30 dicembre 2008

un sereno 2009

Questa sera ho voluto rileggere i post del nostro blog, seguendo dapprima l’ordine cronologico, poi in modo del tutto casuale e mi sono accorto di provare le stesse emozioni che avevo sperimentato la prima volta. Gli scritti mi sono apparsi freschi, mai banali, piacevoli e ricchi di spunti di riflessione. Una cosa ben fatta, insomma. La rete trabocca di blog, in gran parte appena abbozzati e spesso gonfi di orpelli inutili, anche se di richiamo. Altri invece sono particolarmente complessi e ben curati e puntano ad incrementare il contatore dei commenti, limitati a piccoli flash, ma che sono indicativi del grado di popolarità del blog. Se scrivere un post può sembrare impegnativo (ma vi assicuro che, superato l’impatto della novità, così non è), aggiungere un commento richiede un impegno nettamente inferiore e può comunque favorire l’instaurarsi di un dialogo tra i lettori.
“Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma noi siamo scienza, non fantascienza” recitava lo slogan di una vecchia pubblicità ed in noi, oltre all’inesperienza nell’uso dello strumento, è prevalsa la volontà di creare un ambiente rilassante, accattivante come il salotto di una biblioteca, dove, chi vuole, può sedersi a leggere o scrivere senza il timore di essere disturbato. A me sembra che ci siamo riusciti e gran parte del merito va dato a
Cristina che ha preso a cuore questa creatura, quasi si trattasse dell’assunzione di un nuovo servizio di volontariato. Per superare gli inevitabili momenti di scoramento era importante mantenere vivo il blog, continuare ad alimentarlo con sempre nuovi post ed è ciò che abbiamo cercato di fare. Non per dovere, ma perché il farlo ci procurava piacere. Il giorno in cui mi accorgessi di non divertirmi più, vi scriverei un post di saluto e farei dell’altro. È nata così anche l’idea del “book-club” (dopo il libro “Oscar e la dama in rosa” proveremo, a febbraio, a proporne un secondo) ed è in cantiere l’ipotesi di realizzare un vero e-book (un libro da sfogliare in rete) confezionato, capitolo dopo capitolo, con i testi prodotti dai volontari (non è una novità, altri l’hanno fatto e tecnicamente non presenta grossi problemi). Parlando degli aspetti tecnici, credo che la diffusione di internet all’interno delle famiglie e, magari, un piccolo sforzo promozionale, potranno fare crescere la famiglia degli “autori” di nuovi post. Già oggi la lettura e l’inserimento di commenti sono liberi a tutto il web (salvo un doveroso filtro per evitare danni d’immagine): credo che il prossimo passo debba essere l’apertura ad altri settori del volontariato anche per quanto riguarda l’abilitazione alla scrittura di nuovi testi. Prima di ringraziare tutti voi per l’attenzione che riservate a questo nostro blog, ed in particolare a quanti si adoperano per agevolarne la diffusione, mi preme sottolineare che nessuno deve sentirsi giudicato per la qualità estetica o per i contenuti di ciò che propone. Ognuno ha un proprio stile, e nessuno deve sentirsi frenato nella possibilità di esprimersi a causa della convinzione di “non essere all’altezza. Ciò che conta è la volontà di rendere partecipi gli altri delle proprie emozioni. Parliamo di “scrittura emotiva”, non di prosa da premio Nobel per la letteratura. Spesso, sono proprio le cose dette in modo semplice e diretto quelle che restano impresse e che ci aiutano a crescere. A volte le tante citazioni, più o meno dotte, (ed io sono uno che non si tira certo indietro) se da un lato denotano la volontà di approfondire le tematiche trattate, dall’altro rischiano di fare restare le emozioni in superficie senza che incidano nel profondo del cuore.
Non fate mancare il vostro prezioso contributo!
Un sereno 2009 a voi, alle vostre famiglie, ed ai vostri assistiti.
Gianpietro 

29 dicembre 2008

Troppo tardi

Una delle prime cose che chi vive un'esperienza assistenziale con malati gravi impara è che certe occasioni, nella vita, non si ripetono: c'è un limite oltre il quale è troppo tardi. Se ne accorse subito la psichiatra svizzera Elisabeth Kubler-Ross, che dedicò la vita allo studio della psicologia dei malati in fase avanzata. Un malato aveva chiesto di parlare con lei, un'occasione che la dottoressa aspettava da tempo, perché l'uomo, chiuso nel suo dolore, non voleva parlare con nessuno, ma la sua agenda era piena di impegni e lei gli riservò la prima data libera. L'incontro però non avvenne mai, perché il malato, nel frattempo, morì. Nel suo libro "La morte e il morire", scrisse che da quell'esperienza imparò che, in questa fase della malattia, ogni momento è prezioso e irripetibile. Il primo servizio che mi venne affidato fu la supplenza di una volontaria che andava da una malata oncologica in fase avanzata. Il figlio di questa signora viveva all'estero e non venne mai a trovare la madre durante la sua malattia, venne soltanto per il funerale e, in quella occasione, chiese di poter parlare con la volontaria che aveva assistito la madre, per sapere dei suoi ultimi mesi di vita. La volontaria gli negò il colloquio dicendogli, al telefono, che era troppo tardi. Cristina

24 dicembre 2008

il taschino sul cuore

Da una persona, cui tengo molto, ho ricevuto in regalo un libro. Lo leggerò. Non so se mi piacerà, ma non sarà importante. Il vero regalo è la dedica, che prendo a prestito per farne il mio augurio a tutti voi.
“Non smetterò mai di pensare e di sentire che siamo persone meravigliose. Tutti. Sono gli abiti che indossiamo, gli ‘straccetti’ cuciti su misura da noi e per noi che ci ingannano oscurando la luce che siamo. Siamo nati per essere felici, ma ci comportiamo come se mirassimo al risultato opposto. È come se cercassimo la felicità nelle tasche dei pantaloni o in quelle esterne del nostro cappotto. Lì troviamo solo superficialità ed inganno materiale. È dal taschino interno, quello che si appoggia sul cuore, che dobbiamo togliere il telefonino ed al suo posto mettere un biglietto con su scritto – qui sta la mia felicità: qui sotto, qui dentro. – Con l’abitudine del gesto pian piano ci ricorderemo chi siamo e chi torneremo ad essere. Ho voglia di riascoltare le cose buone che indica il cuore. Questo è anche il mio augurio per te.”
Grazie, Gianpietro

23 dicembre 2008

Esageruma nenta

Nel suo ultimo libro “Il pane di ieri”, Enzo Bianchi ricorda l'aspra concretezza della vita contadina da cui proviene e le lezioni e gli insegnamenti che lo hanno plasmato. Per l’età, mio fratello maggiore ha vissuto gli stessi anni difficili di una società povera, che usciva dalla guerra e affrontava il cambiamento, quando l’università, per chi veniva da una famiglia modesta come la nostra, era accessibile solo con borse di studio e presalari, e a patto di restare sempre in pari con gli esami. Nel libro di Enzo Bianchi, ritrovo la stessa sapienza, povera e ruvida, che ha sempre guidato anche la mia famiglia, che io però ho sempre contestato, trovandola priva di tenerezza. In particolare, mi ha colpito una frase, che lui dice faceva parte del lessico familiare di quella società contadina del Monferrato: Esageruma nenta che significa “Non esageriamo”, secco invito al ridimensionamento, atteggiamento di cui la società di oggi è particolarmente carente. Anni fa, dopo una vita tutto sommato facile, in cui tutto era sempre andato abbastanza bene, ebbi un anno disgraziato, tra malattie e tutto il resto, in cui venni sottoposta a quattro interventi, uno più doloroso dell’altro. Esasperata dalle malattie e dalle convalescenze, decisi di concedermi quella che avrebbe dovuto essere una lunga vacanza in Messico, ma dopo soli cinque giorni ebbi un gravissimo incidente, con l’auto presa a noleggio, e finii di nuovo in ospedale. Venni rimpatriata, immobilizzata in un gesso, che avrei dovuto tenere per novanta lunghi giorni, in aereo fino a Milano, poi in ambulanza a casa, dove raccontai tutto a mia madre, piangendo. Mia madre sbuffò e, in dialetto, linguaggio che usava quando era arrabbiata, mi chiese se pensavo fosse proprio il caso di piangere, soltanto per una gamba rotta. Io penso che ognuno di noi dovrebbe fare memoria di questo pane di ieri, senza idealizzare il passato, perché, come dice Enzo Bianchi, la miseria difficilmente rende gli uomini migliori, e non bisogna dimenticare che la violenza nella famiglia era ancora più diffusa ieri di oggi, però bisogna tenere conto della cultura da cui veniamo e che, in qualche modo, ci ha formato. Cristina

Tu che vuoi venire volontario

"Tu che vuoi venire volontario, dì a te stesso che il tuo vero servizio di volontario incomincerà solamente il giorno dopo quello in cui, completamente stufo sarai deciso a fare le valigie e ad andartene, e tuttavia resterai. Da quel momento tu sarai veramente volontario" (Abbé Pierre). Ho già riportato questa citazione, ma mi viene in mente tutte le volte che, come oggi, incontro un volontario che mi dice che è arrivato ad un punto in cui sente, in modo più insistente, il desiderio di lasciare il servizio e se ne vergogna. Un po’ di tempo fa, un’altra volontaria mi disse che, dopo dieci anni che andava dalla stessa persona, non la sopportava più, ma non riusciva a confidarlo a nessuno. Le possibilità di comunicare che hanno i volontari non sono tantissime, ma ci sono, perché ci si ritrova alle riunioni, ci vengono richiesti, talvolta, degli articoli da pubblicare sul giornalino, e poi c’è il blog, che è lo strumento che, più di tutti, assicura un’informazione costante, essendo un diario, e un riscontro immediato, perché c’è sempre almeno una persona che lo legge subito. Il mio è solo un invito a sfruttare meglio questa opportunità, perché non sono certa che sia stata completamente compresa. Anch’io, durante quest’anno, ho fatto le valigie diverse volte, pensando di smettere di scrivere sul blog, visto che non sembrava interessare nessuno, ma poi dopo un po’ tornavo a scrivere, perché quando si pensa che un progetto è importante, abbandonarlo è più difficile che cominciarlo. Cristina

18 dicembre 2008

Il neonato

Tra i quadri che rappresentano il Natale, trovo molto suggestivo “Il neonato” di Georges de La Tour, pittore francese del ‘600. La scena della natività è proposta in modo semplice, quotidiano, senza angeli, aureole, né pose estatiche. Lo sfondo è scuro e rappresenta l’oscurità e il mistero della nostra vita, che spesso non comprendiamo e ci sembra, per questo, senza scopo, né speranza. In primo piano, due donne, sedute quasi una di fronte all’altra, occupano la scena: una tiene in braccio un bambino, avvolto in fasce come una piccola mummia; l’altra tiene una candela in una mano e con l’altra, con un gesto che sembra quasi una benedizione, protegge la fiamma dallo sguardo dell’osservatore, che si dirige, invece, verso il volto del bimbo, pieno di luce, come se fosse egli stesso sorgente luminosa per le due donne. Quello che mi colpisce sono le fasce: simbolo di un’umanità fragile, quella del neonato, questo Dio bambino che è sceso nella storia, ma anche nostra e della sofferenza, dentro e fuori di noi, che ogni giorno dobbiamo affrontare. Penso alle malattie di tante persone, che vivono perennemente in un letto, ma penso anche alle malattie dell’anima, che ci paralizzano e spesso ci sembra impossibile superare. Le fasce sono anche il simbolo della condizione in cui una società disumana tiene i detenuti; sono le camicie di contenzione che immobilizzano i malati del carcere psichiatrico giudiziario; sono le catene invisibili delle ragazze di strada, ridotte in schiavitù da quelli che le sfruttano e, soprattutto, da quelli che le comprano. Su tutti noi, però, brillano quelle due luci: la luce della candela, che è quella della carità fraterna, offerta e condivisa, e quella del volto del bambino, sofferenza umana trasfigurata, che ogni vita, anche la più fragile, offre come un dono e una possibilità di riscatto a tutte le altre. Cristina

15 dicembre 2008

Incontro

Sabato pomeriggio ho incontrato, per la prima volta, la referente di zona che ha sostituito la mia, non più in servizio, e i volontari che vanno dalla stessa persona da cui vado io, per il servizio EmmauS. Sono emersi alcuni problemi, in parte dovuti al fatto che non c’era stata molta condivisione, all’interno della nostra associazione, su questo caso, e ognuno di noi conosceva solo una parte di questa storia assistenziale. Uno dei problemi, che mi è sembrato preoccupare maggiormente, è stato quello che alcuni volontari svolgono dei servizi che vanno oltre il normale intrattenimento del malato, che dovrebbe consistere, essenzialmente, nella conversazione, nella lettura, o nella semplice presenza fisica. Una volontaria ha chiesto fino a che punto si può spostare una persona completamente immobile, senza rischiare un danno per la stessa, considerando la mancanza di competenza del volontario. Un’altra, invece, si è trovata in difficoltà perché io svolgo, all’occorrenza, piccoli lavori domestici, come stirare, cucinare, pulire e questo finisce per creare nell’assistito delle aspettative che non tutti riescono a soddisfare. Una delle volontarie, che è medico, ci ha aiutato a distinguere le semplici operazioni, che può fare chiunque, da quelle che, invece, è meglio lasciare al personale infermieristico. Sui lavori domestici, siamo poi rimaste d’accordo che, anche questi, devono limitarsi a piccoli servizi di supporto, e non a vere e proprie faccende, e in ogni caso non devono avere carattere continuativo, ma eccezionale. Una volontaria ha poi espresso il suo disagio e senso di colpa, perché, dai due servizi, che faceva in una settimana, è passata ad uno solo e, adesso, vorrebbe alternare questo, molto pesante, con uno più leggero, presso un’altra persona, in modo da andare ogni quindici giorni. Si è sentita molto sollevata, quando le ho detto che io avevo fatto lo stesso, senza sensi di colpa, ma pensando che sia sempre necessario trovare un equilibrio tra una situazione di bisogno e la nostra disponibilità. Cristina

11 dicembre 2008

OSCAR e i pensieri

(pag. 18) Diventerai una discarica di vecchi pensieri che puzzano, se non parli.

“I pensieri che non dici sono pensieri che pesano, che si incrostano, che ti opprimono, che immobilizzano, che prendono il posto delle idee nuove e che ti infettano. Diventerai una discarica di vecchi pensieri che puzzano, se non parli.” Questa è la frase completa che accompagna l’invito formulato dalla dama in rosa ad OSCAR affinché avvii un dialogo con Dio. I termini usati dall’autore appaiono molto coloriti e – non tenendo conto che potrebbe trattarsi di una scelta funzionale al racconto - mi verrebbe spontaneo contestarli. O almeno, cosa che faccio, riconsiderarli. Non credo sia questione di possedere un carattere più o meno riservato e non è detto che occorra essere estroversi (chiacchieroni) per produrre sempre nuovi pensieri, anzi, è proprio all’introverso (taciturno) che vengono attribuite maggiori capacità riflessive. Ritengo infatti che un pensiero abbia più probabilità di nascere quando vi è un’area di coltura pronta ad ospitarlo ed il terreno diventa fertile solo se viene curato con pazienza, passione e serietà. Un pensiero ha bisogno di maturare, di legarsi ad altri pensieri, di riaffiorare alla mente per essere analizzato, completato e verificato, in tempi che possono anche essere lunghi. I pensieri nascono dalle esperienze individuali, ma per maturare hanno bisogno del confronto e del dialogo. Tre sono gli strumenti utili al loro arricchimento. Le letture prima di tutto: poiché esse (quelle che contano) nascono da pensieri già elaborati e sedimentati per un tempo adeguato a giustificarne la divulgazione. Il dialogo: meglio se attraverso un ciclo alternato di esposizione e di ascolto, in un gioco che non è a somma zero poiché chi cede non perde mai e chi riceve guadagna sempre. La loro scrittura infine: personale dapprima e pubblica poi. Solo scrivendo si dà corpo al pensiero, in una forma inizialmente grezza, poi ripulita dalle scorie, residuo di pregiudizi e di convenzioni. Rimosse le imperfezioni e le inutilità si può scegliere di condividerli chiudendo così il ciclo del loro formarsi. Tornando alla frase del libro, ritengo che i pensieri che contano debbano pesare, poichè se non pesano si tratta, probabilmente, di sensazioni superficiali, ancora da approfondire: non devono incrostarsi, è vero, ma sedimentare si; mai immobilizzare, ma favorire l’apertura di nuovi orizzonti; opprimere, a volte, se serve a dare la misura della loro rilevanza. In questo modo favoriranno il sorgere di idee nuove (lo spazio non rappresenta certo un problema, vista la bassa percentuale di materia grigia che utilizziamo). E credo proprio che a puzzare siano altre discariche. Gianpietro

9 dicembre 2008

OSCAR e l'accoglienza

(pag. 61) … già che c’erano (i genitori) non avevano che da sostituirmi con un figlioletto nuovo di zecca (a proposito del cambio di un pupazzo malridotto).
(pag. 71) La mia malattia fa parte di me. Non devono (i genitori) comportarsi in modo diverso perché sono malato, o possono amare solo un figlio in buona salute?

Non esiste un unico modo di vivere la genitorialità. Essere genitori è qualcosa che va oltre le dimensioni del partorire e del “fare”. Appartiene alla pura dimensione umana del bisogno dell’essere per “essere felici”. Padri e madri non sono solo produttori di nuove vite, ma condizionatori di altri esseri umani. Allora la genitorialità è dimensione più complessa ed allargata e va intesa come presa in carico di altre debolezze; non solo delle nostre, perché, comunque, anche quelle ci riguardano. Presuppone il passaggio dal preoccuparci di nostro figlio all’occuparci del suo mondo e del suo benessere. Presuppone di trasformare il concetto di “appartenenza” ad una famiglia con quello di “sentirsi parte” di essa; dove il senso di proprietà lascia il posto alla pienezza del poter contare nella condivisione dell’affetto, dinamica che, in genere, nasce solo nei percorsi di accoglienza. E in questo caso l’accoglienza non è riferita a elementi esterni alla nostra famiglia. Spesso i nostri figli sono “nostri” senza essere da noi accolti. Non accogliamo le loro diversità, non accogliamo i loro punti di vista, che generano bisogni così distanti dai nostri, non accogliamo soprattutto ciò che crediamo siano limiti, difetti, fragilità, malattie. Per definizione accolgo un ospite per farlo stare bene, cerco perciò di mettermi in comunicazione con lui, per capire come per fami capire, per farlo stare meglio come per stare meglio. Non accolgo un figlio con lo stesso spirito. L’idea che provenga da me genera un diritto di proprietà divina che sancisce il nostro legame escludendo l’accoglienza. L’accoglienza è riservata agli estranei. Eppure i nostri figli ci sono estranei, ci dovrebbero essere estranei per poterli amare di più. La loro estraneità si acclama soprattutto durante l’adolescenza, ma oggi, sempre più spesso, anche la gestione di semplici regole educative nell’infanzia porta alla rivelazione di un’identità sconosciuta a noi genitori. Pensiamo che debbano ubbidirci per diritto divino, che la nostra volontà di condizionamento passi attraverso l’atto generativo e la gestazione, o attraverso un atto di tribunale. L’accoglienza diventa perciò determinante quando da proprietari dei nostri figli (mio figlio/a) diventiamo genitori dei nostri ragazzi. Il limite fisico causato da una malattia, le difficoltà nell’educare un bambino difficile, gli abusi e le sregolatezze a cui si sottopongono, ci schiaffeggiano pesantemente, ricordandoci non solo che questi ragazzi non ci piacciono, ma che proprio così mio figlio non lo volevo e soprattutto non accetto il cambiamento che in lui è avvenuto al di fuori della mia volontà e del mio controllo. Possiamo allora difenderci e chiuderci all’interno nel nostro bisogno egoistico di sicurezza, oppure possiamo divenire consapevoli di essere stati lo strumento biologico per generare una vita, ma che l’amore, l’affetto, insomma l’essere genitore, passa soprattutto attraverso la conoscenza del suo mondo e di ciò che mi spaventa perché sento appartiene a lui ed a lei, ma non a me. Anche perché le difficoltà manifestate, il problema, la malattia, non riguardano solo me, ma riguardano soprattutto la sua vita, e conseguentemente l’unico modo per farlo stare bene è accoglierla quella vita, con tutte le sue interazioni e le sue contraddizioni, comunicando, condizionando e facendomi condizionare da esse, senza la pretesa di “sostituirlo con uno nuovo di zecca”. Debbo accoglierlo. Per spirito di beneficenza? Per immolarmi su un altare di fatiche pensando ad un premio ultraterreno? Per puro egoismo affettivo? No, perché lui/lei si aspetta che il nostro essere genitori prescinda dai gradi misurati con il termometro. Gianpietro

8 dicembre 2008

OSCAR e i regolamenti

(pag. 52) Dovete soddisfare i pazienti o attenervi al regolamento?
Non so se per indole, sicuramente per formazione professionale, sono portato ad apprezzare, e, quando coinvolto, a rispettare i “regolamenti”. Ritengo infatti che le manifestazioni di ciascun individuo siano il risultato di esperienze, culture, retaggi storici, sociali e familiari unici ed irripetibili. Nei rapporti interpersonali vengono pertanto a confronto sensibilità, stati emotivi, abitudini, chiavi interpretative, pregiudizi, spesso in contrasto con il corrispondente sentire di chi ci sta di fronte. Considerando infine che obiettivi e priorità, il più delle volte, confliggono, dovrebbe apparire evidente la necessità di regole alle quali uniformare i comportamenti, onde rimuovere quante più cause possibili di snervanti e improduttivi contenziosi. Nulla di tutto ciò necessiterebbe se, all’interesse dell’uno, corrispondesse sempre anche il bene dell’altro. Ipotesi questa alla base del miraggio utopico dell’anarchia, vista come unica legge di natura, o quello, parimenti utopico, dell’amore universale, laddove il bene dell’altro fa premio sul proprio. Ma così non è. Ecco allora che “attenersi al regolamento” non dovrebbe essere, nella fattispecie citata nel libro, in antitesi con la “soddisfazione del paziente”, e nemmeno con la “migliore esecuzione del servizio”, o con “il buon clima lavorativo del personale”, ma neppure con “l’efficienza del reparto”, né con la “massimizzazione dei profitti per l’azienda”, ecc … ecc … Emotivamente, alla domanda della dama in rosa, si è portati a confermare che c’è una sola risposta esatta, ma così non credo che sia. Non consideriamo le inefficienze legate alla qualità del servizio (termometri dimenticati tra le lenzuola, carenze igieniche, ritardata somministrazione delle terapie …), sino ai più gravi episodi di malasanità, che nulla hanno a che vedere con il rispetto dei regolamenti, ma basterebbe osservare le ammucchiate di parenti e di amici intorno e sul letto del malato, o l’andirivieni di persone lungo i corridoi impegnate in monologhi al cellulare, dribblando i carrelli delle medicine, o i vassoi dei pasti, per rendersi conto di come questi comportamenti, classificabili come esempi di violazione a semplici norme di buon senso, diventano spunto per diatribe e ripicche. Se poi il regolamento (chiamato, per definizione, a mediare tra differenti esigenze) contiene anche delle “castronerie”, queste vanno, semplicemente, rimosse. Gianpietro

7 dicembre 2008

OSCAR e l'ospedale

(pag. 16) Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire.
Nella quotidianità ci si rivolge all’ospedale nella speranza che chi vi lavora disponga delle conoscenze e degli strumenti idonei a salvarci la vita, allorchè riteniamo che altrimenti, nel mondo esterno, sarebbe in pericolo. Non sempre ciò è possibile ed ecco che allora l’ospedale può diventare il luogo nel quale si muore. Non “ci si va per morire”, non con quella intenzione almeno, ed anzi, quando la morte è prossima, viene talvolta offerta la possibilità che il rito si consumi nell’intimità della famiglia, o in altre strutture appositamente create. L’ospedale tuttavia, con la sua disciplina, costituisce una naturale cornice posta intorno alla morte dell’uomo. Una specie di trampolino di lancio, quasi ad agevolargli il distacco, ma lasciandolo sempre più solo dinanzi alla solitudine suprema. Nessuno dovrebbe essere privato della propria morte, per quanto atroce, dolorosa, o sconcia essa sia. Se ci viene riconosciuto il diritto di scegliere il tipo di vita che più ci aggrada, di decidere con quali esperienze misurarci, a maggior ragione dovrebbe esserci consentito di scegliere, per quanto concesso dalla natura, come affrontare la morte. Morire è l’ultima testimonianza che possiamo dare e non dovrebbe spettare ad alcuno il diritto di giudicare quale mostrare e quale no. Solo chi considera la morte sconveniente, alla stregua delle secrezioni del corpo, può sostenere che morire in pubblico sia indecente. Nasce da questo erroneo pudore il divieto di insegnarla ai giovani e, quando essa giunge, la tentazione di nasconderla, magari dietro il paravento di una stanza d’ospedale. Gianpietro

6 dicembre 2008

OSCAR e la medicina

(pag. 11) Sono diventato un cattivo malato, un malato che impedisce di credere che la medicina sia straordinaria.
(pag. 79) Non è colpa sua (dottore) se è costretto ad annunciare brutte notizie alle persone … non è lei a comandare alla natura. Lei è solo un riparatore.

Per guarire devi metterci anche del tuo. Senza uno sforzo da parte tua, senza un po’ di buona volontà, le medicine da sole non bastano.” Quante volte abbiamo sentito, e a nostra volta ripetuto, questa espressione! Il medico, con la sua scienza, non ha compiuto il miracolo della guarigione, ma la responsabilità finale è anche del malato che non ha saputo combattere con tutte le sue forze, che non ha messo l’impegno necessario per guarire. “Noi abbiamo fatto il possibile, ma lui non ha reagito alle sollecitazioni come ci saremmo aspettati” se vai alla ricerca del responsabile … Ma qualunque insuccesso, anche quelli maggiormente amplificati dai media, non devono farci dimenticare che la medicina è “veramente straordinaria”. Noi, popoli fortunati che la possediamo più di tanti altri, fatichiamo a rendercene conto. Basterebbe scorrere le tabelle sull’aspettativa di vita nelle varie epoche per accorgersi dell’impennata del grafico, assicurata dalle migliorate condizioni igieniche ed alimentari. Basterebbe leggere l’elenco delle malattie una volta incurabili ed oggi trasformate in innocui fastidi stagionali. Basterebbe pensare ai vaccini che hanno debellato virus e batteri fonti di micidiali epidemie solo pochi decenni fa. Ormai non si parla più solo della terza età (divenuto il più corposo serbatoio di consensi elettorali), ma di quarta età, spesso attraversata in condizioni di salute invidiabili.
Forse è proprio la consapevolezza dei successi conseguiti nel campo sanitario che rischia di portare più di un medico a vivere in un delirio di onnipotenza, trasformandolo da semplice “riparatore” in “controllore della natura”. Il dispiacere per un insuccesso può diventare allora causa di patologia se, da utile occasione di riflessione e di crescita, si trasforma in rancore per essere usciti sconfitti dall’impari lotta con la natura, vera madre del nostro corpo. A volte ho il sospetto che ad avere paura della morte, siano, più di chiunque altro, proprio coloro che le vivono accanto per scelta professionale. Un medico ospedaliero, se non ha ancora trasformato in noiosa routine la passeggiata mattutina lungo i corridoi dei degenti, non può non sapere che dentro ogni cartella clinica può celarsi una sentenza che tutto il suo sapere non riuscirà a modificare. Se così non è, c'è allora bisogno di un OSCAR che gli dica: “Non è colpa sua dottore, lei è solo un riparatore … e non tutto è riparabile … almeno per ora.” Gianpietro

5 dicembre 2008

OSCAR e la morte

(pag. 15) Ma perché non mi dicono semplicemente che morirò?
(pag. 16) Facciamo tutti finta di essere immortali dimenticando che la vita è fragile, friabile, effimera.
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Credo che il segreto stia tutto nell’avverbio “semplicemente”. Visitiamo un ammalato e sappiamo solo inventarci che: “ha una bella cera”, che: “lo troviamo meglio di ieri”, che: “la medicina oggi fa miracoli”, che: “se ne sono viste di peggio”, che: “la speranza è l’ultima a morire”. “Perché rattristarlo, poverino” ci viene rimproverato, come se per esorcizzare la morte bastasse non nominarla. Eppure tutti sanno che moriremo tutti. Non sarebbe più semplice allora andarle incontro conoscendola? Il filosofo greco Epicuro sosteneva: “Il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi poiché quando noi siamo, la morte non c’è, e quando c’è la morte, allora non siamo più. E così essa nulla importa, né ai vivi, né ai morti; perché in quelli non c’è, mentre questi non sono più.” E per il credente, a renderla attraente, si aggiunge la convinzione che solo attraversando quel varco si ottiene la vita eterna. È naturale allora che si giunga ad averne paura se, fin da piccoli, ci viene impedito di parlarne con semplicità e con amore. Fin che la morte ci appare lontana, ci sentiamo dispensati dal pensare a quel che ci attende, e si nutre una mostruosa, perché contro natura e contro ragione, sensibilità per le minime cose e una strana insensibilità per le più grandi. Ci insegnano a vivere come se fosse per sempre, eppure la morte, “nostra sorella morte”, ci è accanto in ogni momento dell’esistenza. Si incomincia a morire nell’attimo stesso in cui si nasce. Le cellule dell’organismo si rigenerano in continuazione, ed il nostro corpo di domani non è più lo stesso che avevamo ieri. A chi il compito del “memento mori”? Non basta certo lo schiavo che segue il cocchio del vincitore, meglio allora sperare in una “dama in rosa” che ci aiuti a capirla ed accettarla, perché sono privi di futuro gli uomini che: “ … non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici.” (Blaise Pascal, Pensieri) Gianpietro

4 dicembre 2008

OSCAR e Dio

(pag. 17) Ogni volta che crederai in Lui esisterà un po’ di più.
Oscar e la dama in rosa” è solo un piccolo libro, ma è anche un ricco concentrato di spunti di riflessione. La frase che dà il titolo a questo post richiama, pur senza citarlo direttamente, uno dei più noti “pensieri” del matematico e filosofo francese Blaise Pascal. La sua provocazione, ricordata come il “pari”, può essere così sintetizzata: “Scommetti su Dio, abbi fede come se Dio esistesse e provvedesse a te in ogni istante. Vivi, lavora e prega come se Dio operasse ora nella tua vita e vedrai che, nel tempo otterrai la fede.” (ed è quello che la dama in rosa suggerisce ad Oscar). Visti gli scarsi risultati ottenuti da quanti cercavano di dimostrare l’esistenza di Dio, questa scommessa vuole convincere coloro che non hanno la fede con una semplice considerazione di convenienza. Meglio credere in Dio perché poi, nel caso ci sia un aldilà avremo la vita eterna. In caso contrario abbiamo sprecato una vita il cui valore è pari a zero. Sembra una proposta intelligente. Se l’obiettivo di Pascal era quello di scuotere l’uomo dall’indifferenza, invitandolo a cominciare un cammino, a decidere di “prendere partito” scrollandosi di dosso l’ignavia, allora l’esortazione a vivere almeno nell’orizzonte del problema di Dio è condivisibile. Se invece si analizza il pensiero di Pascal sul piano strettamente matematico, ci si accorge che esso non regge. Il “pari” può essere letto infatti anche così: “Dio è una promessa infinita di felicità. Ad un gioco nel quale si punta un bene o una somma di beni finiti per avere in cambio un bene infinito conviene partecipare, purché la probabilità di vincita sia essa stessa un numero finito.” Secondo Pascal dinanzi all’infinito promesso, la vita da scommettere non può valere che nulla “… vedrete tanta certezza di guadagno e tanta nullità in ciò che rischiate …”, “ … se vincete, guadagnate tutto, e se perdete, non perdete niente: scommettete dunque, senza esitare, che egli esiste ...” Ma se la vita non vale nulla allora non c’è nulla da scommettere. La scommessa infatti è davvero conveniente solo se quel che si punta è pari a nulla, ma se è pari a nulla non si tratta affatto di una scommessa. Nessuno tuttavia attribuirebbe valore nullo alla propria vita, come Pascal pretenderebbe, se non confidasse già in partenza nell’altra vita. Costui dunque non scommetterebbe affatto perché crederebbe già. La scommessa è cioè una cartina di tornasole: rivela a chi è disposto a scommettere che è per ciò stesso un credente; e a chi non è disposto, perché per lui la vita è tutto e non c’è probabilità di un’altra vita che possa essere più grande del tutto della vita terrena, che è un non credente. Lungi dall’essere un gioco decisivo, la scommessa mostra quello che si è già deciso. In conclusione fare come se Dio ci fosse riesce davvero solo a chi già crede che c’è. Gianpietro

2 dicembre 2008

OSCAR e la scrittura

(pag. 9) Scrivere è soltanto una bugia che abbellisce la realtà, una cosa da adulti.

Nel racconto, l’espressione è collegata alla descrizione “edulcorata” che Oscar fa del proprio aspetto fisico, contrapposta all’immagine reale. Gli adulti ricorrono spesso a questa finzione, i ragazzi, dovrei dire i bambini, risultano meno condizionati. Loro, fortunatamente, sanno ancora gridare “Il re è nudo!”. Una volta adulti diventiamo invece molto attenti ai termini che adoperiamo giustificandone la scelta con il desiderio di non ferire, di non risultare troppo crudi, o, più semplicemente, per esorcizzare la paura di vederci respinti. Essere almeno “obiettivi” nello scrivere, assunto che l’oggettività è un ossimoro stante l’incompatibilità con la posizione di soggetto scrivente, è compito arduo, ma non impossibile. A bene osservare non sempre ci avvaliamo delle parole per “abbellire” la realtà. Al contrario, spesso, ci capita di usare delle lenti molto scure, specie quando le teniamo appoggiate su un cuore turbato o stanco. In quei momenti, se raccontiamo delle “bugie”, si tratta, il più delle volte, di mezze verità. O almeno tali ci appaiono. Gianpietro

Il presepe vuoto

Siamo di nuovo in Avvento, anche se molti dicono che questa festa non significa più tanto nemmeno per i cristiani, che sembrano non aspettare più niente, come tutti gli altri. Sabato, sono andata alla festa annuale dei volontari della Caritas, festa alla quale mancavano stranamente i poveri. A questa considerazione e alla mia proposta di una maggior condivisione con questi nostri fratelli, una signora ha obiettato che questo li metterebbe in imbarazzo. Sono sempre tanti i motivi per i quali resto un po’ delusa nelle mie aspettative; poi ci sono, invece, dei periodi in cui, quando meno me lo aspetto, tutti sembrano cambiare idea e fare quello che ho sempre desiderato. Questa settimana è incominciata molto bene, con il perdono, molto atteso, da parte di una persona che avevo trattato con molta durezza. Poi, mi ha telefonato la referente EmmauS, della zona in cui abita la persona da cui vado per il servizio, invitandomi ad un incontro con gli altri volontari: era tanto che attendevo questo invito e avevo finito per rassegnarmi che non sarebbe mai stato possibile. Poi è successo qualcosa di brutto, perché mia madre si è sentita molto male; però nel pomeriggio che io e mio fratello abbiamo passato vicino a lei, facendoci coraggio a vicenda e affrontando con molta cura la situazione, ho pensato a quanto siano cambiati i nostri rapporti familiari e a quanto siano migliori rispetto ad un tempo. Per finire queste mie riflessioni d'Avvento, credo proprio che se, a volte, smettiamo di sperare, è perché in questo presepe che è la nostra vita, siamo noi, per primi, ad avere escluso tante persone e che l’unica felicità che dobbiamo attendere, sia quella di vederle prima o poi tornare a prendere il loro posto accanto a noi. Cristina

1 dicembre 2008

Il silenzio non significa indifferenza

Questa mia vuole essere un’ammenda pubblica rivolta a tutti coloro che hanno scritto e che scrivono sul blog e verso Gianpietro che ha sempre dimostrato professionalità e costanza nel non mollare la presa, degne di un encomio particolare. Pensando a tutti voi e leggendovi, pur nelle diversità dei vostri testi, mi sento orgoglioso di appartenere a Emmaus. Lo so, tre pugni sul petto non bastano per farmi perdonare per il passato, per il presente e per il futuro di non scrittore sul blog. Ma ho apprezzato moltissimo gli interventi che ho letto e le iniziative che sono state proposte da Cristina e da Patrizia. Tanto che meritano di essere divulgate con ogni mezzo a nostra disposizione come ad esempio al prossimo staff delle referenti, con un “volantino proposta” da mettere sul sito, alla prossima assemblea ecc. Non dovete lasciarvi scoraggiare dal tempo che scorre vuoto dalla proposta. Per i risultati occorre avere l’umiltà dell’esercizio della pazienza. Perché “la pazienza è la virtù più grande”. Detta dai latini “maxima enim, patienta virtus”. Forse alcuni di voi me l’hanno già sentita dire: Edison prima di avere successo con la lampadina fece 1.500 esperimenti!! Andrea