24 dicembre 2009

La fede

Come molte persone della mia generazione, ho ricevuto un’educazione cattolica deviante, centrata più sull’agire dell’uomo, che non sulla grazia dello spirito. Solo lontano dalla Chiesa o, in tempi più recenti, con una vicinanza un po’ defilata, ho potuto intraprendere un cammino personale di ricerca e di studio che, partendo da me stessa e dalla mia dimensione psichica e spirituale, maturasse la consapevolezza di una realtà che, comunque la si voglia chiamare, non finisce con l’uomo. Questo non mi ha comunque impedito di conoscere figure luminose del pensiero cristiano, che mi sono state di grande aiuto, ma si è trattato per lo più di voci un po’ fuori dal coro, rispetto a quella che è la gerarchia della chiesa cattolica. Sento talvolta fare delle distinzioni tra associazioni di volontariato laiche e religiose: se c’è una differenza e ci sarà sicuramente, questa non riguarda, a mio avviso, il ruolo di chi svolge un’attività di volontariato. La scelta personale credo debba stare molto più a monte ed è certamente libera e laica. Nella storia del servizio, ci sono stati - e tuttora persistono - modelli diversi, a cui si può fare riferimento. Quello più vecchio è senza dubbio quello tradizionale cattolico di aiutare gli altri, in vista di una ricompensa futura, nella vita ultraterrena. Non credo che una simile motivazione potrebbe sostenerci a lungo, considerando che, per quanto grande possa essere la nostra fede, non potremmo mettere quella che è comunque un’ipotesi a fondamento della nostra vita. Un altro modello, che risale all’ottocento, ma è un po’ duro a morire, è quello del benefattore, che aiuta gli altri, perché pensa di avere di più degli altri, ma soprattutto crede di meritare di più degli altri, perché quello che ha è frutto del suo lavoro o della sua intelligenza o del lavoro della sua famiglia e, molto spesso, il benefattore, proprio per questo motivo, contribuisce a mantenere nella società quella ingiustizia che crea il disagio, che poi lui vorrebbe attenuare con un atto di generosità. Ne sono un esempio tutti quelli che ritengono giusto accogliere gli stranieri, perché fanno un lavoro che noi non vogliamo più fare. Ma se crediamo nell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, perché uno dovrebbe mai fare un lavoro che altri non vogliono fare? La politica ha invece contribuito a creare un modello diverso, che è quello dell’operatore sociale, posizione profondamente sbagliata anche questa, perché non riconosce la dignità dell’altro a decidere per la sua vita, ma stabilisce lui quello che deve andare bene per un'altra persona: usa termini come “caso”, "aprire un caso" o “prendere in carico”, tutti indicativi del fatto che l’altro è il disgraziato, lo sfortunato. Inutile dire che tutti questi modelli, anche se superati, si intersecano ancora oggi e spesso ci inducono in errore: occorre dunque fare chiarezza, perché, anche se ognuno di noi cerca di fare il bene ed è in assoluta buona fede, è molto facile cadere in contraddizione. La conclusione, a cui mi ha portato la riflessione su questo argomento, è che alla base c’è una scelta libera dell’uomo e che non riguarda solo il servizio o aiutare gli altri, ma è quella che Einstein ha definito il fattore più importante nel dar forma alla nostra esistenza umana, che è quello di fissare una meta, laddove la meta è una società di esseri umani liberi e felici che si prodighino con costante sforzo interiore per liberarsi dal retaggio degli istinti antisociali e distruttivi”. Sulla base di questa scelta, che dovrebbe orientare tutta la nostra vita, è facile allora capire che il fondamento, che sta alla base dell’aiutare gli altri, non è un criterio di carità o di fede, ma un criterio più ampio di giustizia, che considera il diritto di cittadinanza di tutti gli uomini a vivere in pace, a stare bene e a non soffrire. Cristina

22 dicembre 2009

Ancora sulla verità

L’ultimo post di Cristina “Quale verità?”, oltre a generare una nutrita ed inusuale serie di commenti, mi ha indotto a riesumare un vecchio quesito sulla “verità” (oggettiva o soggettiva che sia) e che mi vede tuttora indeciso sulla risposta da dare. Il tema è delicato e può interessare tantissime situazioni (da quelle politiche a quelle mediche; da quelle assistenziali a quelle educative ….). L’immagine dell’attore Raymond Burr (il mitico avvocato Perry Mason) mi aiuta a delimitare il campo entro confini facilmente descrivibili. Ed ecco la domanda: “Se l’obiettivo della giustizia è la ricerca della verità e, di conseguenza, l’attribuzione delle responsabilità, come può un avvocato sostenere il falso, sapendo di farlo?”. Esemplificando: se difendo A e questi mi confessa di essere colpevole, in virtù di quale principio mi adopero per farlo assolvere, mettendo in dubbio le prove, le testimonianze, fino ad indirizzare i sospetti verso terze persone che so non colpevoli? E non ditemi che tutti gli avvocati sono in buona fede convinti dell’innocenza dei propri assistiti. Gianpietro

10 dicembre 2009

Quale verità?

Anni fa, in occasione di un incontro con un medico palliativista, che seguiva la formazione dei volontari, dedicati all’assistenza degli ammalati in fase cronica e irreversibile, a proposito di una sua affermazione sulla opportunità, da parte del medico, di dire la verità al malato, gli venne chiesto come doveva essere annunciata una notizia dolorosa e, soprattutto, fino a che punto doveva essere la verità. Rispose che la verità doveva essere quella che l’altro era in grado di sopportare. Verità, dunque, non fondata su un principio assunto (il nostro) e unico (scientifico), ma verità relazionale, rapportata ad un contesto più ampio della realtà, che è quello della dimensione psichica e spirituale del malato. Questo non significa certamente dire all’altro una verità non autentica, ma una verità che tenga conto dell’altro e non solo di noi stessi o di un ambito specifico, come sarebbe quello del solo quadro clinico. Questo concetto più ampio della verità relazionale mi torna spesso in mente nel rapporto con la persona da cui vado per il servizio EmmauS. Le indicazioni ricevute all’inizio di non interferire mai in una situazione familiare spesso complessa, di cui non disponiamo adeguate informazioni, non sono più sufficienti a supportare una relazione che dura da dieci anni. Il rapporto che ho adesso riflette pertanto la tensione tra un necessario distacco da una situazione che mi coinvolge limitatamente al tempo esiguo che le dedico ed un coinvolgimento emotivo e affettivo, che è pur necessario per mantenere viva una relazione, affinché questa cresca e sia produttiva per entrambi. Cristina