26 gennaio 2009

Il pretesto

Il pretesto per non fare il bene è un tarlo che insidia spesso la vita del volontario. Un amico mi ha proposto un breve viaggio, in una capitale europea, dove non sono ancora andata e, per questo, ho accettato con entusiasmo. Di solito, non vado via al di fuori delle ferie collettive, ma questa volta si tratta di pochi giorni e i colleghi hanno accettato volentieri di sostituirmi. In famiglia, poi, sono sempre molto contenti delle mie partenze, da molti anni non più così frequenti. Prevedendo che avrei invece avuto difficoltà con la persona da cui vado per il servizio EmmauS, nel darle la notizia, ho calcato molto sul fatto che, prima della partenza, avrei intensificato le visite, in modo da totalizzare, in un mese, le stesse ore di servizio. Ha aspettato che il marito uscisse e ha cominciato a lamentarsi che non era un problema di ore, ma che l’intervallo troppo lungo, tra una visita e l’altra, avrebbe messo in difficoltà tutta la famiglia: il marito si sarebbe innervosito, in considerazione anche del fatto che, proprio in questo periodo, il fratello non può andare, perché la moglie è ammalata e la figlia non la può assistere perché molto impegnata con la propria famiglia. Ha aggiunto che dovrà informare la referente della mia assenza, affinché cerchi una volontaria che mi sostituisca, ricordandomi che, anche il mese scorso, le avevo chiesto di andare un giorno invece di un altro, in cui non potevo. Inutile dire della non ragionevolezza di tutte queste argomentazioni, che però sono riuscite ugualmente ad irritarmi e a lasciarmi, per tutto il giorno, il desiderio di liberarmi di questo servizio, a volte così opprimente. Per fortuna, ho imparato a non prendere mai decisioni quando sono irritata, perché il giorno dopo, svanita la collera, rimane solo il desiderio di perseverare nell’impegno preso, senza lasciarmi condizionare dalle emozioni di un momento. Cristina

1 commento:

Gianpietro ha detto...

Come ho già scritto (ma non è mia l'espressione) il vero servizio comincia il giorno in cui, nonostante la nausea che ti assale, respingi l'idea di mollare tutto e torni sorridente dal tuo assistito. Donarsi (che sia tempo o affetto) implica non essere più liberi. L'ideale è mantenere un punto di equilibrio, imporsi di non superarlo se non si è pronti a farlo. E quando, come nella situazione che descrivi, senti di agire restando nel tuo campo, non sentirti in colpa. Vai tranquilla e mandale una bella cartolina dalla capitale visitata. Gianpietro