28 febbraio 2012

La memoria

"I ragazzi oggi non hanno memoria, e soprattutto non la coltivano, e tu sai che anche Michele non aveva memoria, o meglio non si piegava a respirarla e coltivarla. A coltivare le memorie ci siamo forse ancora tu, tua madre, e io, tu per temperamento, io e forse tua madre per temperamento e perché nella nostra vita presente non c'è nulla che valga i luoghi e gli attimi incontrati lungo il percorso. Mentre io li vivevo o li guardavo, quegli attimi o quei luoghi, essi avevano uno straordinario splendore, ma perché io sapevo che mi sarei curvato a ricordarli."
Così Natalia Ginzburg in “Caro Michele” coglieva il senso di un grande mutamento generazionale e anticipava quella perdita della memoria, individuale e collettiva, che potremmo anche chiamare la perdita del senso della storia, che caratterizza oramai tutto il nostro tempo. I ventenni di allora dovevano liberarsi del passato, per poter costruire un futuro diverso da quello dei genitori e questo era anche abbastanza comprensibile, perché non solo in quel periodo di grandi mutamenti, ma in qualunque periodo della storia, bisogna cercare di preparare un futuro migliore del tempo precedente. Quello che, a mio avviso, è sbagliato è non vedere la storia nella sua continuità, come se venissimo dal nulla, perché in questo modo non si può far altro che andare verso il nulla. Il presente deve per forza includere il passato, senza cancellarlo, senza esaltarlo, senza giudicarlo, ma cercando almeno di conoscerlo. Penso che questa operazione sia molto importante e per questo ho apprezzato il progetto chiamato “Locanda della memoria” di scrivere le biografie dei grandi anziani della nostra città. Ma più in generale penso che ognuno, indipendentemente dall’età, dovrebbe scrivere la propria biografia e, se è possibile, farlo in coppia, per conoscere meglio se stessi e anche l’altro. Credo che sia un buon esercizio che, se svolto correttamente, serve a riconciliarci con il passato e a godere meglio del presente, portandoci all’intima consapevolezza che le vicende del passato, che ci hanno fatto male, non possono più nuocerci, mentre il ricordo delle cose belle, che abbiamo vissuto, continueranno a rallegrarci per sempre. Cristina

27 febbraio 2012

Il buonumore

Il buonumore è stato definito il fratello minore della gioia e non c’è qualità migliore per un volontario. Un’anziana invalida, con alcuni problemi di relazione con la famiglia, mi disse che quando arrivava in casa la volontaria, che le prestava assistenza, le sembrava che entrasse il sole, e questa mi sembra una bella espressione che ci fa immaginare una persona sorridente e positiva, che porta un po’ di conforto e di serenità, dove sono venuti a mancare. Però, se chiediamo alle persone che cosa desiderano di più nella vita, le sentiamo rispondere che desiderano la felicità, ma la felicità sappiamo bene che non può essere uno stato permanente, in questa nostra vita terrena, così piena di conflitti e di insidie, mentre il buonumore, invece, può essere un aspetto della personalità più stabile, perché conosco persone che sono sempre di buonumore, nonostante la vita non abbia risparmiato a loro né dolori né affanni. Uno degli errori più comuni al riguardo penso che sia quello di pensare che si nasca con una determinata predisposizione al buonumore o al suo contrario e che non ci sia nulla da fare per cambiarla. Certamente non veniamo dal nulla e nasciamo o veniamo a contatto, già nei primissimi mesi della nostra infanzia, con elementi che influenzeranno le nostre caratteristiche personali future, ma non si deve pensare che queste caratteristiche non siano modificabili. Ci sono diverse tecniche che aiutano a migliorare il nostro umore, ma credo che tra le più efficaci ci sia l’accentuazione costante degli aspetti buoni delle cose, degli uomini e della vita. Questo non significa certamente non vedere i tanti aspetti negativi presenti nel mondo che ci circonda, che devono essere osservati con atteggiamento lucido e disincanto, per non vivere costantemente nella illusione, ma poi occorre volgere l’attenzione e l’apprezzamento verso quelli positivi. E concludo con questo dialogo in versi, tra San Francesco e un suo frate, della poetessa armena, naturalizzata italiana, Vittoria Aganoor Pompilij, riportato da Roberto Assagioli in "Lo sviluppo trans personale", che descrive bene questo atteggiamento:
“Santo Francesco, un triste parmi udire
fischiar di serpi sotto gli arboscelli”.
“Io non odo che il placido stormire
della pineta e l’inno degli uccelli”.
“Santo Francesco, vien per la silvestre
via, dallo stagno, un alito che pute”.
“Io sento odor di timo e di ginestra,
io bevo di gioia e di salute”.
“Santo Francesco, qui s’affonda, e ormai
vien la sera, e siam lungi dalle celle”.
“Leva gli occhi dal fango, uomo, e vedrai
nei celesti orti rifiorir le stelle”.

Cristina

19 febbraio 2012

Dieci motivi

... per diventare volontari biografi del progetto "La locanda della memoria".

1) La storia della tua comunità non sta scritta solo nei libri di storia o nelle gazzette locali. Esistono anche le verità individuali, tasselli ignoti ai più e destinati a perdersi se nessuno li fissa sulla carta.

2) Andandosene, ognuno porta via con sè una fetta del patrimonio comunitario. Essere l'Omero che ne tramanda le gesta, i pensieri, le emozioni, i ricordi, è privilegio non per tutti.

3) Disporre di una "cassetta degli attrezzi" non ti servirà solo per "raccogliere" la storia di un anziano "fragile/vulnerabile", ma ti aiuterà il giorno che davanti ad uno specchio, vero o immaginario, ti cimenterai con le pagine del tuo diario.

4) Un giorno, forse, anche tu desidererai che qualcuno si sieda di fronte a te, prema il tasto "rec" e ti chieda: "Mi racconta i momenti di svolta della sua vita?"

5) Saremo stati ciò che di noi verrà raccontato. Solo in una foto, in un testo potremo proporre il nostro ricordo, diversamente resteremo in balia della costruzione mentale degli altri.

6) Solo a pochi è concesso di avere una targa che testimoni il contributo dato al vivere comunitario. E' bello che a qualcuno venga offerta la possibilità di lasciare la propria testimonianza.

7) Poter dire: "Questo è ciò che tuo/a nonno/a ha raccontato di sè e del suo tempo. Questo testo è parte della sua eredità, leggendolo potrai rinsaldare il legame con la famiglia alla quale appartieni".

8) Chi ha già fatto questa esperienza può dirti quanto sia stata piacevole, coinvolgente, istruttiva. Prova a collocarla nella scala delle tue priorità.

9) Partecipare al corso di formazione, di alto livello, è gratuito; tranne la buona volontà e la curiosità, non sono richiesti prerequisiti (scolastici o sociali); l'assistenza tecnica e organizzativa è garantita.

10) Se non lo fai adesso, potresti non avere un'altra opportunità.

Gianpietro

Il risveglio dell'anima

Accade anche nella vita di una persona comune, talvolta in seguito a una serie di delusioni o la perdita di una persona, ma talvolta senza una causa apparente, anche in mezzo al benessere e alla fortuna, di provare una vaga inquietudine, un senso di insoddisfazione e di mancanza, ma non mancanza di qualcosa di concreto, ma di qualcosa di vago, che si è incapaci di definire. Così descrive questo stato dell'anima un grande scrittore, Lev Nikolàevič Tolstòj, nelle sue Confessioni:
“Ciò accadeva in un momento in cui, sotto tutti gli aspetti, avevo ciò che è considerato come la felicità completa. Non avevo ancora cinquant’anni, avevo una moglie amante e amata, dei bambini buoni, un gran possedimento che, senza alcuna mia fatica, si allargava e prosperava; ero più che mai rispettato dai miei parenti e dalle mie conoscenze; gli estranei mi colmavano di elogi e, senza falsa vanità, potevo credere che il mio nome fosse celebre. […] In tale stato giunsi a non poter più vivere e, avendo paura della morte, dovetti usare degli artifizi verso me stesso per non togliermi la vita”.
Certamente non sempre questo momento di crisi esistenziale appare in modo tanto drammatico nella vita delle persone: dipende dalla sensibilità, che è diversa per ogni persona, e da tanti altri fattori legati alla personalità, ma per molti si tratta di quel fenomeno che viene chiamato notte dell’anima e che è semplicemente un messaggio che ci avverte che la nostra vita materiale si è scollata, per tante ragioni, diverse per ognuno di noi, dalla vita spirituale, che erroneamente si pensa presente solo in chi ha fede, ma è latente in ogni uomo e, a un certo punto della nostra maturità psichica, chiede solo di venire attivata. Quante risposte sbagliate che diamo a questa richiesta, la più sbagliata è certamente il suicidio, perché questo avviene il più delle volte perché l’uomo ha paura di questa improvvisa libertà a cui l’anima aspira naturalmente e invece noi l’abbiamo soffocata con tutte le costruzioni immaginabili possibili, tranne quelle necessarie al suo respiro. Cristina

18 febbraio 2012

Sulla morale

Non c’è parola che la mia generazione abbia detestato di più della morale, assimilandola al moralismo dei benpensanti e a un passato del quale ci si doveva liberare, per un futuro di libertà, pace e giustizia. Certamente, oggi, godiamo di una maggiore libertà morale, ma penso che forse abbiamo ancora le idee un po’ confuse al riguardo. Alcuni pensano che la morale sia il rispetto della legge, dimenticando che non potrà mai essere una maggioranza di governo a stabilire ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ma deve essere la coscienza, come d’altra parte sosteneva Thoreau, nel suo trattato “Disobbedienza civile”: la legge va rispettata, ma se è ingiusta e contraria alla coscienza, bisogna fare di tutto per cambiarla. Altri pensano, invece, che la morale alla quale devono attenersi sia solo quella della loro coscienza. Ma in questo modo le cose si complicano, perché è chiaro che se gli uomini devono stare insieme, bisognerà mettersi d’accordo, perché la morale di uno può essere diversa da quella di un altro e le due morali possono entrare in conflitto tra loro. Nella storia del pensiero, c’è stato allora chi ha separato la morale, definendola individuale, dall’etica, come insieme dei costumi e delle usanze che gli uomini decidono insieme, per andare d’accordo. Ma è chiaro che anche morale individuale e morale comune devono per forza trovare un equilibrio, altrimenti si avrebbero degli individui schizofrenici e nevrotici. Penso dunque che anche nella morale, come per la libertà, occorra stabilire una gerarchia. La morale più alta ha sede nella coscienza dell’individuo e non può che essere libera e rivolta al suo bene e alla sua felicità. A un livello inferiore, c’è la morale comune, che è comunque regolata da quella superiore, ma della quale quella superiore dovrà necessariamente tenere conto. Cristina

17 febbraio 2012

La semplicità

“Essere semplici non è la partenza ma l’arrivo. […] Perché la semplicità è la semplificazione del complesso: non precede ma segue l’articolata analisi dell’età adulta, con la sua capacità di introspezione, di valutazione, di critica, di opzioni scaltrite, di indagini acute, di elaborati processi logici e di complicati itinerari psicologici. […] Non si può saltare il salvifico bagno nel complesso.” Così scrive la teologa Adriana Zarri, nel suo bellissimo libro “Un eremo non è un guscio di lumaca”, mettendo in guardia a non confondere la semplicità, che è un valore, con il semplicismo, che è ignoranza e superficialità. Il vangelo ci dice che dobbiamo diventare come i bambini, ma anche qui la Zarri spiega che non dice che dobbiamo “restare” come bambini, perché in altri punti lo stesso vangelo dice che bisogna crescere e diventare adulti, ma “diventare” come bambini, distinguendo l’infanzia degli anni, che è elementarità, infantilismo, semplicismo, dall’infanzia del regno, che viene dopo e raggiunge la semplicità nell’età adulta: punto di arrivo, dopo quello che chiama il "salvifico bagno nel complesso". Appare chiaro, anche a prescindere da un discorso di fede, che il cammino della nostra esistenza non può che tendere all’unità. L’essere umano è complesso e agisce, pensa e sente a diversi livelli e se tra questi livelli c’è conflitto, sente disagio e sofferenza, se c’è equilibrio, si sente sereno e rappacificato. Per questo è importante tenere presente che siamo in cammino verso la semplicità, che è unità, ma non monismo, bensì sintesi che include pluralità e movimento. Può accadere che per tutta la vita non si senta il bisogno di uscire dall’infanzia e si possa restare felici e contenti in questo stadio infantile e semplicistico. Poi, però, può succedere qualcosa, che ci mette di fronte la complessità dell’esistenza, e ci troviamo confusi e rischiamo di perderci e di lasciarci prendere dall’angoscia. Questo blog nasce da un corso di scrittura, che hanno fatto i volontari, proprio perché la scrittura aiuta a mettere in ordine i pensieri, necessità urgente per chi si trova, a un certo punto della vita, accanto alla sofferenza e alla morte, altrimenti tutte le emozioni negative che nascono da questa esperienza rischiano di vagare a lungo nell'inconscio, procurando solo danni. E’ importante ricordare questo, altrimenti tutti questi discorsi che facciamo o che leggiamo in questo blog rischiano di restare un vuoto esercizio di intellettualismo, fine a se stesso, e perciò completamente inutile. Cristina

16 febbraio 2012

Locanda della Memoria

Progetto LA LOCANDA DELLA MEMORIA
4^ Edizione 2012
uno spazio per scrivere di sè e far comunità locale


Vuoi diventare volontario biografo?
Raccogliere la storia di vita di un anziano è un modo originale ed efficace di allargare le relazioni, di contrastare l’isolamento e di condividere l’emozione della vita vissuta. Iscriviti (gratuitamente) al corso di formazione per imparare l’arte della scrittura autobiografica e per scrivere la storia di un anziano. Nelle biblioteche di Reggio Emilia già ci sono biografie che sono patrimonio della comunità. Vuoi contribuire anche tu? Hai un amico a cui può interessare e che puoi coinvolgere?
Ti aspettiamo.

(nel pannello in alto a destra trovi pubblicate in versione pdf le biografie realizzate nelle precedenti edizioni)

per maggiori informazioni chiama entro il 10 marzo 2012:
Annamaria Avanzini  - 338 6078545
Gianpietro Bevivino  - 340 6660401

La comprensione

Sappiamo bene che non possiamo fare a meno dell’amore e che dall’amore nascono la vita e la gioia di viverla, ma spesso ci troviamo in difficoltà quando vogliamo cercare di capire di che cosa sia fatto. L’amore è un assoluto, emanazione del divino, e credo che per questo dobbiamo accontentarci di un avvicinamento per approssimazione, per cui tutta la nostra vita non può che essere un cammino verso questo assoluto, che ci unisce al tutto, mettendo in conto cadute e regressioni per il nostro egoismo, qualità questa pure necessaria alla sopravvivenza, a patto di non superare i limiti necessari. Tornando a una definizione dell’amore, io penso che, anche se non siamo capaci di definirlo, perché, essendo un assoluto, trascende la ristrettezza delle nostre categorie umane, possiamo però arrivare, almeno, a descriverne le qualità. La qualità principale è per me la comprensione. La definizione che ho trovato sul mio dizionario di questa parola, però, non mi soddisfa, perché dice, tra i diversi significati, che è la capacità di intendere e giustificare sul piano pratico o di afferrare e valutare una cosa sul piano intellettivo. Io penso che sia qualcosa di più e che riguardi soprattutto una sfera superiore a quella intellettiva, dove ha sede l’intuizione. D’altra parte, se deve essere una qualità dell’amore, non può che essere spirituale. Sviluppata, invece, a un livello più basso, ci porta a giustificare il comportamento dell’altro, ma una simile comprensione non può che continuare a portare l’altro verso il basso, reiterando un eventuale comportamento sbagliato. Prendiamo, per esempio, la comprensione di una madre per un figlio che perde continuamente il lavoro, che si droga e procura guai a tutta la famiglia. La comprensione, in questo caso, dovrebbe essere un trampolino di lancio per il giovane che, seppure a fatica, acquisisce un senso di responsabilità tale, e non solo per sé, ma anche per gli altri, che gli stanno intorno, che lo spinge a rigenerare tutta quanta la sua vita. Se, invece, è una comprensione che si limita a giustificare il suo comportamento, non riuscirà mai a trovare in se stesso la creatività e le risorse per cambiare. Così penso che sia tra due innamorati. Si dice, a volte, che l’amore sia cieco. Credo, al contrario, che l’amore possa essere veggente e lungimirante e, anche in questo caso, la comprensione non dovrebbe giustificare un comportamento egoistico dell’altro, ma dovrebbe essere la fiamma che incendia il cuore dell’altro e lo porta, spontaneamente, a volere il bene della persona che ama. Un altro aspetto, a mio avviso, fuorviante della comprensione, oltre alla giustificazione di un comportamento sbagliato, è il consiglio. Si pensa di capire l’altro e per questo gli si offre un progetto di vita pre confezionato, sulla base del nostro: la vera comprensione, invece, è generosa e disinteressata, e lascia sempre libero chi la dà e chi la riceve. Cristina

11 febbraio 2012

Il gabbiano Jonathan Livingston

Più di tre ani fa ci eravamo cimentati, Cristina ed io, nella condivisione di alcuni brevi testi letterari. L'avevamo chiamato "book club". Scelto il libro(mettendolo, ove possibile, on-line) si commentavano, con post appositamente etichettati, la parti ritenute più stimolanti. Nell'elenco delle"etichette" potete recuperare "Oscar e la dama in rosa" di Eric-Emmanuel Schmitt, "Il piccolo principe" di Antoine DeSaint-Exupéry, "Ritratto di un amico" di Natalia Ginzburg. Ho rintracciato sul web i testi integrali di due libri che mi sono molto cari avendomi accompagnato, più di trent'anni fa, in un percorso (uno dei tanti) di rivisitazione dell'esistenza. Vi propongo per primo il breve testo di Richard Bach "Il gabbiano Jonathan Livingston" (nei links utili trovate la versione pdf). La semplicità della struttura e la presa immediata di molte espressioni (definirle insegnamenti sarebbe eccessivo) ne hanno garantito il successo e la larghissima presa sul pubblico dei lettori. Gli spunti di riflessione non mancano, basta sorvolare sullo stile e sullo spessore narrativo. D'altronde, non sempre complessità è sinonimo di chiarezza. Vi auguro buona (ri)lettura dandovi appuntamento tra un po' di tempo per i primi post. Mi piacerebbe che mantenessero l'impostazione grafica data al "book club" (numero di pagina - citazione - commento). Gianpietro
(ps: il secondo titolo? abbiate pazienza, ne parleremo più avanti)

Walden

“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.” La celebre frase di Thoreau mi risuona dentro in questi giorni in cui molte case e paesi sono diventati dei piccoli Walden, isolati dal mondo e, nello stesso tempo, una grande occasione per tutti, per guardare meglio in noi stessi e vedere che cosa siamo diventati, perché, spesso, di questo non ce ne accorgiamo nemmeno. Ho saputo di persone che si sono date da fare per portare cibo e medicine a chi stava lontano e non poteva muoversi; altri, invece, se ne stanno ancora rintanati in casa ad aspettare che torni il sole e piuttosto che prendere in mano una pala, per spalare la neve, morirebbero di stenti e d’inerzia. Poi, ci sono quelli come me, che il primo giorno in cui è venuto a nevicare si sono rigirati nel letto e hanno continuato a dormire, perché abituati da sempre ad avere qualcuno che provvede per loro. Il secondo giorno, però, mi sono accorta che per me non provvede più nessuno, perché tutti quelli che lo facevano, adesso, non ci sono più, e così, ben coperta e attrezzata, ho cominciato a spalare la neve che dal garage mi impediva di uscire con la macchina e mi sono accorta che un po’ di sano esercizio, ogni tanto, può anche fare bene. Il giorno dopo ancora, ho fatto un giro di telefonate ad amici e parenti che sono anziani, ma questi, previdenti, sapendo che sarebbe venuta la neve, avevano già fatto scorta di tutti i generi di prima necessità ed erano a posto.


La frase che ho citato all’inizio vuole dire certamente di più, ma è urgente che il nostro contatto con la natura torni a essere equilibrato e non ci possiamo permettere di essere così fragili o così sprovveduti da non mettere in conto una nevicata invernale. Cristina 

10 febbraio 2012

La vita significativa

Una parte dei volontari di Emmaus si dedica alla assistenza degli ammalati oncologici dell'hospice. In quel contesto, viene naturale interrogarsi sulla morte, ma, soprattutto, sul senso della vita, perché è inutile chiedersi che senso abbia la morte, se ancora non abbiamo capito quello della nostra vita. “Uno dei principali fattori che ci aiuterà a restare calmi e tranquilli al momento della morte è la maniera in cui abbiamo vissuto le nostre vite. […] Se la nostra vita quotidiana è in qualche modo positiva e significativa, quando arriverà la fine, anche se non la desideriamo, la accetteremo come una parte della nostra esistenza. Non avremo rimpianti. Vi potreste chiedere a questo punto che cosa si intenda, quando pensiamo di rendere la vita quotidiana significativa.” Questo parole sono del Dalai Lama e sono contenute nel libro “La via della liberazione”. Non conosco molto bene il buddismo, ma quello che conosco mi piace. Quello che apprezzo è soprattutto il tipo di insegnamento pratico che chiunque può seguire, indipendentemente dal credo e dai convincimenti personali. E’ una spiritualità che prima di tutto vuole aiutare l’uomo a liberare la sua vita dalla sofferenza e non perde tempo a giustificarla né a cercarla. Ma vediamo allora come si può fare a dare un senso alla nostra vita secondo il buddismo, che dice che abbiamo ottenuto una vita preziosa, sotto la forma di essere umano, ma ne disponiamo senza conoscerne il valore. Il primo insegnamento è quello di riconoscere che in noi agiscono istinti buoni, come l'empatia, la compassione, la solidarietà, che dobbiamo coltivare, come se fossero dei fiori o degli alberi, e istinti cattivi, come la rabbia, la vendetta, l'invidia, che provocano sofferenza soprattutto a chi li prova, che bisogna evitare, e per farlo occorre sviluppare delle tecniche, visualizzando, per esempio, i nostri tratti del volto, quando siamo arrabbiati, e così, possiamo vedere come diventano brutti, mentre quelli delle persone buone e serene sono distesi e scaldano il cuore, perché una delle proprietà dell'amore è che irradia la sua luce tutto intorno. Per fare questo, occorre dedicare del tempo alla meditazione, che per noi occidentali potrebbe essere la preghiera o semplicemente nutrire pensieri amorevoli verso quelli che soffrono e che spesso non possiamo aiutare perché distanti o al di sopra delle nostre forze. La vita moderna, purtroppo, ha ridotto se non annullato questo tempo, tanto che vediamo che anche monaci e sacerdoti dedicano molta parte della loro giornata alle attività pratiche, ma, per loro stessa ammissione, poco tempo, invece, alla preghiera e allo studio. “Il momento in cui sarete liberi da tutti gli impegni – dice il Dalai Lama – non arriverà mai, per questo ogni giorno dovete trovare il tempo per praticare. Dovete svegliarvi un po’ prima e cercare di trovare una o due ore nella mattinata per meditare. […] Generalmente, quando le persone invecchiano soffrono della vecchiaia e della malattia e la loro memoria si indebolisce. Ma appare evidente che la mente della gente che studia e medita in gioventù conserva freschezza e si mantiene attiva e agile anche nella vecchiaia.” A un gradino successivo, sta il pentimento per le nostre cattive azioni, che dobbiamo sempre purificare ammettendole, senza nasconderle e, nello stesso tempo, dobbiamo incominciare a rallegrarci per i meriti degli altri. Osservo, infatti, che molto spesso la gente è impegnata a giudicare e a criticare gli altri, ma questa cosa produce solo una grande negatività su tutti quelli che ci stanno intorno. Naturalmente gli insegnamenti del buddismo per rendere la vita più significativa e apprezzarne il valore sono tanti e non è possibile in questo spazio elencarli tutti, ma io penso che anche se ci limitassimo solo a questi, la nostra vita cambierebbe in meglio. Cristina

9 febbraio 2012

Sulla libertà

Sulle pagine di questo blog, il problema della libertà torna spesso, anche se per inciso, perché non c’è situazione o quasi che non ci metta di fronte alla domanda se siamo esseri liberi e responsabili o non lo siamo affatto. Certamente, se pretendiamo di rispondere a questa domanda con un sì o con un no non possiamo fare altro che constatare che la risposta è negativa; ma dobbiamo anche riconoscere che la vita è un fenomeno troppo complesso per ammettere una tale rigidità di pensiero e allora è opportuno pensare alla libertà come a un concetto fatto di mille sfumature o gradi. Il pensiero moderno sembra ormai tutto orientato a ritenere che nell'uomo esistano diversi livelli (spirituale, psichico, biologico) e che la sua felicità dipenda da una relazione armoniosa tra loro, mentre il conflitto tra questi provoca sofferenza. Appare dunque evidente che ognuno di questi livelli è regolato da leggi diverse e che per ognuno ci sia per l'uomo una diversa libertà di scelta. Il livello più alto di libertà è quello spirituale e questa è la libertà del santo, dell’eroe e del saggio. Più in basso, più vicino all'uomo, c'è il mondo morale, con il quale comunque la libertà spirituale non è in conflitto, perché ogni libertà superiore include e non esclude la libertà del mondo inferiore, dal quale non è separabile, perché non siamo puri spiriti. Gesù e i primi martiri cristiani si sarebbero comportati ugualmente bene se, invece di andare incontro alla morte, avessero colto l'occasione per scappare dalla loro prigionia e avessero continuato il loro insegnamento fuori dal paese in cui erano stati resi prigionieri. Scelsero invece la vittoria sul loro istinto di auto conservazione e camminarono incontro alla morte del corpo fisico. A un livello più basso del mondo morale, c’è il mondo biologico, con i suoi istinti e le sue pulsioni, che hanno anch’essi la loro importanza, per cui una legge morale troppo rigida che imponesse, per esempio, la castità o togliesse all’uomo la possibilità di auto determinare quando è ora per lui di morire, sarebbe assurda. Il discorso sulla libertà non si esaurisce certamente qui e queste sono solo alcune riflessioni, per cercare di dare una risposta alla domanda iniziale che avevo posto sulla relazione tra felicità e responsabilità, perché è chiaro che il discorso della felicità è strettamente legato a quello della libertà, senza la quale l’uomo non può essere felice. Cristina

8 febbraio 2012

Nel silenzio

Un tema che mi è molto caro è il silenzio, ma del silenzio lascio parlare poeti e scrittori, che hanno saputo trovare le parole giuste, per evocare questa dimensione interiore così vicina al sublime.
Osho Rajneesh
…Nel silenzio
diventa come una canna
di bambù, cava, vuota dentro:
e appena sarai diventato
come una canna di bambù e
avrai fatto il vuoto dentro di
te, ecco, le labbra divine ti
si accosteranno e la canzone
divina avrà inizio”
(P.Andrea Scnhöeller “La via del Silenzio” ed. Appunti di viaggio)
Vivekananda
“Siediti ai bordi dell’aurora,
per te sorgerà il sole.
Siediti ai bordi della notte,
per te scintilleranno le stelle.
Siediti ai bordi del torrente,
per te canterà l’usignolo.
Siediti ai bordi del silenzio,
e Dio ti parlerà.
Entrare in se stessi, fare
silenzio, restare in attesa…”
Tiziano Terzani

“Il silenzio lassù era un suono.
Un simbolo dell’armonia
dei contrari a cui aspiravo?...
La voce di Dio? La musica
delle sfere?....Senza silenzio
non c’è parola. Non c’è
musica. Senza silenzio non
si sente. Solo nel silenzio è
possibile tornare in sintonia
con se stessi…”
(Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” Ed.Longanesi)

Etty Hillesum
“Mi siedo in silenzio
e mi riposo in me stessa,
e questo lo chiamo riposarmi
in Dio”
(Etty Hillesum “Diario 42/43” Ed.Adelphi)

Swami Paramananda 
“La perla di
gran valore è nascosta profondamente;
come un pescatore
di perle, anima mia, tuffati,
tuffati nel profondo, e cerca,
cerca senza stancarti…”


Cristina

7 febbraio 2012

La rinuncia

I mistici come S. Giovanni della Croce dicevano che non bisognava possedere niente, per potere avere tutto, e così, la rinuncia ai beni terreni, che non durano, è sempre stata un requisito importante per chi aveva invece fame e sete di assoluto. Ma l’educazione alla rinuncia è stato anche un punto fermo della educazione laica, almeno fino alla prima metà del secolo scorso. Si narra che a Montaigne, nato in una nobile famiglia di mercanti nel ‘500, il padre offrisse un'educazione secondo i principi dell'umanesimo e che venisse inviato, per questo, a balia in un povero villaggio, perché si abituasse “al modo di vivere più umile e comune”. La nostra generazione è invece cresciuta nella illusione, alimentata da una società dei consumi, che deve continuamente produrre nuovi bisogni, per poter sopravvivere economicamente, che si potesse avere tutto. Abbiamo dovuto invece imparare, a nostre spese, che tutto non si può avere e ci si è posti così il problema della scelta consapevole. Rinunciare ai figli o alla carriera? Rinunciare a una vocazione che poteva portarci lontano da casa o al matrimonio? Qualunque fosse la decisione, però, abbiamo avuto la libertà della scelta e questo, rispetto alle generazioni precedenti, che non l’hanno avuta, è stato un progresso, anche se forse non ci ha procurato la felicità. Il giornalista Enzo Biagi diceva che un tempo c’erano scelte obbligate, ma qualche volta capitava di essere più felici di oggi, anche se all’uomo sembra ora essere concesso tutto per il raggiungimento della sua felicità. Nasce allora la domanda se la rinuncia sia un valore oppure soltanto una necessità. Io tendo a pensare che la rinuncia sia un valore a patto di sapere, però, a cosa vogliamo rinunciare e quale ne sia il vantaggio, perché una rinuncia fine a se stessa, o vantaggiosa solo per un ipotetico aldilà, non avrebbe certamente molto senso. D’altra parte, il desiderio è tra gli elementi dinamici della personalità che muovono in avanti la nostra vita, senza i quali non ci sarebbe per noi nessuna crescita, e quindi non va rimosso, né represso. Ma se analizzassimo bene i nostri desideri, scopriremmo che la maggior parte di essi non nascono nell’intimo del nostro essere, ma vengono indotti dall’esterno. Ecco allora la sofferenza e la frustrazione di non poter appagare questi desideri, che però non sono i nostri. Occorre allora ritirarsi nell’intimo più profondo del nostro essere e liberarci il più possibile dalle influenze esterne, per trovare quello che veramente desideriamo e vogliamo e concentrarci solo su quello, per farlo diventare realtà. Nel rapporto, però, che abbiamo con persone che soffrono una situazione di disagio e di privazione di beni materiali, non possiamo certamente metterci a disquisire intorno a quello di cui pensiamo potrebbero fare senza, perché sarebbe come mettere addosso agli altri pesi che noi stessi non siamo in grado di sopportare o, se li sopportiamo, è perché abbiamo compiuto un certo percorso, che non è detto che loro abbiano voglia di fare. In molti casi, poi, i veri educatori sono proprio quelli che sono riusciti a realizzare la loro felicità e i loro sogni, pur essendo privi di ciò che a noi, un tempo, sembrava invece indispensabile. Cristina

5 febbraio 2012

La ricompensa di un grazie

Nel post “La ricompensa”, del 2 febbraio, Cristina si chiede (e ci chiede) se “procederemmo in questo cammino di solidarietà se non esistesse davvero nessuna ricompensa al nostro impegno” e nel farlo accomuna il “servizio” individuale alla “organizzazione” di riferimento che necessita di risorse economiche per la sua sussistenza. Mi permetto di dissentire. Premesso che si può svolgere attività di volontariato anche senza aderire ad una organizzazione, il farne parte tuttavia porta evidenti vantaggi sia per il volontario che per i destinatari (non credo sia il caso di farne un elenco in questa sede). Limitandoci a considerare solo gli enti che operano con correttezza e nel rispetto, sia delle norme di legge, che dei principi di solidarietà, più complessa è l’organizzazione più consistenti sono i bisogni di natura economica. Si va dagli affitti, alle spese telefoniche, ai premi assicurativi, ai costi di stampa, agli onorari dei professionisti esterni; componenti di costo che sono già tipiche di piccole associazioni come EmmauS, fino a strutture transnazionali quali Medici senza frontiere o Emergency con gli impegni logistici, immobiliari e professionali che si possono immaginare. In tutti i casi si tratta di attività che implicano l’impiego di denaro e questo si ottiene da quote associative, da donazioni, da finanziamenti pubblici e da contributi volontari. L’importante è che nulla di questo flusso di denaro, che può raggiungere anche valori significativi, costituisca fonte di lucro, o venga distratto dalle finalità per le quali è stato raccolto. Si, certo, le associazioni di volontariato ottengono somme di denaro e queste saranno tanto maggiori quanto più meritorio sarà il servizio svolto. Ma questa non è una “forma di ricompensa”, qui siamo di fronte a “sostegni all’attività” senza i quali l’organizzazione non potrebbe nemmeno far fronte agli obblighi di legge. O dobbiamo pretendere che i fornitori di servizi si attivino gratuitamente se il richiedente è una associazione di volontariato? Partecipare alla vita delle associazioni, curandone l’organizzazione e garantendone la trasparenza è meritorio al pari del servizio svolto sul campo. Vi si può essere portati o meno, in ogni caso non credo proprio che possa costituire "ostacolo all’espansione delle coscienze". Il volontario può essere soggetto alla tentazione di ricevere (rifiuto l’idea che possa pretenderla) una ricompensa, ma questa potrà venire dall’attività sul campo, non certo dall’interno dell’organizzazione di appartenenza. Ho assemblato sul post di Cristina l’immagine del bilancio di EmmauS con quella della confezione di marmellata. Il primo ha consistenza monetaria, il secondo è fatto di affetto e di riconoscenza. Rifiutare la confettura (se non sollecitata e se non diviene abitudine) non è sinonimo di gratuità, ma solo di maleducazione. Seguo da anni un gruppo di ragazzi in una attività di teatro/danza e a fine corso realizziamo uno spettacolo che portiamo in scena laddove ci viene richiesto. L’estate scorsa siamo andati a rappresentarlo in un quartiere di Bologna. Al termine la regista voleva che accettassi una quota del compenso ricevuto dall’amministrazione comunale organizzatrice “a titolo di rimborso spese”, “non ho avuto spese, sono venuto sul mezzo della comunità”, “si ma hai impegnato il pomeriggio e la serata”, “è il tempo che ho deciso di mettere a disposizione del gruppo e per quello non esiste una tariffa”. Fine della tentazione. Ma la vera tentazione, subdola perché siamo noi stessi a sollecitarla sta nel sentirsi “più bravi degli altri”, nell'avvertire l’orgoglio che cresce dentro, fino a farci disprezzare chi non si impegna nel sociale. Questa si che va riconosciuta e combattuta perché se siamo arrivati a quel punto vuol dire che non c’è più amore in ciò che facciamo e se manca l’amore viene meno l’unica fonte di soddisfazione che è concessa al volontario. Se vogliamo parlare di vera gratuità dobbiamo fare riferimento, non tanto al denaro che, lo ripeto, non può entrare in gioco, quanto al piacere di sentirsi dire un grazie, all’aspettativa di un apprezzamento per il servizio svolto. Si tratta di tentazioni? Si, certo, e non vanno ricercate. Ma anche un bel voto o un complimento ogni tanto rappresentano per lo studente un viatico per meglio affrontare le difficoltà (e tutti noi sappiamo quanto siano facili da incontrare nel nostro servizio). L’importante è il grazie che ci nasce dentro, ma accettare la ricompensa di un grazie che ci viene dall’esterno può essere segno di umiltà, così come il respingerlo o il rifuggirlo può significare superbia. Gianpietro

4 febbraio 2012

Vittime e aggressori


Nella vita di tutti i giorni, assumiamo spesso, come meccanismo di difesa, il ruolo di vittima o di aggressore e questi due ruoli sono perfettamente intercambiabili tra loro, per cui basta un attimo per trovarsi nell’uno o nell’altro, a volte, quasi senza accorgercene. Sabato scorso, sono stata presa di mira dalla proprietaria di un negozio di abbigliamento, che voleva vendermi, a tutti i costi, tre vestiti, di cui non avevo assolutamente bisogno, solo per essere entrata a dare un’occhiata, per vedere se c’era qualche occasione. Le ha provate tutte per convincermi, usando tutti gli argomenti, a suo avviso, più persuasivi: la lusinga, il vanto per il prodotto che vendeva, lo sconto, la convenienza di una eventuale dilazione di pagamento, e simili. Secondo la definizione comune, la vittima è un individuo che dà sempre ragione all’altro, senza essere necessariamente d’accordo: e in quel momento, mi sono sentita davvero una vittima, perché la petulanza della commerciante non lasciava spazio a nessuna replica. Il termine aggressore deriva invece dal latino aggredior che originariamente significava “andare verso”, ma con il tempo ha assunto un significato più ostile cioè “sopraffare con intenzione malevola”. Uscita dal negozio, da una settimana racconto a tutti quello che mi è successo, suscitando la comprensione nei miei riguardi e i commenti malevoli e la disapprovazione di tutti nei confronti di quella signora, mancando anche di comprensione nei riguardi del lavoro difficile di un commerciante, che ha investito in un magazzino che, in tempo di crisi, resta fermo, con grave danno economico per la gestione della sua attività. Ed ecco così che sono diventata, a mia volta, aggressore. La recente manovra di governo ha fatto slittare, in un colpo, di quattro anni l’età nella quale potrò finalmente ritirarmi dal lavoro e ho provato un grande senso di oppressione e di ingiustizia nei confronti di uno stato che si permette di decidere così della mia vita, cambiandone improvvisamente il corso, senza potere fare nulla, e mi ha letteralmente scandalizzato il discorso del ministro che ha detto che fino adesso i pensionati hanno goduto di un grande privilegio, per il fatto di essere andati in pensione con il sistema retributivo, e che quella di adesso è una politica che vuole ristabilire finalmente l’equità. Poi, ho visto il ministro piangere in televisione, ed è una donna che ha l’età nella quale io dovrei andare in pensione e lavora ancora e forse, chissà, in quel momento anche lei si sarà sentita vittima di un sistema che le imponeva di fare quello per cui lei forse non era nemmeno tanto d’accordo, far pagare cioè la crisi ai più poveri, lasciando fuori i banchieri e chi possiede grandi patrimoni. Come uscire, allora, da questo circolo vizioso che ci fa essere tutti ora vittime e ora aggressori, nella vita di tutti i giorni? Penso che intanto sia importante la consapevolezza di questa intercambiabilità e di non pensarci, per esempio, eterne vittime tutta la vita. L’anziano, che pretende di essere assistito sempre e sacrifica la vita dei figli, anche quando non sarebbe necessario, è in quel momento un aggressore e non bisogna fare della facile retorica su questo, anche quando l’anziano è certamente, a sua volta, vittima di una società e di un sistema, che gli offrono poco aiuto. Il secondo passo per uscire dal ruolo di vittima è quello di rinunciare alla autocommiserazione e incominciare a vedere tutto quello che c’è di buono dentro di noi e che di buono facciamo o abbiamo fatto, e anche del bene che riceviamo o abbiamo ricevuto dagli altri. Ma anche l’aggressore, alla fine, aggredisce perché non ha molta fiducia in se stesso, e non sa spiegare bene e pacatamente le sue motivazioni e quello che ha dentro, e se lo facesse, molto probabilmente, potrebbe trovare più facilmente un accordo con l’altro o sentire le sue emozioni, e a quel punto capirebbe che anche il suo ruolo è legato alla sofferenza, non solo dell’altro, ma anche sua. Cristina

2 febbraio 2012

La ricompensa

“Rare volte agiamo nella vita senza attenderci ricompense, siano esse materiali, economiche, affettive, di stima, spirituali, ecc. Il desiderio di una più o meno gratificante ricompensa si nasconde dietro a ogni nostra azione, impegno e, in genere, a ogni nostro comportamento. Nel cammino psicologico, da una lettura, da una conferenza, da un intervento effettuato sulla nostra psiche, ci attendiamo una ricompensa sia pur quella di migliorare un poco certi nostri aspetti psicologici ritenuti fragili. Nasce quindi la domanda: procederemmo nel cammino evolutivo se non esistesse l’ipotesi di ricompense ai nostri sforzi?” Comincia così l’articolo di uno psicologo, che ho già avuto occasione di citare sulle pagine di questo blog, che si chiama Piermaria Bonacina. Trasferendo la domanda, che l’autore di questo articolo si pone, al volontariato, di cui ci occupiamo, possiamo quindi chiederci, anche noi, se procederemmo in questo cammino della solidarietà se non esistesse davvero nessuna ricompensa al nostro impegno. Occorre subito dire, con grande chiarezza, che il discorso che al servizio non venga associata nessuna forma di ricompensa è certamente superato dal fatto che ogni organizzazione ha bisogno di risorse economiche per potere andare avanti e pagare almeno l’affitto di un locale, le bollette telefoniche, la pubblicità, solo per citare alcuni costi. Noi volontari, dunque, lavoriamo all’interno di organizzazioni o enti che gestiscono somme di denaro e se svolgiamo bene il nostro lavoro di volontariato, questo fatto, con molte probabilità, comporterà risorse maggiori in termini di offerte, elargizioni di fondi o contributi di sostegno da parte dei cittadini, del comune o dello stato. Io penso che sia importante fare chiarezza su questo, per poter delimitare bene l’ambito entro il quale ha senso parlare di gratuità del servizio e questo ambito, nella maggior parte dei casi, è soltanto quello personale. Anche qui, però, dobbiamo essere chiari fino in fondo e ammettere che a livello di personalità siamo fatti di tanti elementi, a volte persino in contrasto tra loro, che possono arrivare a esprimersi in vere e profonde contraddizioni. Nella mia esperienza personale di volontariato, ho scelto di non partecipare alla vita delle organizzazioni per le quali mi impegnavo, proprio per evitare di rendere vano lo sforzo che, se ben indirizzato, può portare a una espansione della coscienza, ma occorre stare lontani da ogni tentazione di ricevere una ricompensa, fosse anche in termini di un apprezzamento o del compiacimento di se stessi, perché la nostra energia psichica si sviluppa infinitamente meglio e procede con gioia nel lavoro impersonale per il bene comune, quando non c’è attaccamento alcuno a questo desiderio. Cristina

1 febbraio 2012

La gentilezza

Aldous Huxley, studioso delle filosofie e tecniche per lo sviluppo delle potenzialità umane, disse in una conferenza: “La gente spesso mi domanda quale sia la tecnica più efficace per trasformare la propria vita. Con imbarazzo, dopo anni e anni di ricerche e sperimentazioni, devo dire che la risposta migliore è just be a little kinder, prova ad essere un po’ più gentile”. La gentilezza, nel servizio che svolgiamo, è indispensabile, ma per essere gentili occorre molto esercizio e volontà, perché, spesso, le situazioni delle quali ci occupiamo mettono a dura prova la nostra pazienza. E’ una qualità, la gentilezza, che ha davvero il grande potere di trasformare il mondo intorno a noi. Tra le mie attività di lavoro c’è quella di occuparmi di eventuali conflitti con clienti che non sono rimasti soddisfatti della qualità del prodotto che hanno acquistato, e quando mi telefonano, a volte, non riesco nemmeno a capire bene quello che mi dicono né decidere cosa fare per aiutarli, tanto è esasperato e aggressivo il loro tono. La tentazione sarebbe quella di urlare ancora più forte e a volte lo faccio davvero, ma l’unico atteggiamento capace di farli ragionare è quello di abbassare il tono della voce e di essere gentile, oltre a offrire, naturalmente, un modo efficace per risolvere il loro problema. C’è chi dice, invece, che la gentilezza oggi non serve e sostiene che in questo mondo valgono solo le maniere forti e vince chi urla di più. Ma qui dobbiamo fare attenzione a non scambiare la gentilezza per arrendevolezza o servilismo. La gentilezza, che è sostanzialmente fermezza, è una qualità forte, perché non permette alle nostre emozioni di dominarci, ma ci consente di svolgere al meglio il lavoro che dobbiamo fare, con sereno distacco nei confronti di reazioni negative, che cercheremo di comprendere, senza assimilare. Cristina