4 ottobre 2013

Una tragedia grande come il mare

La tragedia di Lampedusa, grande come il mare, nel quale è accaduta, mi ha fatto pensare alle tante persone, profughi o no, che vivono una vita tormentata dalla paura. E’ successo ai nostri genitori o nonni, che hanno vissuto il periodo della guerra, e non hanno più potuto dimenticare le incursioni, le perquisizioni e i bombardamenti. Ma c’è ancora tanta gente, al mondo, che vive in questo stato costante di terrore e non c’è bisogno di leggerlo sui giornali, quando scoppia la tragedia, perché, spesso, questa gente è molto più vicina di quello che noi pensiamo. Mi ero accorta, da tempo, che quando entravo in casa o in una stanza, dove lei era di spalle, la signora moldava, che da tanti anni viene in casa nostra, il giovedì, per aiutarci a fare le pulizie, sobbalzava e ci guardava con gli occhi spaventati per la paura. E’ una donna strana, che a me non ha mai ispirato troppa simpatia, e con mia madre aveva sempre da discutere e da litigare e minacciava sempre di andarsene. I motivi erano sempre piuttosto futili e tutti sul metodo di lavoro. L’una pensava che si dovesse spazzare prima di spolverare, l’altra l’esatto contrario. L’una pensava fosse meglio pulire una stanza alla volta, l’altra tutta la casa insieme. Fatto sta che con gli anni è invecchiata ed è diventata sempre più lenta, e tutte le volte che era ora di cena, dovevamo restare lì ad aspettare che lei finisse, perché non c’era una sedia su cui sedersi e la casa ancora sottosopra. Ma tutte le volte che minacciava di andarsene, mia madre, impietosita, la pregava di restare, e che facesse come credeva lei, perché a noi, le diceva, non importava. Questo anche perché, per il suo brutto carattere, veniva sempre licenziata dovunque andasse e certamente non avremmo potuto privarla anche di questo unico e stabile sostegno che era il magro stipendio che ha sempre preso da noi. Ieri sera, quando sono tornata a casa, le ho chiesto se fosse stata lei ad aver portato i fiori che avevo trovato sulla tomba di mia madre al cimitero. E così, mi ha confessato che lei va ogni tanto e su quella tomba piange tutte le sue lacrime. Non piange solo per mia madre, con la quale vorrebbe ancora litigare, ma anche per lei stessa e per la sua vita disgraziata. Le ho chiesto, allora, perché resti in Italia e se non ha una famiglia da cui tornare, soprattutto adesso che è anziana. Mi ha risposto, allora, che ha dovuto scappare, perché là ha un marito, che ha promesso di ucciderla e per di più sta occupando la sua casa, per cui non saprebbe nemmeno più dove andare. Era nata in un villaggio in cui la madre era l’unica levatrice e per lavoro doveva spesso assentarsi, anche per più giorni, fino a quando il bambino della partoriente, in travaglio, non fosse nato.
Quando era bambina, piangeva, per questa lontananza dalla madre e allora il padre, un perito meccanico, che curava la manutenzione dei trattori, la portava con sé in campagna, dove lei era felice e tornava a sorridere dall'alto del trattore, guardando il volo degli uccelli e inebriandosi del profumo dei fiori, delle piante, dell’erba e dei campi. Aveva deciso, così, che da grande lì avrebbe voluto lavorare e vivere per sempre. Terminata la scuola, che aveva frequentato per dieci anni, aveva trovato un impiego in una grande azienda agricola, con centoventi dipendenti, dove il suo lavoro era quello di organizzare la manodopera dei braccianti, secondo il lavoro che c’era da fare. L’altro suo sogno era quello di costruire una casa e in questo progetto i genitori l’avevano aiutata e incoraggiata, all'inizio, dicendole che una casa era il bene materiale più prezioso, perché dava la sicurezza di non dover dipendere da nessuno. Nel frattempo, però, aveva sposato un uomo violento, che la riempiva di botte e senza una ragione. Quando picchiava più forte, lei andava a denunciarlo, ma dopo l’interrogatorio della polizia, quello, arrabbiato, picchiava ancora più forte. Subì trent’anni di violenze e sevizie inenarrabili, crescendo i figli e lavorando, per costruire questa casa. Ma quando la casa fu finalmente terminata, il marito, armato di una spranga di legno, l’aveva picchiata, fino a ridurla a una maschera di sangue, per potersene impadronire. Lei svenne e quando riprese conoscenza scappò, così, tutta piena di sangue, scalza e mezzo svestita, rifugiandosi in un canneto, lungo la strada, non appena vedeva qualcuno, perché si vergognava. Raggiunse, così, la casa della figlia, che l’aiutò a fuggire in Italia e a raccogliere i soldi, tremila dollari, necessari. La mamma levatrice è morta due anni fa, e l’intero paese ha riempito le strade per andare al funerale, tanti erano quelli che in sessant'anni di lavoro aveva fatto nascere, ma lei nemmeno al funerale della madre è potuta andare, perché il marito continua a dire a tutti che se la incontra, questa volta, l’ammazza davvero. E’ una storia triste, ma la compassione non basta e penso proprio che dovrò aiutarla a cercare un secondo lavoro, oltre a quello che le posso ancora offrire io, anche se di questi tempi non so davvero come. Ma porterò nel cuore il ricordo di quella bambina allegra, che dall’alto del trattore guardava il volo degli uccelli e si riempiva del profumo dei fiori dei campi, e so già che quando si hanno pensieri positivi, come questi, alla fine, c’è sempre qualche santo in cielo o sulla terra che ci aiuta. Cristina

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