nel 1922 in un paesino della provincia reggiana e aveva conosciuto il futuro marito a una gita domenicale in Val d’Enza. Il padre, appreso di questo innamorato, si era precipitato in città da un conoscente, per prendere informazioni, e il caso aveva voluto che il conoscente fosse lo zio del giovane, che lo aveva assicurato sulla sua serietà ed educazione. Era un giovane di buona famiglia, che aveva studiato a Parma, in un collegio privato, il Maria Luigia, famoso per il suo rigore. Al secondo anno di università, aveva però dovuto lasciare gli studi, per cercare un impiego, perché la famiglia, in seguito a un dissesto finanziario, aveva perso tutti i suoi beni. Così, quando fece la domanda di matrimonio, chiese alla futura moglie di venire a vivere insieme con la sua famiglia, della quale lui era l’unico sostegno. La giovane accettò e per quindici anni visse in casa con gli suoceri, un tipo di convivenza che in quegli anni difficili era molto comune, ma che adesso sarebbe impensabile, perché accade proprio l’esatto contrario e cioè che nei momenti di crisi quel filo sottile e fragile che tiene insieme le famiglie si spezza del tutto. Il marito lasciò presto il suo lavoro in banca per un altro, più vicino a casa, nella pubblica amministrazione, e qui studiò per migliorare la sua posizione, fino a conseguire un ambito posto di dirigente. La moglie ricorda gli anni in cui lo aiutava negli studi, standogli vicino, e seguendolo, per i concorsi, nella capitale. Sono ricordi allegri, che parlano d’amore, ma soprattutto di quel tipo di vita insieme, di cui adesso abbiamo solo un pallido ricordo, forse, dalla vita dei nostri genitori, in cui si stava davvero insieme, nel bene e nel male, mentre adesso, spesso anche a ragione, con maggior facilità ci si separa. Cristina

28 settembre 2013

La signora I.

La signora I. ha 91 anni e per questo è quella che le cartelle cliniche definirebbero grande anziana, ma, parlando con lei, ci si dimentica presto dell’età, perché la sua compagnia è fresca e piacevole come quella di una ragazza. Dopo un’esperienza decennale nel servizio di volontariato, avevo deciso di scegliere una via a me più congeniale, per condividere, senza orari né troppo impegno, quella gentilezza e accoglienza che le tutor di Emmaus e dell’Hospice mi avevano insegnato. E così, mi sono messa in paziente attesa delle persone, che la vita avrebbe prima o poi messo sul mio cammino, a cui dedicare il tempo che un lavoro impegnativo e un compagno amorevolmente esigente mi avrebbero lasciato. Non ho dovuto attendere a lungo, perché nel cercare un lavoro per la signora che mi aveva aiutato nell’assistere mia madre, ho conosciuto la signora I. amica della collega di una mia amica. Quali mirabili connessioni – direbbe Trine – ci legano e fanno apparire il mondo molto più armonioso e amico di quello che non ci appare, se limitiamo la nostra percezione a quello che chi ci governa e ci opprime vuole farci avere, spaventandoci, per poterci meglio dominare. Ma tornando al caso che vi voglio raccontare, oggi pomeriggio, sono andata al colloquio di lavoro insieme alla signora che desideravo collocare e che, dopo la morte di mia madre, era rimasta senza lavoro. La signora I. è rimasta molto soddisfatta, ma aimè deve aver pensato che io facessi parte dell’offerta e in men che non si dica mi sono ritrovata a lasciarle il mio numero di telefono, impietosita dal fatto che mi avesse detto che le avrebbe fatto molto piacere che qualche volta fossi andata anch’io a tenerle un po’ di compagnia e che, ogni tanto, l’avessi accompagnata anche a messa. Così, in un colpo solo, la signora I. ha trovato un aiuto domestico, la cara persona che ha assistito mia madre ha trovato un lavoro, e io una nuova occupazione come volontaria freelance. Cristina

27 settembre 2013

Autunno

Ogni cambiamento di stagione mi piace perché mi sembra che inauguri un periodo nuovo della vita. In particolare l’autunno invita alla riflessione, dopo gli svaghi dell’estate, che è una stagione in cui si vive per lo più all’aria aperta e non c’è tanto tempo per i pensieri. A dire il vero, per me, quest’anno, non c’è stato tempo per i pensieri, non tanto a causa degli svaghi, ma perché mia madre se n’è dolcemente andata, come era del resto suo desiderio da tempo, essendo ormai sazia della vita e carica di anni. Tra le decisioni da prendere, adesso, c’è naturalmente quella che riguarda il volontariato. Dopo l’esperienza positiva che ho fatto in famiglia, con l’assistenza domiciliare, che oggi è diventata indispensabile per la sanità pubblica, per ridurre i costi troppo elevati delle strutture ospedaliere, penso che questa potrebbe essere una bella opportunità per le famiglie di accogliere in casa i familiari anziani o malati e assisterli personalmente, o con l’aiuto di qualche risorsa esterna. Occorre quindi imparare di nuovo questo stile di vita che un tempo era comune, ma che adesso non lo è più. In questo, sia Emmaus sia l’Hospice sono stati per me una buona scuola. Penso che tali però debbano restare, perché per lavorare in una organizzazione occorre essere meno anarchici di quello che sono e che sono sempre stata. Per cominciare però e per capire in che cosa consiste il servizio, che si deve svolgere in una famiglia o accanto a un malato, penso sia indispensabile ricevere una buona formazione teorica e anche pratica e in questo i dodici anni che ho fatto con queste organizzazioni sono stati preziosi e di grande aiuto. Poi però io credo che occorra acquisire la capacità di trovare da soli la persona o la famiglia, perché le relazioni che si istaurano anche per servizio devono essere una scelta libera e reciproca. Ho avuto occasione di parlare di questo, recentemente, con un’amica, che è anche la volontaria con cui ho diviso per alcuni anni un servizio presso una signora invalida. Da questa persona andavo ormai da dieci anni e una volta che ricevette la visita di una conoscente mi sussurrò all’orecchio di non dire che ero una volontaria, ma un’amica. Sul momento sorrisi, perché per me, dopo tanti anni, non c’era distinzione, perché se non mi fossi trovata bene e non avessi ritenuto la sua compagnia piacevole, come quella di un’amica, certamente sarei rimasta a casa prima. Però, comprendo adesso che il messaggio che passa è quello del servizio caritatevole e del quale ci si vergogna anche un po’ e che se si avessero i mezzi probabilmente si assumerebbe una persona di servizio e del volontario a quel punto non ci sarebbe più bisogno. Ma non è così che a mio avviso va inteso questo servizio. E me lo ha confermato l’amica con cui mi sono trovata perché a lei una signora, che aveva fatto la richiesta, aveva addirittura specificato di andare al mercoledì e alla domenica, quando non c’era la badante. E’ evidente che il volontario non può assumersi un simile impegno, ma soprattutto la relazione che si vuole instaurare con la persona dovrebbe essere alla pari e solo così può essere piacevole e utile per entrambi. Come qualcuno aveva detto, quando ho fatto la formazione, il volontario è la persona che fa entrare in una casa la vita normale di relazione, perché quando uno è malato finisce per essere circondato solo da personale infermieristico, medico o sanitario, che non fa che ricordare a quella persona la sua malattia, quando invece la malattia è solo una parte di quell’unico molto più complesso che è l’uomo. Cristina

11 agosto 2013

E' volontariato anche quello familiare

Ci sono volontari che accedono al servizio dopo un’esperienza personale, per aver compreso, in quella circostanza, il valore della solidarietà. Ce ne sono altri, invece, che vi si accostano quasi per caso e da quella esperienza imparano a gestire in modo sereno eventuali situazioni che dovessero capitare anche in famiglia. Mi ha suscitato questo pensiero il post di una giovane forumista che su un altro sito confessava sgomenta che si sarebbe sentita male solo all’idea di doversi occupare dei suoi genitori, una volta divenuti anziani, i quali, diceva, non si erano mai curati di lei, quando era piccola né dopo. L’ho rassicurata subito dicendole che alla sua età, e per altre ragioni, sicuramente meno drammatiche delle sue, avrei pensato la stessa cosa.
Invece adesso che mi devo occupare di mia madre ultranovantenne questa cosa non mi spaventa più. Come dice il detto, più che preoccuparsi è sempre meglio occuparsi.
In un altro post, avevo parlato della prima badante, che abbiamo assunto per assistere mia madre che vive con me. La scelta di accogliere in casa mia madre l’ho trovata giusta, anche se a dire il vero all’inizio avevo più di un timore, perché avrebbe limitato la mia libertà. In questo modo, con qualche aiuto, si può fare una vita normale: lavorare, ricevere gli amici, andarsene ogni tanto per qualche fine settimana, mentre i genitori che vivono da soli richiederebbero tutto il nostro tempo libero, senza contare i costi fissi che sarebbero il doppio.
Nina, la prima badante, si è licenziata, dopo sei mesi, per tornare in Georgia, che è il suo paese e nello stesso giorno è arrivata Luba, ukraina, che ho scoperto essere mia vicina di casa e della quale siamo tutti molto contenti. Anche di Nina siamo rimasti contenti per quanto riguarda il lavoro, del quale era molto competente, ma poi si sono rivelati alcuni aspetti un po’ negativi della sua personalità, non prevedibili in sede di colloquio, e altri invece ai quali avremmo dovuto dare più importanza, come la conoscenza della lingua italiana, che lei non è mai riuscita a imparare.  Adesso so che è importantissimo, invece, che chi assiste il malato gli faccia compagnia, ne solleciti l’attenzione, tenendolo informato sui fatti quotidiani e cercando di conoscerlo meglio, per cercare di capirne i gusti, le aspettative, per quello che si può, naturalmente. Luba è una badante completa: ha per il suo lavoro una vera vocazione e, cosa molto importante, cucina molto bene e conosce perfettamente tutte le proprietà dei cibi, cercando di somministrare a mia madre cibi genuini, con il giusto apporto nutrizionale. Tutto quello che può fare in casa lo fa, così sa che gli ingredienti sono buoni e naturali: marmellate, gnocchi di patate, minestre di verdura, polpette e altri piatti che sa cucinare con abilità da chef, perché ha lavorato per sette anni in un ristorante di Modena. Poi, si è dovuta occupare della suocera, che è italiana, e che ancora piuttosto giovane aveva avuto un ictus e qui ha imparato tutto quello che occorre sapere per assistere un malato grave in casa, competenza della quale ha poi fatto la sua professione. Luba naturalmente non vive con noi e fa un orario di lavoro che copre il mio in ufficio, ma ho preferito farle un contratto a tempo pieno, per avere la sua disponibilità ogni volta che si rende necessaria.
Ma tornando al titolo, che ho dato a questo post, vorrei dire che il miglior modo per svolgere attività che sentiamo come un dovere e che troviamo faticose, alle quali non siamo abituati, è farlo proprio con l’atteggiamento del volontario, che diventa un vero volontario, come affermava l’abbé Pierre, solo quando è già lì con le valigie in mano, pronto per andarsene, magari chiedendo a se stesso chi glielo ha fatto fare di trovarsi lì in quella situazione e poi, invece, alla fine decide di restare.
Cristina

22 maggio 2013

Le scelte


I nostri comportamenti dipendono da un’infinità di fattori. Impossibile stilarne un elenco esaustivo. Solo per citarne alcuni: la differenza di genere, lo stadio dell’esistenza, le condizioni di salute, le risorse a disposizione, le condizioni ambientali, le convenzioni ed il ruolo sociale, la storia personale, i vincoli familiari, la cultura, le tradizioni, l’educazione, le aspettative individuali e le pressioni sociali, lo stato emotivo e psichico del momento, il carattere, la sensibilità … i pensieri … i sentimenti …. E questi sono solo una parte degli elementi che entrano in gioco, a diversi livelli d’intensità e senza che si possa tracciare una scala di priorità. Si tratta di un mix che può variare, per quantità e rilevanza, anche sensibilmente da individuo a individuo. Parlarne in termini generali sarebbe da sciocchi. Un po’ come definire il livello di felicità, o di sofferenza, attribuendo peso prevalente a quello che, a nostro giudizio, costituisce il fattore dominante. “Quella persona non potrà mai essere felice con la situazione familiare/economica/di salute che si ritrova…”, oppure “Non capisco cosa gli manchi per essere felice. Si gode la pensione, è in buona salute, senza problemi economici, né familiari …” La realtà può essere ben diversa, può dipendere da tutt'altro. “Il piacere di vivere”, così come “il male di vivere”, possono coesistere alternandosi fino a sembrare, riflessi nello stesso specchio, uno il negativo dell'altro. Non si tratta di compensazione tra opposti e nemmeno della ricerca di un compromesso. Nel campo dei sentimenti questa dicotomia si manifesta con maggiore evidenza. La capacità di controllo è ridotta, i dubbi possono diventare assillanti e la percezione della realtà è fortemente distorta. Si convive con spinte contrapposte ed il passaggio dall'una all'altra sponda è sempre un salto nel vuoto, un momento di vero panico, di fiato sospeso. In quei frangenti gioia e dolore crescono in modo esponenziale e la differenza tra la strada e la scarpata diventa minima. Gianpietro

18 maggio 2013

November rain

Si pensa di potere aspettare, che non sia necessario correre, avere fretta di decidere. Ci saranno altre possibilità, nuove occasioni. Basterà farsi trovare pronti. Passano gli anni e li riempiamo di cose non fatte, di opportunità che ci siamo lasciati scivolare addosso, perdendole definitivamente. Tanto ne verranno altre: abbiamo detto. È stato così per le scelte di studio, lavorative, culturali, di svago, di ricerca, affettive… Sono soprattutto le persone che tendiamo a considerarle di passaggio. È come se le vedessimo immerse in un flusso continuo nel quale crediamo di poterci inserire a nostra discrezione. Siamo convinti di avere il diritto a pescarvi sempre il meglio, ma senza fretta, tanto c’è tempo, ne passeranno di più interessanti. Per alcuni, queste scelte risultano condizionate dall'ambiente, dalle tradizioni, da vincoli oggetivi, da figure estranee. Il peso delle decisioni viene rimosso dalle spalle di chi dovrebbe/vorrebbe portarlo e spostato su altri che diventano così proprietari anche dell’anima. In entrambi i casi le difese accumulate negli anni si ergono a formare una barriera che toglie l’orizzonte alla vista e respinge chi vorrebbe accostarsi. Molte occasioni non si ripresenteranno più. Ma quando un giorno incontriamo la persona che sognavamo di poter scegliere e dalla quale vorremmo essere scelti, ecco che intorno a noi la gabbia ha già preso forma e consistenza, ed anche il tempo assume ben altra rilevanza. L’insofferenza pervade le giornate, ogni attimo d’attesa è visto come uno spreco. Siamo noi a trovarci trascinati dalla corrente, invocando un braccio che si allunghi nella nostra direzione prima di venire sospinti oltre. Vorremmo gridare: “Non perdere questa opportunità! Cambia il corso dell’esistenza! Fermati e scegli!”. Parole che pronunceremo a gran voce, consapevoli che potremmo non essere ascoltati. Gianpietro

7 maggio 2013

Fine vite

Nutro stima e rispetto nei confronti di Vito Mancuso e mi trovo solidale con diverse sue analisi (ho apprezzato in particolare “L’anima e il suo destino” ed. Raffaello Cortina – 2007). Non altrettanto convincenti mi sono parse le considerazioni riportate nell’articolo pubblicato su “La repubblica” del 5 maggio 2013 (clicca qui per leggerlo, prima di proseguire).
Il tema (eutanasia, o suicidio assistito) è ampio e non offre appigli a chi fosse alla ricerca di verità incontrovertibili (tralascio gli integralisti e i dogmatici). Assumo pertanto come valide, sia le due premesse “alleviare la sofferenza, sempre” e “rispettare la libera autodeterminazione delle coscienze, sempre”, sia la classificazione dell’individuo, la sua “consistenza”, nelle cinque forme di vita (di qui il plurale nel titolo del post) raggruppate nelle tre classi “bios-zoè” (biologica e animale), “psychè” (psichica) e “logos-nous” (ragione e spirito). Accetto anche che tra di esse esista un ordine crescente in termini evolutivi (sia temporali che di consapevolezza). Detto questo mi è parso evidente, dalla lettura del testo, che all’ultimo livello “logos-nous” viene attribuita la responsabilità delle scelte che impattano sui livelli inferiori: “io penso che il rispetto della vita debba consistere alla fine nel rispetto della sua vita spirituale (nous), della sua coscienza o libertà” e più avanti: “cosa è più sacro: la vita biologica o la vita spirituale?”. Queste affermazioni pongono già un problema nei confronti di chi quel livello non lo ha ancora raggiunto (infanzia e sottocultura) o lo ha perduto (malattie e infortuni). Chi stabilisce inoltre la sua esistenza, completezza e integrità? È quindi al livello del “nous” che andrebbero assegnati tutti i poteri decisionali sulle “vite” dei livelli “inferiori”: non solo su quella biologica/animale, ma anche su quella psichica. Eventualmente in modo selettivo?
Sviluppando il discorso credo si possa andare oltre il limite posto dall’autore: “di fronte ai casi estremi di malattia, quando la disarmonia tra le forme vitali diviene lacerante…” dato che egli stesso fa riferimento a: “esseri umani che non riescono, o non vogliono, mantenere l’armonia tra la loro vita biologica, la loro vita psichica e la loro vita spirituale” e poco più avanti lo ribadisce con un’affermazione che, a mio avviso, apre la porta a scelte di “fine vita” non strettamente collegabili a condizioni di tipo “vegetativo”. Dice infatti: “e se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita bios perché per lui o per lei l’esistenza è diventata una prigione e una tortura … lo (si) deve rispettare”. Quali tipologie di suicidio non rientrano in tale casistica? Chi, oltre all’interessato, può valutare le condizioni di: “ansia, paura, sofferenze devastanti per la salute psichica e spirituale”?
Le lascio come domande aperte.
Personalmente ritengo che nessuno stato e nessuna religione debbano tramutare il “diritto” alla vita in un “dovere” e in questo condivido l’affermazione dell’autore: “nessun essere umano può essere costretto a continuare a vivere”, ma la amplio, sostenendo: “a prescindere dalle condizioni e dalle circostanze della scelta”. Gianpietro

6 maggio 2013

L'arte della semplicità

L’arte della semplicità” è il titolo di un bel libro di Dominique Loreau, che dagli anni ’70 vive in Giappone e ha adottato lo stile della filosofia zen anche nella sua vita pratica di tutti i giorni. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e credo che sia importante precisare che semplice non ha il significato di una diminuzione, ma significa essenziale. Viviamo circondati da migliaia di oggetti, molto spesso inutili, che però ci dispiace buttare via, perché sono legati a un ricordo o perché sono stati di moda e li abbiamo pagati tanto o perché pensiamo possano tornare a servire un giorno o l’altro. Dopo aver letto questo libro, viene voglia di eliminarli una volta per tutte e certamente non li rimpiangeremo. Gli oggetti che ci servono veramente sono davvero pochi e non bisogna pensare che una casa disadorna perda in bellezza, perché invece gli spazi si riempiranno di luce, di profumo, di aria: elementi bellissimi che renderanno migliore la nostra vita. Io ho cominciato anni fa a liberarmi degli oggetti inutili e soprattutto di quelli brutti e questo ha fatto nascere in me, per ogni nuovo acquisto, il bisogno di comprare solo quello che veramente mi serve e non occupa solo spazio, ma che sia anche bello, artigianale, piacevole al tatto e alla vista, pensando anche che quando lo eliminerò, perché mi avrà stancato, potrò darlo a qualcuno e questa persona ne ricaverà il piacere, alla sua vista, che ha dato a me la prima volta. E non importa se questa persona, che avrà un mio abito, o una borsa, o un servizio di piatti, o un gioiello, sarà un’amica, un familiare, un povero, che si veste con quello che si lascia nei cassonetti della Caritas. Sarà bello condividere con altri l’oggetto che abbiamo acquistato, solo se non è sciupato ed è ancora bello, come quando lo abbiamo ricevuto noi la prima volta. Così ho fatto con i libri. Quelli che non mi erano piaciuti sono finiti nel cassonetto della carta da riciclo e ho regalato solo quelli che, pur essendomi piaciuti, non avrei riletto, perché nella biblioteca di casa è meglio tenere solo pochi libri, essenziali, importanti, che amiamo leggere e rileggere, e per tutti gli altri, fortunatamente, adesso c’è il lettore digitale, che ne contiene migliaia e non occupa spazio. Dopo essermi circondata solo di oggetti belli e funzionali, in casa, è stata la volta di fare pulizia nei miei pensieri. Quanti luoghi comuni, quante idee fisse inculcate nella mia testa, chissà quando e chissà da chi. Solo tra le amicizie non ho fatto nessuna pulizia, come invece sembra raccomandare questo piccolo libro, perché quelle che ho sono poche e mi sono tutte care. Sono tutte diverse tra loro e anche da me, ma non importa: alcune sono recenti, magari acquisite sul web o frequentando qualche comunità, altre, di vecchia data, risalgono addirittura all’infanzia.
Concludo infine con un pensiero di Thoreau a cui ricorro spesso e che forse oggi varrebbe la pena per molti di ricordare: “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno.” (David Thoreau, Walden). Cristina

5 maggio 2013

DOMINO

Nel corso dell'esistenza si creano tra le persone intrecci che, a priori, non si sarebbero potuti immaginare. Le relazioni che contano prendono spesso il via da episodi che nulla hanno di canonico e seguono snodi dagli esiti talmente aleatori da sembrare poggianti sul nulla. Succede poi che queste relazioni prendono consistenza, quasi fossero sorrette da fili invisibili: si rafforzano, diventando prioritarie e prevalenti. Alla base restano tuttavia equilibri instabili, dichiarazioni d'intenti che sembrerebbe facile spezzare, o disconfermare. Ad esse si contrappongono situazioni esteriori, dipendenze relazionali e affettive, tante particolarità contingenti che puntellano l’intera struttura, fino a quando, modificandosi anche un solo tassello, viene ad alterarsi l’equilibrio complessivo. Sono come le tessere di un domino accostate le une alle altre. A seconda del tipo di disequilibrio che si viene a creare, causa anche fattori del tutto esterni alla relazione, si presenta un nuovo quadro d’insieme, al cui interno le tessere assumono un differente orientamento, talvolta opposto a quello iniziale. Ciascun attore è allora chiamato a recitare una parte del tutto nuova. Ruoli che erano comunque già contemplati dal copione: noti, dichiarati e condivisi da ogni recitante, ma dall'esito incerto perché mai provati sul campo. Se in una scena si attiva una promessa, ancorché basata su una mera ipotesi, si deve essere consapevoli che in una delle scene successive è possibile, con variabile probabilistica da zero a cento, che quella promessa debba essere mantenuta. Puntellarsi su equilibri basati unicamente su scenari teorici e mai sperimentati, è fattibile, ma impegnativo. Può venire il giorno della verità, del sì pronunciato al posto di una sequenza infinita di no, ed allora si deve essere pronti a rendere conto di quanto promesso, degli impegni assunti. Quando ciò accade va inoltre tenuto presente che gli attori sono già stati duramente provati dalle condizioni che hanno portato al cambiamento. I tempi di attuazione delle scelte sono ridotti ed i margini di manovra minimi. In quella fase le possibilità di modifica delle prospettive sono nulle, o possono risultare inaccettabili agli occhi di chi ha puntato tutto sugli impegni dichiarati e costantemente ribaditi.
Ecco, con questa consapevolezza, io rinnovo la promessa. Qualunque sia la sua scelta. Gianpietro

3 maggio 2013

il "giusto mezzo"

Sono trascorsi due mesi dall’ultimo post pubblicato su questo blog. Un intervallo comunque limitato, dato che ormai si tratta di uno spazio riservato a pochi intimi, non più identificabile come strumento comunicativo di un’associazione. Credo sarebbe anche corretto modificarne il nome: operazione però non consentita dato che  fa parte dell’url. Prima tuttavia di rimuovere, quanto meno, il logo di EmmauS, mi piacerebbe avere vostri suggerimenti. Dicevo di questi due mesi trascorsi nel silenzio degli autori, al pari di quello dei visitatori. Oggi Cristina lo ha interrotto citando Tolstoj in un commento su “Alternanza” del 3 marzo. Sono lusingato per l’accostamento, ma dissento rispetto all'invito ad adottare il “giusto mezzo” (l’aurea mediocritas proclamata da Orazio). Per gran parte dell’esistenza ho seguito proprio quella regola: “non rischiare”, “aspetta”, “stai alla finestra”, “ fai il minimo”, “scegli il male minore, o il bene meno impegnativo”, “adattati alle circostanze”, “non esagerare”, “sopporta”, “non esporti”, “soffoca le passioni”, “pensa agli altri”, “non creare sofferenza”, “sii responsabile”, “pazienta”, “rinuncia” …  sempre alla ricerca dell’equidistanza tra il nihil e lo slancio (non me la sento di usare il termine “illusioni” scelto da Cristina).
Oggi avverto per intero il peso di questa politica della non scelta, di questo comportamento votato alla disperazione, frutto di compromessi, spesso nemmeno sollecitati. Questo periodo è terminato, quell'io ha cessato di esistere il 9 marzo. Una volta varcata l’ultima sliding door è nato un nuovo individuo. Due mesi fa ho scelto un differente battesimo, che in questi giorni ho riconfermato con una promessa fatta seduto in terra, la schiena appoggiata ad una lapide. Da oggi non più galleggiamenti avvolti dalla nebbia, silenzi mascherati da quieto vivere. Da oggi voglio urlare di gioia, ed allo stesso modo piangere di dolore. Bruciarmi se mi attira il fuoco, annegarmi se mi attrae l’abisso. Da oggi ho scelto di amare a dispetto delle regole e delle convenzioni, dell’età e delle circostanze. Ho scelto di amare, qualunque sia la sua scelta. Ho deciso di vivere. Gianpietro
I due ruscelli
Finalmente riuniti
Un solo canto

10 marzo 2013

Mille

Percorrono mille rivoli le motivazioni della crisi. Mille sono le colpe attribuite a mille diversi colpevoli che ognuno individua, ma che nessuno condanna. Mille i mostri virtuali ai quali lasciamo manovrare leve prive di impronte umane. Mille sono le interpretazioni dello stesso fatto e mille sono i  fatti che rimangono privi di una interpretazione. Mille le giustificazioni, mille gli alibi, milioni le bugie che difendono milioni di interessi. Mille gli indicatori che puntano verso mille direzioni contrapposte e mille le voci che sanno distorcerne la interpretazione. Mille le conseguenze previste e altre mille quelle imprevedibili, che milioni di occhi leggono in mille differenti modi. Mille le scelte possibili, consigliate, imposte, devianti, comunque sbagliate: ognuna con mille esiti aventi identiche possibilità di realizzazione, e mai nessuna che soddisfi le attese. Mille sono i passi che trascinano verso un’identica deriva gli onesti inconsapevoli legati ai consapevoli disonesti. Mille le domande senza risposta, mille le risposte date a domande non formulate. Mille i perché urlati disperatamente, mille le motivazioni false e interessate. Mille gli atti estremi che rimbalzano sul muro di mille pianti ipocriti. Mille proclami, mille programmi, mille soluzioni, mille minacce, mille moniti, mille appelli, mille interrogazioni, mille richiami. Milioni di insulti e di parole rubate e urlate al vento. Nessuna prospettiva, ma un solo esito certo. La rana sta bollendo. Gianpietro

9 marzo 2013

Sliding doors

Talvolta, si verificano inaspettate soluzioni di continuità, capaci di sciogliere lacerazioni provocate da spinte contrapposte. Si tratta di eventi esterni e, spesso, da noi indipendenti. Clamorosi o banali, ma sempre efficaci quel tanto che serve a rompere, per tempi indefiniti, lacci che parevano inestricabili. Ai più significativi diamo il nome di “momenti di svolta”. Spesso si presentano in forma di individui, la cui influenza marca profondamente la nostra esistenza, sia che ci abbiano rivolto lo sguardo una sola volta, sia che ci accompagnino fino alla morte. Altre volte sono eventi, accadimenti traumatici, tanto quelli lieti come quelli dolorosi, in grado di spostare il baricentro dei nostri interessi. Sotto quelle spinte la vita ridisegna il proprio percorso e dal loro verificarsi traiamo le giustificazioni allorché ci voltiamo per rileggerne il senso. Di fronte ad essi ci sentiamo indifesi, anche se non ci viene preclusa la possibilità di barare. Ma tantissimi altri incontri marcano il sentiero, costellandolo di occasioni vissute o perse, di mani protese o chiuse a pugno, di sguardi distolti o affrontati, di scelte lasciate a chi veniva dopo di noi o accettate anche quando non si era costretti a farlo … Mi è facile pensare alle tante “sliding doors” che si sono richiuse alle mie spalle, in numero almeno pari a quelle contro le quali ho sbattuto il viso. Mi volto e credo di vedere una linea retta. Mi sembra che nulla potesse essere diverso da come è stato. Mi ripeto allora che non ho fatto altro che seguire un solco, e che la libertà di scelta è una finzione. Ciò che è stato, è stato così come doveva essere e diversamente non poteva. Eppure quelle porte non le ho dimenticate, la soluzione di continuità l’ho avvertita e se oggi mi dico “avrei potuto”, l’avrei potuto dire anche allora.
Ma non è di questo che volevo scrivere. Stasera riflettevo su altri incontri, su "sliding doors" cosiddette “minori”, quelle che possono avermi dato un attimo di serenità o avere favorito il sorgere di un dubbio. Quelle che hanno contribuito a darmi la spinta giusta oppure avermi aiutato nella frenata. Nei miei ricordi lo sono state alcune letture, purtroppo ignorate quando sarebbe stata invece l’età giusta per farle. Lo è stata certa musica, come quella che ascolto adesso mentre sto scrivendo, casualmente scoperta nell’unico momento, tanti anni fa, in cui serviva. Lo sono stati gli scritti che mi sono regalato, disseminati negli anni, nei diversi tentativi di ricerca interiore, mai completata, e che vorrei avere la capacità di continuare. Lo sono certe amicizie nate per gioco e che si cibano d’aria, di attese, di silenzi più che di parole. Incontri casuali e che tali rimangono fino a quando una parola in più dà origine alla soluzione di continuità. Ed ecco lo squillo che getta un’asse tra le rive. Percorrerla significa ritrovarsi con una pianta tra le mani alla quale donare l’acqua giusta perché non inaridisca, ma, al contempo, cresca senza il rischio di annegare. Gianpietro

3 marzo 2013

Alternanza


Ci sono momenti, periodi lunghi anche più giornate, che vivo malvolentieri non sopportando lo stress che mi procura il concatenarsi degli impegni. Per contro, vi sono altre giornate nelle quali la mancanza di compiti genera noia, ansia, un'uguale sofferenza. E questo alternarsi convive con un malessere che ha molteplici cause. Il rumore di fondo è sempre lo stesso: l’incertezza, la sensazione d’impotenza, d’ineluttabilità, d’inadeguatezza di fronte ai comportamenti che mi vengono richiesti o ai quali credo di dovere attendere. Fuga e ricerca, immersione e soffocamento, ansia e noia, con margini di tolleranza sempre più ridotti. Complice un degrado mentale e fisico che, riconoscendolo, tento, ma è sforzo vano, di respingere. Essere qui e altrove. Vedermi dall’alto per tutto comprendere e contenere. O identificarmi solo con l’io interiore: testuggine che non riceve luce e non dà voce. Nel passato c’erano prospettive, attese dettate dalle consuetudini, regole inconsapevolmente accettate, che scandivano tempi e modi. Poi tutto questo è finito. Non ricordo il momento, né ha senso cercarlo. Se c’è stato, era una bandiera abbassata, non la causa. Forse uno scritto liberatorio. Forse la fine dei giochi, che si chiamassero lavoro o studio. Forse occhi che si sono finalmente aperti sul vuoto intorno, non visto, ma sempre esistito. Ed ecco l’ansia che ondeggia tra il bisogno di colmare e il desiderio di fuggire. Chi mi giustificherà per le ore che spreco? Tra pochi giorni compio gli anni. Per mio padre fu l’ultima volta. Gianpietro

28 gennaio 2013

Shoah


Prima di tutto vennero a prendere gli zingari 
e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

(Martin Niemöller 1892-1984)

27 gennaio 2013

Sono un "baby boomer"


Nei giorni scorsi ho ultimato la lettura del libro di Federico Rampini “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo – manifesto generazionale per non rinunciare al futuro”. Non si tratta di un "vero" libro, ma della ristampa di una serie di brevi articoli già pubblicati sul quotidiano del quale l’autore è corrispondente dagli USA. Articoli tutti inerenti il tema dei cosiddetti “baby boomers”. È un genere di saggistica che non mi attira, sia perchè la forma adottata non offre sufficienti approfondimenti, sia perchè su gran parte delle tematiche sociologiche si può dire tutto ed il contrario di tutto. Tuttavia, rientrando anch’io, seppur di poco, nel range anagrafico che mi classifica come “baby boomer” mi sono posto alcune domande. Ad esempio: perché …
... il significativo innalzamento dell’aspettativa di vita, in termini sia quantitativi che qualitativi, viene considerato una conquista a livello individuale, ma un grave pericolo (e quindi un danno) a livello sociale?
... un sessantenne in buone condizioni (come nella maggioranza dei casi) e con una prospettiva di diversi anni di capacità produttiva viene considerato di intralcio, di ostacolo all’inserimento della generazione successiva nel mondo del lavoro?
... si parla di noi in termini di gerontocrazia, di generazione tappo, ancorata a privilegi anacronistici, consumatori di risorse sociali, mentre mi ritengo fonte di saggezza, depositario di esperienze, possibile guida?
... un rancore così forte nei confronti di padri/nonni apparsi solo una generazione dopo quella, allora rispettata, ma che ha causato l’olocausto della seconda guerra mondiale e subito dopo ci ha riempito il materasso di ordigni nucleari?
... si innalza l’età pensionabile e nel contempo si incentivano le uscite anticipate dal mondo del lavoro di chi non ha ancora sessanta anni?
... le pensioni perdono continuamente potere di acquisto, non venendo adeguate all’inflazione, e nel contempo veniamo colpevolizzati se non compriamo una nuova automobile ogni anno?
... il mercato non offre posti di lavoro per i nostri figli, mentre gran parte degli articoli che acquistiamo reca sulla targhetta la scritta “made in china”?

Adesso cambio genere di lettura. Gianpietro

20 gennaio 2013

Quel 17 gennaio


Solo dopo aver pubblicato il commento al post di Cristina sulle “badanti” mi sono reso conto che era il 17 gennaio. Ho avuto bisogno di quell’input per ricordarmi che in quello stesso giorno di sei anni fa aiutavo Valentina (la badante) a lavare e rivestire il corpo ancora caldo di mia madre. Diversamente, avrei di certo ignorato la ricorrenza. Ci ho riflettuto in questi giorni e mi sono chiesto se quella morte mi ha procurato sofferenza, se ho impiegato del tempo per elaborare il lutto, se conservo memorie che mi tengono a lei legato. No, niente di tutto ciò. Si è verificata una soluzione di continuità, un trasloco che non lascia indirizzo. Fine, non c’è da voltare pagina, ci si riorganizza e basta. Detesto le cerimonie, rifuggo i funerali e non sopporto l’immagine dei cimiteri, o l’idea di portare fiori sulle tombe. Situazioni nelle quali mi sono venuto a trovare, ma che ho vissuto con ipocrisia. Non amavo mia madre? È probabile, ma con mio padre non è andata diversamente. Non li ho visti morire. Un’auto che bloccava l’uscita dal parcheggio mi ha fatto arrivare in ospedale pochi minuti dopo che mio padre era morto. E quando la badante ha suonato alla mia porta la mamma non respirava già più. Non ho dovuto chiudere i loro occhi, ma ricordo le mani calde e morbide. Ho intrecciato le mie dita alle loro e le ho tenute strette il tempo di un saluto, l’invito a non trattenersi, a seguire la loro strada dimenticandosi di noi. Poi mi sono occupato di ciò che andava fatto. Li penso raramente e sempre in collegamento ad episodi di vita. Non soffro per la loro assenza, né vado a rileggerne il nome sulla lapide. Mi chiedo se sia giusto, o se difetto di sentimenti. Non ho una risposta, ma vorrei che quel giorno anche gli altri facessero lo stesso con me. Gianpietro

15 gennaio 2013

Vengono soprattutto dall'Est ..


Vengono soprattutto dai paesi dell’Est, ma anche dal Perù, dalla Bolivia e dalle Filippine. Le abbiamo messe accanto alla fragilità e alla sofferenza di disabili e anziani, abbiamo affidato a loro i nostri affetti più cari, svolgono mansioni che nemmeno la nostra carità di figli potrebbero farci svolgere senza provare disgusto, però abbiamo messo loro un nome che non è né bello né dignitoso: le abbiamo chiamate badanti. Il termine viene dal mondo contadino e si riferisce alla persona che bada alle mucche o agli altri animali della stalla. Chi come me non ha mai amato questa parola ci gira intorno, ma susciterebbe derisione se dicesse di avere in casa una governante, una cameriera o una domestica. I ricchi hanno persone che svolgono quelle mansioni, la classe media ha le “badanti” per assistere i familiari e le “donne” per fare le pulizie. Ieri è stato il primo giorno di Nina (non è il suo vero nome, ma la chiamerò così) che è venuta per assistere la mia mamma anziana, mentre io sono al lavoro. Avrei baciato la terra su cui cammina, tanto è il sollievo e il conforto che ha portato nella mia vita. Dice che al suo paese ha fatto la fisioterapista e da quattro anni lavora in Italia, per far studiare i figli. Non c’è nessuna possibilità di controllare le informazioni, e ci si affida alle referenze, soprattutto se, come nel suo caso, ha già lavorato presso una famiglia che si conosce. Nina non esprime le sue emozioni, o per meglio dire ha una sola espressione: sorride sempre annuendo. A volte mi chiedo se abbia veramente capito, ma non voglio ferire la sua suscettibilità, ripetendole le cose più volte. Non sono ancora riuscita a capire che cosa le piaccia mangiare, perché a questa domanda risponde sempre che per lei  non è un problema. Ho riempito allora il frigorifero con tutto: filetto di manzo e di pollo, prosciutto, formaggio, verdure di tutti i tipi, frutta, vasetti di salsa e condimenti vari; e così la dispensa di pasta, funghi e tutte le cose che possono stare fuori dal frigorifero. Ed è divertente, perché, risolto il problema dell’assistenza di  mia madre, si presenta quello di assistere chi la assiste. Gli amici mi hanno detto che non appena trovano di meglio se ne vanno e ci lasciano così, senza  nemmeno un preavviso, e allora la vita diventa una gara per essere la famiglia migliore, presso cui possano desiderare di lavorare. Cristina

11 settembre 2012

Il silenzio

(pag. 22): "Voi parlate quando avete perduto la pace con i vostri pensieri."

Io amo il silenzio. Sono sempre stata poco loquace, fin da bambina, e in famiglia sono sempre stata rimproverata per questo: come se il non parlare in continuazione denotasse mancanza di partecipazione a ciò che accadeva intorno a me. Non sono in molti a dare il giusto valore al silenzio. Con i ragazzi che seguo dedico sempre almeno un incontro ad approfondire questo tema e più che altro a sperimentarlo. E risulta essere sempre l'incontro per loro più imbarazzante...
Comunque, dal momento che preferisco il silenzio, lascio a chi è più bravo di me con le parole il compito di commentare questo testo.
Maria Maddalena

17 agosto 2012

Gradini

L’estate è un tempo molto bello perché ci sono le vacanze e se si coglie questa opportunità come uno stato dell’anima e non come una corsa forsennata a intasare le autostrade è anche un tempo molto bello per fermarsi a pensare da soli o con gli amici o anche con qualche estraneo. L’altro giorno un amico mi diceva che lui da tempo pensa che si dovrebbe vivere ogni giorno come se fosse il primo e non l’ultimo, come qualcuno è invece solito dire e citava questa poesia di Hermann Hesse che è davvero molto bella e che vi voglio dedicare in questo ultimo giorno di vacanza, perché lunedì dovrò tornare al lavoro. Ogni giorno può essere un nuovo inizio per progredire e ampliare la nostra coscienza e a questo anche una poesia può servire. Cristina

Gradini (Hermann Hesse)
  
Come ogni fior languisce e
giovinezza cede a vecchiaia,
anche la vita in tutti i gradi suoi fiorisce,
insieme ad ogni senno e virtù, né può durare eterna.
Quando la vita chiama, il cuore
sia pronto a partire ed a ricominciare,
per offrirsi sereno e valoroso ad altri, nuovi vincoli e legami.
Ogni inizio contiene una magia
che ci protegge e a vivere ci aiuta.
Dobbiamo attraversare spazi e spazi,
senza fermare in alcun d'essi il piede,
lo spirto universal non vuol legarci,
ma su di grado in grado sollevarci.
Appena ci avvezziamo ad una sede
rischiamo d'infiacchire nell'ignavia:
sol chi e' disposto a muoversi e partire
vince la consuetudine inceppante.
Forse il momento stesso della morte
ci farà andare incontro a nuovi spazi:
della vita il richiamo non ha fine....
Su, cuore mio, congedati e guarisci...

3 luglio 2012

Sul dare

(pag. 8): "E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito. Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell'aria la sua fragranza."

Questo capitolo mi riporta all'episodio del Vangelo di Marco (Mc 10,17-31) in cui l'incapacità di un ricco di lasciare i propri beni dà a Gesù l'occasione per avvertire i propri discepoli del pericolo che consiste nel lasciarsi imprigionare nell'orizzonte soffocante delle ricchezze. Se il nostro sguardo è catturato dai beni (da quelli che si hanno e da quelli che si vorrebbero avere) saremo prigionieri dei beni. Vivremo nella paura di perderli o di non poterli mai avere. La ricchezza in sé non va però condannata. Non la mano, ma il cuore deve star lontano da essa. Si tratta di saperla utilizzare per il bene degli altri. Chi è ricco lo è per gli altri. Resta comunque sempre il fatto che è quando si dona se stessi che si dona veramente. E lo si deve fare "senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito". Perchè donarsi in questo modo fa sentir bene se stessi prima ancora dei beneficiari del proprio aiuto. Maria Maddalena

18 giugno 2012

Quale libertà oggi

(pag. 18 e pag. 19) “Se è un despota colui che volete detronizzare, badate prima che il trono eretto dentro di voi sia già stato distrutto. Poiché come può un tiranno governare uomini liberi e fieri, se non per una tirannia e un difetto della loro stessa libertà e del loro orgoglio?”

Si parla molto di libertà oggi e, come qualcuno ha giustamente detto a proposito dell’acqua, quando si parla molto di un bene, vuol dire che questo bene sta cominciando a scarseggiare. Ha ragione l’autore de “Il Profeta” a dire che la libertà comincia da noi stessi e se non abbiamo la libertà interiore, diventa allora inutile detronizzare potenti e tiranni, perché a un potere ne seguirà un altro, se ci sono uomini che non sanno vivere da uomini liberi. Ma, nella concretezza, cosa significa essere uomini liberi? Penso che voglia dire che c’è un bene che promuove la vita e oggettivamente pensabile e non dipende dalle circostanze, ed essere liberi significa avere la capacità di giudizio per individuare quel bene e operarlo. Socrate in catene, che decide di morire, piuttosto che scappare in esilio, non si piega all’arroganza del potere e se oggi il suo pensiero si è tramandato fino a noi e nutre ancora il nostro spirito è in virtù di quella scelta. Se Socrate fosse fuggito, non sarebbe stato per i suoi discepoli un esempio da seguire, perché, nel momento della massima libertà, quello della scelta, lui avrebbe preferito rinunciarvi, per salvarsi, e tutto quello che aveva detto fino a quel momento avrebbe perso di valore. Ma tornando ai nostri tempi, penso che libertà interiore voglia dire libertà della coscienza di riconoscere il bene anche nella situazione più drammatica e farlo. Non ci dobbiamo illudere che oggi possa nascere un  governo che ci assicuri la libertà, perché la democrazia, ammesso che sia mai esistita, oggi non c’è sicuramente e non ci dobbiamo illudere al riguardo. Possiamo, però, operare il bene, in qualunque situazione ci troviamo, e questa libertà non ci verrà mai a mancare. Cristina 

13 giugno 2012

Il lavoro

(pag. 11) Il lavoro è amore rivelato. E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.

Il capitolo sul lavoro de “Il Profeta” è molto bello dal punto di vista teorico, perché mostra che in ogni mestiere, anche quello umile del panettiere, ci può essere poesia, se svolto con amore e, se manca questa qualità, persino il pane verrebbe male. Ma gli antichi dicevano anche che prima bisogna vivere e poi fare della filosofia e leggendo la biografia dell’autore di questo libro si scopre che c’è della verità e del buon senso anche in questa affermazione. Gibran potè studiare, scrivere, dare vita a riviste e associazioni culturali, pur provenendo da una famiglia economicamente disagiata, solo perché ci fu chi lo mantenne, a cominciare dalla madre, con il suo lavoro di merciaia, poi, quando la madre morì, la sorella, con il suo lavoro di sartina, e per finire un'anziana amante, Mary Haskell, che finanziò la maggior parte delle sue iniziative. Nessuno scrittore riuscì mai a mantenersi con il proprio lavoro e fu principalmente per questo motivo che gli scrittori un tempo, o prevenivano da famiglie facoltose, oppure dovevano lavorare, svolgendo mestieri modesti, che non potevano certamente amare, come Pessoa e anche altri. Ci provò Proust a lavorare come bibliotecario o archivista, ma credo che non durò nemmeno un mese. Ma sarebbe certamente bello, non riuscendo a lavorare con gioia, vivere accettando la elemosina di chi con gioia, invece, lavora. Ma io credo che sia esattamente il contrario: che qualcuno possa lavorare con gioia, solo perché c’è chi, lavorando con disgusto, finanzia il suo lavoro. E non dobbiamo pensare per forza male, alludendo a corrotti e parassiti. Penso a chi lavora nella ricerca, con passione, dedicando a essa tutta la vita. Molto spesso lo può fare perché ci sono contribuenti, non sempre così felici di farlo né di lavorare, che lo sostengono. Allora questo capitolo lo modificherei sostanzialmente dicendo che, dovendo lavorare, cercheremo di essere almeno responsabili del nostro lavoro e di farlo bene, cercheremo anche di essere sempre gentili con tutti, sorridendo al mattino, quando entriamo al lavoro, anche quando non avremmo nessuna voglia di farlo. Cristina

12 giugno 2012

Sul matrimonio

(pag. 7) “Cantate e danzate insieme e state allegri, ma ognuno di voi sia solo. Come sole sono le corde del liuto, benché vibrino di musica uguale.”

Il capitolo sul matrimonio del libro che stiamo leggendo insieme: “Il Profeta” di Gibran istruisce sul valore della solitudine, che non è misantropia o egoismo, ma consapevolezza di essere una persona diversa dall’altra, con caratteristiche personali ben distinte, alle quali non occorre rinunciare, perché non c’è amore se manca la libertà di essere se stessi e se il rapporto di coppia viene vissuto come una prigione o come un dovere. Mi è piaciuta comunque l’espressione “cantate e danzate insieme e state allegri” perché credo che sia da questa allegria che riconosciamo che c’è l’amore. Certamente, nella vita insieme, ci sono momenti difficili, ma questa allegria non dovrebbe mai mancare, perché quando finisce la voglia di ridere insieme, finisce tutto. Sento spesso gli anziani che ricordano il tempo della giovinezza, quando bastava poco per divertirsi ed essere allegri e trovo strano che quel poco che bastava allora non si cerchi di tenerlo vivo, come si terrebbe vivo un piccolo fuoco, sotto la cenere del camino, che altrimenti rischierebbe di spegnersi. Oltre all’allegria c’è, a mio avviso, anche un’altra qualità importante, che vale per tutte le relazioni, ed è l’umorismo, che aiuta a ridimensionare tutto, perché nella vita insieme, spesso, si amplificano problemi, che non meriterebbero tanta importanza e preoccupazione. Cristina

10 giugno 2012

Quando l'amore chiama

(pag. 6) Quando l'amore vi chiama, seguitelo. Anche se le sue vie sono dure e scoscese e quando le sue ali vi avvolgeranno, affidatevi a lui. Anche se la sua lama, nascosta tra le piume, vi può ferire. E quando vi parla, abbiate fede in lui, anche se la sua voce può distruggere i vostri sogni come il vento del nord devasta il giardino. Poiché l'amore come vi incorona così vi crocefigge. E  come vi fa fiorire così vi reciderà. Come sale alla vostra sommità e accarezza i più teneri rami che fremono al sole, così scenderà alle vostre radici e le scuoterà fin dove si avvinghiano alla terra.

Non ci può essere vita senza l'amore. L'amore è  un dono, che  non dobbiamo nemmeno fare tanta fatica a cercare, perché non dobbiamo fare altro che aprire il cuore e allargare le braccia, per accoglierlo, quando lo incontriamo. Poi, la società ha cercato di incasellarlo in schemi e istituzioni, che hanno indubbiamente una loro utilità per dare stabilità e continuità all’amore, ma l’amore è una qualità spirituale, che poco ha a che fare con le nostre costruzioni e i nostri recinti. L’amore vero è quello che tiene insieme tutto l’universo: l’amore è forte, saldo ed eterno, ma siamo noi che, a volte, chiudiamo il cuore e non ne vogliamo sapere, perché ne abbiamo paura. Ma è anche vero che può procurare dolore. Per seguire l’amore, quando chiama - come dice il profeta - spesso si abbandona qualcuno: un padre o una madre, un altro uomo o un’altra donna, a volte una fede o una missione e questo porta spesso dolore. Basti pensare a Edith Stein, brillante allieva di Husserl, che dopo aver scoperto che non è la filosofia che porta alla verità, ma la scienza della croce, attraverso Cristo, rinunciò all’ebraismo, per convertirsi al cristianesimo, spezzando il cuore alla madre e lacerando i rapporti tra loro. Ma anche nella vita più normale, i genitori fanno esperienza di questa duplicità dell’amore. Poco tempo fa, chiesi a mia madre quali fossero stati i momenti più felici della sua vita e quali  quelli più dolorosi. Non ebbe alcuna esitazione a rispondere che quelli più felici erano stati la nascita dei figli e quelli più dolorosi erano stati a causa nostra. Cristina

6 maggio 2012

Principi e strategie della decrescita: le otto R

Parlando di decrescita, il passo successivo sarà identificare i principi e le strategie a cui si devono ispirare i comportamenti individuali, in particolare quelli di acquisto e di consumo e quelli collettivi nel suo complesso. Vengono di solito riassunti in modo schematico nelle cosiddette “otto R”: ridurre, riutilizzare, riciclare, rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare. Quanto portiamo queste strategie nel quotidiano della nostra esperienza, dobbiamo sempre tenere presente le due caratteristiche comuni: il dono e la scelta libera e gioiosa. Tradotte significano ad esempio contrastare la delocalizzazione, guidata da considerazioni esclusivamente economiche legate al vantaggio competitivo: il costo inferiore dei fattori di produzione, in particolare del lavoro e recuperare la dimensione locale della produzione: filiere locali o “corte”, finanziamenti alle imprese locali e del consumo: consumo “a Km 0”, G.a.s.-Gruppi di acquisto solidale, di cui abbiamo già parlato. Significa progettare beni che durano nel tempo e che non siano programmati per una obsolescenza rapida nell’ottica del consumo. Significa recuperare e rivalutare l’esistente e non desiderare ciò che è nuovo solo perché è nuovo. Significa ridurre per esempio l’accelerazione. Jean Robert e Dupuy svolsero un’analisi approfondita sul sistema automobilistico e arrivarono ad affermare che, al di là di una certa soglia, oggi ampiamente superata, nei grandi agglomerati urbani la moltiplicazione dei veicoli avvantaggia decisamente il pedone e il ciclista. Ma osserva Dupuy che l’alternativa radicale ai trasporti attuali: “non sono trasporti meno inquinanti, meno rumorosi e più rapidi; è una drastica riduzione della loro impronta nella nostra vita quotidiana.”. ”Gli utenti – scriveva già Illich – spezzeranno le catene del trasporto superpotente quando cominceranno di nuovo ad amare come un territorio il loro circondario e a temere di allontanarsene troppo spesso. […] Come compenso, si avrebbe il ritorno al senso del luogo di vita, che è un elemento strategico del programma della decrescita.” Non c’è comunque teoria buona che  non cominci dal quotidiano: da noi, dalla nostra famiglia, dalla  nostra casa. Proprio ieri sera, sentivo Luca Mercalli, un nucleare cosiddetto di quinta generazione, che in una trasmissione televisiva consigliava di approfittare di questa estate per cominciare a sbarazzarci del superfluo, dedicando tempo e risorse a tutto ciò che rende confortevole la nostra casa, riscaldamento e altro, limitando il consumo di energia, coltivando l’orto, chi ha la fortuna di averlo, curando l’igiene e la salute del nostro corpo, pensando, infine, che poi, di tutto il resto, si può anche fare senza. E a questo elenco di cose che si possono fare durante l’estate, evitando la dispersione e la passività che prende alcuni, aggiungo anche “rivalutare” l’ascolto dell’altro, chiunque esso sia, perché questo non può che far crescere e dare respiro alla nostra dimensione interiore. Cristina

28 aprile 2012

Il Profeta

Kahlil Gibran "IL PROFETA" pubblicato nel 1923. Questo è il secondo e-book che propongo. Si tratta dell'opera principale dello scrittore/pittore libanese. Anch'esso è un testo breve, ma a differenza del libro di Bach è pervaso da una vena poetica la cui efficacia dipende tuttavia dalla bravura del traduttore. Molte edizioni hanno a fronte il testo in inglese, ma non quella che ho trovato sulla rete e che ho messo a disposizione con un apposito link. Il libro affronta 26 temi ad ognuno dei quali viene dedicato un breve capitolo. Si va dal più noto "... i vostri figli non sono vostri figli ... ", al tema della libertà, dell'amicizia, della bellezza, della preghiera ... Tanti spunti di riflessione, tante considerazioni che possiamo analizzare e approfondire.
"... ed io dico che la vita è davvero oscurità se non c'è slancio,
e ogni slancio è cieco se non c'è conoscenza,
e ogni conoscenza è vana se non c'è attività,
e ogni attività è vuota se non c'è amore;
e quando voi lavorate con amore instaurate un legame con voi stessi, con gli altri, e con Dio."
Gianpietro

24 aprile 2012

TRAVIAN

Sorpresi? Consideratelo un momento di evasione, la ricreazione di metà mattinata a scuola. Vuole anche essere un omaggio al gioco che mi ha consentito di conoscere e stringere amicizia con Maria Maddalena. Si chiama TRAVIAN (non ne conosco l’etimologia) ed è un videogioco di strategia militare per browser di tipo multiplayer approdato dalla Germania in Italia nel 2005. Niente a che vedere con le grafiche cruente della maggior parte dei giochi di guerra. Assomiglia molto ai fumetti di Asterix e prevede un impegno che si protrae per circa un anno prima di completare un server di gioco. Normalmente si gioca in squadre (alleanze) di 40/50 giocatori che contendono uno scacchiere a diverse altre migliaia di appassionati. L’immagine del post documenta il risultato finale, la costruzione della Meraviglia (obiettivo che ogni player vorrebbe raggiungere). Quello dell’immagine è l’ultimo che abbiamo giocato (e vinto) e porta anche le firme di Galla (Maria Maddalena) e di Taranis (Gianpietro). 
Lo ammetto, mi sono divertito vestendo talvolta i panni del saggio che dispensa consigli a giovani apprendisti. Ovviamente, per loro sarò stato solo un vecchio rimbambito, brontolone e sputasentenze. E’ un gioco che consente di interagire e, nel tempo, è possibile capire chi c’è dietro ai nickname. Gli stessi comportamenti di gioco, le reazioni alle strategie adottate, evidenziano in modo chiaro il trasferimento nel mondo virtuale di gran parte dei comportamenti adottati in quello reale. Nasce come passatempo, ma per qualcuno diventa una dipendenza (vero Laura?). Durante il gioco si diventa amici o nemici per la pelle, poi, quando finisce, qualcuno ti dà appuntamento ad un nuovo turno di gioco, come se fossimo i personaggi della canzone di Vasco: "... e poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxi bar, o forse non ci incontreremo mai ognuno a rincorrere i suoi guai ...". Ma se si è fortunati ci si imbatte in persone eccezionali, come Maria Maddalena, appunto. Gianpietro

22 aprile 2012

Come si esce dalla via della crescita illimitata

“Quale che sia il vostro livello intellettuale o emotivo, capire di che cosa potete fare a meno è uno dei mezzi più efficaci per convincervi che siete liberi. […] Proviamo a rinunciare a qualcosa, non per abbellire la nostra vita, ma per ricordare a noi stessi quanto siamo attaccati a questo mondo moderno così com’è, e come potremmo tuttavia farne a meno.”(Illich e Cayley, La corruption du meilleur engendre le pire)
I teorici della decrescita sostengono da tempo che se la società dei consumi ha prodotto inizialmente benessere per molte persone, la sua crescita non sarà illimitata, come non saranno illimitate le risorse del pianeta, che ha continuato a utilizzare, senza alcun senso della misura. Paradossalmente, dall’arricchimento e dal benessere iniziale, si passerà all’impoverimento della maggior parte delle persone, provocando disperazione, miseria e suicidi. Chi è vissuto, finora, con il pensiero che questo destino sarebbe toccato alle generazioni successive oggi viene messo di fronte a questa tragica realtà dalla crisi mondiale, causata dai mercati finanziari, perché il fatto determinante e caratterizzante di questa società della crescita illimitata è che la vita dell’uomo non viene regolata da valori come la felicità, l’amicizia, la solidarietà, il bene comune, ma dall’economia. E’ sotto gli occhi di tutti che è l’economia oggi a orientare le nostre vite e a livello teorico questo era il pensiero sia del capitalismo, ma anche di Marx, che affermò il principio che è “l’economia che muove la storia”, mentre per i teorici della decrescita, come Latouche, Castoriadis, Ivan Illich, Nicholas Georgescu-Roegen, André Gorz, solo per citarne alcuni, le  nostre vite devono essere regolate da altro. Il primo presupposto per la decrescita è l’uscita dalla società dei consumi, ma perché questo non provochi frustrazione, deve essere un atto gioioso e libero. Occorre, allora, osservare come agisce la società dei consumi, per obbligarci a consumare sempre di più e quello che vuole.

Latouche indica tre pilastri del sistema consumistico che sono: la pubblicità, che crea il bisogno di consumare, il credito che fornisce i mezzi per consumare anche a chi non ne ha la possibilità immediata mediante l’indebitamento, l’obsolescenza programmata, che prevede il rinnovamento continuo del prodotto di consumo. La prima domanda che dobbiamo porci sarà dunque: è possibile far fronte in qualche modo all’assalto di questi tre pilastri? Per il credito, penso sia facile: basterebbe acquistare per contanti solo quello che è nelle nostre possibilità e tralasciare il resto. Non è facile restituire carte di credito e bancomat, perché le banche e tutto il sistema cercheranno di rendere la cosa difficile, ma basterà aprire il conto in una banca vicino a casa e scegliere un conto a costo zero per i prelievi. Più difficile evitare la pubblicità, che ormai agisce anche in modo subdolo, senza quasi che ce ne accorgiamo ed entra nelle nostre case, attraverso la televisione, interrompendo programmi, in continuazione. La pubblicità si può solo contrastare non acquistando, per esempio, i prodotti che maggiormente hanno invaso la nostra vita. Sulla obsolescenza programmata, invece, temo si possa fare poco: escono continuamente software che rendono i vari dispositivi obsoleti e bisogna cambiarli. L’unico rimedio, al momento, che ho potuto adottare è stato quello di acquistare un computer di una marca non conosciuta e poco pubblicizzata, che costava un terzo di quello di prima, con le stesse prestazioni e adeguato all’utilizzo che ne dovevo fare. Naturalmente, non è possibile esaurire un argomento tanto importante per la nostra vita personale e sociale con un solo post e vorrei scriverne altri, se ci sarà l’interesse a svilupparlo con i vostri commenti e le vostre esperienze personali. Cristina

15 aprile 2012

Odio e sofferenza


(pag. 44) … aveva giurato vendetta, era pronto a combattere contro lo stormo all’ultimo sangue, E così si accingeva a fabbricarsi il suo piccolo inferno privato … è chiaro che non ami la cattiveria e l’odio, questo no. Ma bisogna esercitarsi a discernere il vero gabbiano, a vedere la bontà che c’è in ognuno, e aiutarli a scoprirla da se stessi, in se stessi.

Non credo esista ostacolo più difficile da superare. Più ancora che giungere ad amare la sofferenza. Questa richiede infatti solo un rapporto con se stessi, nel quale gli altri o sono esclusi o sono anch’essi vittime. Ecco che allora si può elaborarla, comprenderla, accettarla, fino ad amarla per l’opportunità di rinascita interiore che sa offrire. Naturalmente c’è anche chi la legge solo come un nemico da odiare e da combattere e allora ne rimarrà vittima senza coglierne gli aspetti positivi. Amarla non significa ricercarla o non curarla, tutt’altro, ma poiché essa esiste da sempre e può colpire in qualunque momento noi e coloro con i quali ci relazioniamo, ecco che possiamo scegliere tra incolparne la natura (o la divinità), o servircene per compiere un passo avanti nel cammino dell’evoluzione.
Differente è il discorso quando ci poniamo a confronto con il male. In questo caso l’identificazione del male in chi lo compie è, il più delle volte, automatica. È tutt’altro che sottile la distinzione tra le espressioni: “è un criminale” ed “è una persona che ha commesso un crimine”. L’individuo, qualunque individuo, è più delle azioni che compie e finchè il male ci porterà a nutrire solo odio nei suoi confronti, resteremo invischiati del nostro “piccolo inferno privato”. Gianpietro
1994 carestia in Sudan. Il bambino avanza lentamente verso il campo profughi dell'ONU, distante oltre un chilometro, sotto lo sguardo interessato di un avvoltoio. Tre mesi dopo, il fotografo, Kevin Carter, ha vinto il premio Pulitzer grazie a questa immagine. La settimana successiva Carter si è suicidato. Nessuno conosce la sorte del bambino.