31 gennaio 2012

Il valore della solitudine

“Da bambino sentivo di essere solo, e lo sono ancora oggi, perché conosco cose e debbo riferirmi a cose delle quali gli altri apparentemente non conoscono nulla, e per lo più nemmeno vogliono conoscere nulla. La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti, o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. La solitudine cominciò con le esperienze dei miei primi sogni, e raggiunse il suo culmine al tempo in cui mi occupavo dell'inconscio. Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario. Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell'amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario, e l'amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri.” Trovo che ci sia una profonda verità in questo inciso, tratto dall’autobiografia di Carl Gustav Jung. Oggi si parla molto di solitudine, ma stranamente la si associa sempre a stati depressivi, eccentricità, nevrosi, misantropia. Si insegna come fuggirla, la si paventa come minaccia, nessuno insegna ai giovani che essa è prima di tutto un valore, perché, come rileva giustamente Jung, è nel momento di differenziazione e non identificazione con l’altro che scopriamo la bellezza e il valore dell’incontro con tutto ciò che è al di fuori di noi. Invece, spaventati dalla solitudine, che tutti ci insegnano a temere, ci perdiamo in mille inutili cose, stordendoci con le false solidarietà, circondandoci di persone e di cose di cui poco ci importa, pur di non restare soli con noi stessi.

Certamente, ci sono anche forme di solitudine patologica, causate dalla incapacità di avere delle relazioni, ma queste restano nell’ambito della malattia e vanno curate per quello che sono. Io penso che una corretta pedagogia dovrebbe insegnare al bambino sia la solitudine, nella quale far crescere la sua capacità critica e creativa, sia la capacità di sviluppare relazioni corrette con gli altri. Osservo, invece, nei genitori un gran desiderio di vedere il bambino perfettamente integrato e socializzato e mal sopportano eventuali momenti di malinconia o di tristezza, quando lui si trova da solo e si annoia. Penso che quei momenti siano invece importantissimi per la sua crescita, perché impara a prendere coscienza della sua individualità e a ragionare con la sua testa e non come gli altri vorrebbero. Occorre anche dire che il percorso vero di relazione è quello lunghissimo e unificante del nostro mondo interiore con l’esterno e forse non basta una vita intera per imparare a percorrerlo. Non esiste però nessun percorso alternativo, nessuna scorciatoia. Certe droghe, e a volte anche l’alcool, producono questa profonda sensazione di armonia tra il dentro e il fuori, ma sappiamo bene che in quei casi è solo un’illusione e i danni che queste dipendenze provocano vanno ben oltre i benefici che si conseguono.

Anche tra gli anziani, che mi è capitato di assistere per il servizio, ho notato un uso eccessivo di antidepressivi, che io assimilo alle droghe, prescritti e somministrati il più delle volte senza nemmeno una psicodiagnosi attenta di un medico competente. Ma è chiaro che nell’età avanzata appare troppo tardi per fare qualsiasi altra cosa e l’educazione o l’auto apprendimento alla solitudine come valore andrebbero cominciati molto prima. Cristina

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