7 dicembre 2008

OSCAR e l'ospedale

(pag. 16) Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre ci si viene anche per morire.
Nella quotidianità ci si rivolge all’ospedale nella speranza che chi vi lavora disponga delle conoscenze e degli strumenti idonei a salvarci la vita, allorchè riteniamo che altrimenti, nel mondo esterno, sarebbe in pericolo. Non sempre ciò è possibile ed ecco che allora l’ospedale può diventare il luogo nel quale si muore. Non “ci si va per morire”, non con quella intenzione almeno, ed anzi, quando la morte è prossima, viene talvolta offerta la possibilità che il rito si consumi nell’intimità della famiglia, o in altre strutture appositamente create. L’ospedale tuttavia, con la sua disciplina, costituisce una naturale cornice posta intorno alla morte dell’uomo. Una specie di trampolino di lancio, quasi ad agevolargli il distacco, ma lasciandolo sempre più solo dinanzi alla solitudine suprema. Nessuno dovrebbe essere privato della propria morte, per quanto atroce, dolorosa, o sconcia essa sia. Se ci viene riconosciuto il diritto di scegliere il tipo di vita che più ci aggrada, di decidere con quali esperienze misurarci, a maggior ragione dovrebbe esserci consentito di scegliere, per quanto concesso dalla natura, come affrontare la morte. Morire è l’ultima testimonianza che possiamo dare e non dovrebbe spettare ad alcuno il diritto di giudicare quale mostrare e quale no. Solo chi considera la morte sconveniente, alla stregua delle secrezioni del corpo, può sostenere che morire in pubblico sia indecente. Nasce da questo erroneo pudore il divieto di insegnarla ai giovani e, quando essa giunge, la tentazione di nasconderla, magari dietro il paravento di una stanza d’ospedale. Gianpietro

1 commento:

Cristina ha detto...

La decisione di portare in ospedale un familiare che muore è talvolta necessaria, perché a casa non si hanno le condizioni necessarie, ma spesso è una delle tante manifestazioni della grande solitudine in cui viviamo e facciamo vivere oggi le persone che ci sono affidate. A questo proposito io non ho sempre pensato così. Quando la prima nonna ad andarsene entrò in una fase prossima all’agonia, venne ospitata dagli zii che avevano maggior familiarità con le cure infermieristiche. Vennero chiamati i parenti che abitavano lontano e per due giorni (l’agonia un tempo durava molto poco e il dolore era alleviato dalle iniezioni di morfina, ma non prolungato) ci fu una specie di liturgia accompagnatoria, con le parenti più devote che pregavano, e gli altri che si dividevano compiti come quello di portare i bambini a passeggio, o preparare i pranzi e le cene per tutti. In seguito, per anni, la zia ci mostrava il divano letto della stanza degli ospiti, ricordandoci che quello era il letto in cui era morta la nonna, quasi fosse un reliquia veneranda. Io lo guardavo disgustata, con la repulsione che un tempo avevo per tutto quello che contrastava le norme igieniche. Penso che adesso l’ospedale sia diventato proprio questo: una scelta dettata dalle tante norme igieniche che fanno delle nostre case un luogo asettico, privo però della carità. Cristina