7 maggio 2013

Fine vite

Nutro stima e rispetto nei confronti di Vito Mancuso e mi trovo solidale con diverse sue analisi (ho apprezzato in particolare “L’anima e il suo destino” ed. Raffaello Cortina – 2007). Non altrettanto convincenti mi sono parse le considerazioni riportate nell’articolo pubblicato su “La repubblica” del 5 maggio 2013 (clicca qui per leggerlo, prima di proseguire).
Il tema (eutanasia, o suicidio assistito) è ampio e non offre appigli a chi fosse alla ricerca di verità incontrovertibili (tralascio gli integralisti e i dogmatici). Assumo pertanto come valide, sia le due premesse “alleviare la sofferenza, sempre” e “rispettare la libera autodeterminazione delle coscienze, sempre”, sia la classificazione dell’individuo, la sua “consistenza”, nelle cinque forme di vita (di qui il plurale nel titolo del post) raggruppate nelle tre classi “bios-zoè” (biologica e animale), “psychè” (psichica) e “logos-nous” (ragione e spirito). Accetto anche che tra di esse esista un ordine crescente in termini evolutivi (sia temporali che di consapevolezza). Detto questo mi è parso evidente, dalla lettura del testo, che all’ultimo livello “logos-nous” viene attribuita la responsabilità delle scelte che impattano sui livelli inferiori: “io penso che il rispetto della vita debba consistere alla fine nel rispetto della sua vita spirituale (nous), della sua coscienza o libertà” e più avanti: “cosa è più sacro: la vita biologica o la vita spirituale?”. Queste affermazioni pongono già un problema nei confronti di chi quel livello non lo ha ancora raggiunto (infanzia e sottocultura) o lo ha perduto (malattie e infortuni). Chi stabilisce inoltre la sua esistenza, completezza e integrità? È quindi al livello del “nous” che andrebbero assegnati tutti i poteri decisionali sulle “vite” dei livelli “inferiori”: non solo su quella biologica/animale, ma anche su quella psichica. Eventualmente in modo selettivo?
Sviluppando il discorso credo si possa andare oltre il limite posto dall’autore: “di fronte ai casi estremi di malattia, quando la disarmonia tra le forme vitali diviene lacerante…” dato che egli stesso fa riferimento a: “esseri umani che non riescono, o non vogliono, mantenere l’armonia tra la loro vita biologica, la loro vita psichica e la loro vita spirituale” e poco più avanti lo ribadisce con un’affermazione che, a mio avviso, apre la porta a scelte di “fine vita” non strettamente collegabili a condizioni di tipo “vegetativo”. Dice infatti: “e se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita bios perché per lui o per lei l’esistenza è diventata una prigione e una tortura … lo (si) deve rispettare”. Quali tipologie di suicidio non rientrano in tale casistica? Chi, oltre all’interessato, può valutare le condizioni di: “ansia, paura, sofferenze devastanti per la salute psichica e spirituale”?
Le lascio come domande aperte.
Personalmente ritengo che nessuno stato e nessuna religione debbano tramutare il “diritto” alla vita in un “dovere” e in questo condivido l’affermazione dell’autore: “nessun essere umano può essere costretto a continuare a vivere”, ma la amplio, sostenendo: “a prescindere dalle condizioni e dalle circostanze della scelta”. Gianpietro

4 commenti:

Cristina ha detto...

L’articolo di Mancuso è interessante e coraggioso e ringrazio Gianpietro per averlo offerto alla nostra riflessione. Sono pienamente d’accordo sul concetto di livelli diversi di vita e che quello spirituale sia superiore. Ma non dobbiamo lasciarci fuorviare dai concetti di inferiore e superiore e intenderli, in questo caso, secondo le accezioni comuni con le quali questi termini vengono usati. Inferiore, in questo caso, significa solo che viene prima e superiore che viene dopo. Non potrebbe, in questa vita, esserci vita spirituale se prima non ci fosse una vita biologica, quindi superiore non va inteso nel senso di importanza. Passando all’aspetto più pratico, va chiarito, a mio avviso, che per suicidio assistito si intende la somministrazione di un farmaco letale a un individuo consenziente, che ne faccia richiesta. Mancuso auspica, perciò, che in caso di un male incurabile e cronico, che abbia reso la sua vita un inferno, venga rispettata la scelta del malato di morire, anche nel suo aspetto pratico, che è appunto la somministrazione di questo farmaco, da parte di un medico (eutanasia attiva). Quindi, se la domanda di Gianpietro è rivolta a individuare quale forma di suicidio non possa postulare un suicidio assistito, mi sembra evidente che, invece, nel caso di suicidio per altri motivi, diversi da una malattia incurabile, per esempio la mancanza di un lavoro o di una casa o di condizioni che possano assicurare una vita dignitosa all’individuo e alla sua famiglia, il compito della società, e quindi dello Stato, è altro: aiutare l’individuo a ripristinare una condizione di vita migliore e non certamente quello di scavargli una fossa.

Gianpietro ha detto...

Riprendo le osservazioni avanzate da Cristina nel suo commento al post.
l’ordine dei livelli di vita è sicuramente quello temporale (concetto di evoluzione della specie), ma è anche di rilevanza ai fini decisionali. Come scrive Mancuso “quando diciamo rispetto per la vita dobbiamo estendere tale rispetto in modo da abbracciare tutte le forme vitali, dalla vita biologica alla vita della mente” questo rispetto si estrinseca in una armonia tra le diverse forme vitali. Quando però dall’armonia si passa ad un “lacerante conflitto fisico, psichico e spirituale” ecco che, secondo Mancuso deve prevalere il “rispetto della sua vita spirituale, della sua coscienza o libertà”. D’altronde è al “logos” che competono le decisioni, le scelte che impattano su “bios-zoè” e su “psychè”, non viceversa. Dice sempre Mancuso “vi sono esseri umani che … scelgono di piegare la psiche e lo spirito alle condizioni del corpo, accettandone la sofferenza” ed egli stesso auspica di potersi collocare tra costoro. Mentre ce ne sono altri che “non riescono, o non vogliono, mantenere l’armonia …”. Chi altri allora, se non il “logos”, può, in entrambe le situazioni, esercitare tale “volontà” ? E’ quindi in tale accezione che va letta la scala di importanza da me accennata. Ovviamente questa interpretazione lascia aperta la porta a tutta l’enorme casistica di scelte di fine vite non sostenute da un “logos” sufficientemente attivo (caso Englaro in primis e tutti i casi di invalidi gravi che non possono esplicitare una scelta consapevole. La persona che seguo come volontario di Emmaus è tra costoro).
Con riferimento al secondo punto toccato da Cristina la giustificazione del suicidio, la mia domanda sottintendeva già l’affermazione che conclude il post. Probabilmente forzo un poco le parole di Mancuso, ma mi sento di sostenere che se “un essere umano ha liberamente scelto (il logos quindi) di mettere fine alla sua vita bios perché la sua esistenza è diventata una prigione e una tortura … lo si deve rispettare”. Non si tratta qui di fare (e Mancuso se ne guarda bene) una graduatoria di merito tra le cause accettabili per un suicidio e quelle non accettabili. Personalmente non capisco perché una malattia incurabile (e non tutte le malattie incurabili sono invalidanti allo stesso modo) sia motivo più accettabile di uno stato di depressione, o di disagio economico, o di sofferenza psichica. Pavese, Tenco, Hemingway, Noschese, Dalida, Magri, Monicelli, Van Gogh … solo per citare i primi nomi che mi vengono alla mente, sono forse suicidi da terra sconsacrata? Il loro “logos” aveva meno ragioni di quante ne avesse Welby?
Quanto infine al compito dello stato (e della chiesa aggiungo io) concordo con Mancuso, Bergoglio e Cristina “assicurare la qualità della vita” e aggiungo, “senza intromettersi con giudizi o valutazioni di merito sulle scelte individuali”. Gianpietro

Cristina ha detto...

Sì certo la depressione cronica e grave nei paesi che consentono l’eutanasia attiva è considerata un male incurabile e Luciano Magri ha potuto accedervi per questo motivo.
Occorre comunque distinguere l’aspetto morale del suicidio, che come scelta individuale rientra nella libertà dell’individuo e per questo va sempre rispettata qualunque siano i motivi e l’aspetto pratico del suicidio assistito, che coinvolgendo altri soggetti implica per necessità di cose un arbitrato.

Paolo ha detto...

Grazie a Gianpietro per aver pubblicato questo articolo, che a me era sfuggito . E grazie a Cristina e ancora a Gianpietro per gli interventi che ho letto con interesse.
Senza pretendere di pervenire a una conclusione su un argomento tanto delicato, mi pare comunque che l’impostazione data da Mancuso sia estremamente interessante proprio per le premesse da cui muove.
Quello che mi è piaciuto dell’articolo di Mancuso è il partire dall’assunto della sacralità della vita ( altrimenti il discorso sarebbe svalutato e la vita sarebbe diventata un bene di consumo ) per poi approdare alla considerazione che la vita è tale, da quella biologica a quella spirituale ( passando per altri stadi, quali la vita psichica e la vita mentale ) , e quindi quest’ultima è la più elevata dalla quale si fanno discendere tutte le conseguenze. E’ evidente pertanto che in caso di conflitto tra le varie forme di vita si imporrà per l’individuo una scelta, ed è proprio questa autodeterminazione che Mancuso rispetta.
Una tesi che farà storcere la bocca a più di qualcuno - e che si presta ad ulteriori approfondimenti - ma che ha una logica ineccepibile anche se se poi per molti le conclusioni saranno altre.