6 gennaio 2009

OSCAR e la sofferenza

(pag. 54) Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu.
(pag. 55) La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si s
ceglie.

Mi ero annotato questo tema, decidendo di tenerlo in sospeso sino a quando non fosse diventato oggetto di un post. Ora il post di Cristina, “La notte oscura” mi consente di affiancare le mie alle sue considerazioni, ottenendo una panoramica più articolata. Gli autori citati da Cristina trasformano la sofferenza in piacere ad imitazione della passione di Cristo e quindi come mezzo utile per l’acquisizione di meriti soprannaturali. Nella visione di Cristina la sofferenza è inevitabile (punto di vista sostenuto anche da OSCAR) e quindi può derivarne una forma di utilità solo a condizione che quella “notte oscura” funga da luogo di gestazione per sentimenti positivi (amore, compassione, pietà, godimento per la bellezza del creato). OSCAR aggiunge la distinzione tra sofferenza fisica e morale sostenendo che la prima, inevitabile, incide negativamente sul nostro animo solo se siamo noi a permetterlo. Credo sia vero, anche se occorre una forza di carattere ed una consapevolezza fuori dal comune per evitare che il protrarsi e l’intensificarsi della sofferenza fisica finiscano con il fiaccare le resistenze della mente e del cuore. Soffrire fortifica. Solo chi ha fatto la fame sa dare il giusto valore al pane avanzato. Così dicono i nostri vecchi. Le nuove generazioni vengono su viziate, incapaci di affrontare le sfide della vita; sono esposte a tutte le tentazioni, perché sono state allevate nella bambagia, perché non conoscono la sofferenza. Anche questo si sente dire. Significa allora che soffrire è necessario? Che dobbiamo augurarci l’avvento di periodi di carestia, di conflitti sempre più estesi? Dobbiamo rinnegare i progressi compiuti della medicina, sia nel prevenire e curare le malattie, che nell’alleviare le sofferenze? Più d’uno auspica la rinuncia a combattere le manifestazioni negative della natura, affidandosi alla sua presunta saggezza equilibratrice, anche quando è stato proprio l’uomo la principale causa del loro degenerarsi. Se posso, contro ciò che subisco, io mi ribello e adotto ogni misura che la cultura e la tecnica mettono a disposizione. C’è poi il secondo aspetto citato da OSCAR, quello della sofferenza morale. Premetto che ancora non ho ben chiaro a cosa si debba fare riferimento. Se alla sensazione di malessere psichico che si prova quando si è di fronte a negatività od a sofferenze che non ci toccano direttamente (il mio cuore piange per il barbone morto di freddo - al quale tuttavia ho sottratto la coperta perché creava un danno d’immagine), o se si deve invece intendere qualcosa di più diretto, di più personale, non necessariamente collegato a fattori ed eventi esterni. Nel nostro servizio di volontari siamo esposti a sentimenti che possono essere associati alla sofferenza morale, ma a ben analizzarli hanno nomi diversi, quali solidarietà, compassione, pietà, magari rabbia, senso di inadeguatezza o di impotenza. Ci possiamo sentire vicini al nostro assistito, partecipare alla sua sofferenza, ma non credo sia realistico affermare di comprenderla, men che meno di scegliere di viverla in prima persona. Il tema è delicato e si presta a molte interpretazioni. C’è forse qualcuno che possa vantare una pretesa di verità sul concetto di sofferenza? Se ne potrebbe parlare in termini generali, cattedratici, ma non servirebbe a molto. Perché non ne parliamo su questo blog partendo dalle vostre esperienze personali? Gianpietro

9 commenti:

Cristina ha detto...

La sofferenza morale (o psicologica) può essere anche conseguenza della sofferenza fisica, ma sono d’accordo con il protagonista del libro che, mentre nella sofferenza fisica, può non esserci responsabilità, nella sofferenza morale c’è, perché rimane sempre una piccola parte di razionalità con cui si può lottare, anche se è difficile. E’ la stessa differenza che viene fatta tra cause materiali (una persona viene legata mani e piedi e non si può muovere e andare a fare quello che ci si aspetta che faccia, non è responsabile) e cause morali (per chi fa uso di droghe, c’è responsabilità). Nella mia esperienza, di solito pongo un limite al dolore, oltre il quale penso non sia lecito lasciarsi andare, perché, anche se facciamo fatica ad ammetterlo, c’è talvolta anche un po’ di compiacimento nel voler restare in una situazione di sofferenza spirituale. A me ha sempre aiutato molto il pensare che non siamo poi così importanti, perché a monte la ferita è di solito al nostro narcisismo, ma queste cose, lo ripeto, non vanno mai dette a chi sta male, perché se uno soffre non lo si può far sentire anche responsabile della sua sofferenza. La persona da cui vado è, in molti atteggiamenti, responsabile della sua sofferenza psicologica, ma non ho mai ritenuto opportuno dirglielo. Chiederò questa cosa ad un esperto, finora me ne sono sempre dimenticata, ho seguito la mia intuizione, che naturalmente potrebbe anche essere sbagliata. Cristina

Anonimo ha detto...

"La persona da cui vado è, in molti atteggiamenti, responsabile della sua sofferenza psicologica, ma non ho mai ritenuto opportuno dirglielo. Chiederò questa cosa ad un esperto, finora me ne sono sempre dimenticata, ho seguito la mia intuizione, che naturalmente potrebbe anche essere sbagliata."
Mi aggancio alle ultime parole di Cristina: sono d'accordo con lei, la consapevolezza della responsabilità della propria sofferenza è un processo difficile per il quale l'aiuto di un esperto è fondamentale. Tale processo è anche il primo passo per il vero cambiamento e la guarigione dell'"anima"...o personalità o come la si vuol chiamare. A volte sono proprio le situazioni più estreme che possono darci l'opportunità di risalire la china e trovare il coraggio per un cambiamento, spesso radicale nei comportamenti e negli atteggiamenti auto ed etero diretti.
La quotidianità, le abitudini, le dinamiche familiari che si ripetono sempre uguali, ruoli, copioni e parti che si recitano rimangono spesso cristallizzati finchè la vita non ci pone di fronte alla necessità di dare uno scossone e rompere le catene per poter andare avanti e sentirsi veramente liberi. Tutto ciò ovviamente non ci esime da una ulteriore sofferenza che ha il vantaggio però di farci essere più felici e soddisfatti della nuova vita.
Oscar è stato un bambino coraggioso sia nell'affrontare il suo dolore fisico che spirtiuale, nonchè nell'affrontare il cambiamento. E' stato affiancato da una Signora in Rosa che è stata il suo sostegno e gli ha ridato la responsabiltà della sua vita. Ha avuto genitori che sono stati in grado (anche se solo alla fine) di tirare fuori il loro dolore ed essere umanamente vicini a lui, lasciando cadere lo stereotipo che vuole che "le persone forti non piangono e che se vuoi essere d'aiuto a qualcuno devi essere forte". Oscar è rinato.

Cristina ha detto...

Questa considerazione che fai sulla opportunità che una situazione difficile ci dà di crescere in consapevolezza e conoscenza, l'ho trovata anche in un diario di E.M.Cioran, che scrive:
«La sofferenza ha un solo scopo, un solo senso: aprire gli occhi, svegliare la mente, aumentare la conoscenza. «Ha sofferto, quindi ha capito»: è tutto ciò che si può dire di colui che ha subito la malattia o l’ingiustizia, come qualsiasi altra forma di sventura.
Quanto a credere che la sofferenza abbia un valore in sé o porti al miglioramento dell’uomo… Pure sciocchezze tutti i discorsi sul valore morale della sofferenza: non migliora nessuno (salvo quelli che erano già buoni); non ha nessun valore assoluto; viene dimenticata, come vengono dimenticate tutte le cose; non si mantiene, non entra nel «patrimonio dell’umanità»; si perde, come tutto si perde.
Sennonché, ancora una volta, fa vedere cose che altrimenti non avremmo visto. Quindi la sofferenza è utile solo alla conoscenza e, a parte ciò, non serve che ad avvelenare la vita. Il che, sia detto tra parentesi, favorisce ancora la conoscenza». Cristina

Anonimo ha detto...

"Quanto a credere che la sofferenza abbia un valore in sé o porti al miglioramento dell’uomo… Pure sciocchezze tutti i discorsi sul valore morale della sofferenza: non migliora nessuno (salvo quelli che erano già buoni); non ha nessun valore assoluto; viene dimenticata, come vengono dimenticate tutte le cose; non si mantiene, non entra nel «patrimonio dell’umanità»; si perde, come tutto si perde."

Spero che questa afformazione non sia conseguenza di quanto ho scritto e cioè "Tutto ciò ovviamente non ci esime da una ulteriore sofferenza che ha il vantaggio però di farci essere più felici e soddisfatti della nuova vita."...ho dato forse per scontato che la sofferenza non è mai una cosa leggera e forse non ho chiarito che sono la consapevolezza di ciò che si sta vivendo ed un atteggiamento costruttivo e positivo che permettono di affrontare i momenti difficili e trasformarli.
Spero sempre, forse fiabescamente pensando a Ebenezer Scrooge, che anche i "cattivi" colpiti dalla sofferenza possano riuscire a cambiare.

Anonimo ha detto...

...credo di avere scritto forse in termini "generali e cattedratici" senza fare sentire quanto di mio ci sia nelle parole che ho usato come invece suggeriva di fare Gianpietro.
Parlare della mia esperienza di dolore fisico e psicologico è difficile: ho affrontato un percorso di sviluppo personale che mi ha portato a riaffrontare ricordi di dolore e sofferenza legati a situazioni della mia infanzia e adolescenza. Per riuscire a capirli mi ci sono dovuta buttare dentro come se fossi ancora lì, ancora in quel momento. Le paure, la rabbia, il male fisico sono stati intensi allo stesso modo, solo gli occhi erano diversi. Io non ero più quella di allora e adesso potevo decidere di affrontare il mondo in un altro modo. Solo l'essere riuscita ad accettare il male del corpo, le emozioni della mia anima e le ragioni della mia testa, mi ha permesso di vedere come potevo andare avanti e superare momenti di empasse che mi riportavano là, bloccandomi in comportamenti e attoggiamenti inefficaci.
E' tuttora un percorso di consapevolezza e cambiamento molto difficile: da coniglio che sono faccio molta meno fatica a fuggire delle sensazioni sgradevoli e dalle emozioni negative (mie e degli altri) che mi spaventano piuttosto che affrontarle.
Inoltre mi è facile assorbire tensioni non mie ma dell'ambiente e delle persone che mi circondano, caricandomi anche della loro sofferenza in situazioni di conflitto (ad esempio) dove io non ho ruolo.
Non ho esperienze di volontariato con persone che soffrono: forse devo fare ancora i conti con la mia sofferenza e la sofferenza di quelli che mi sono vicini per riuscire ad essere pronta, ad essere umanamente forte, per gestire e affrontare la sofferenza degli altri.

Cristina ha detto...

Quella riportata era una riflessione di Cioran, non mia. Quello che mi aveva colpito era che, anche per lui, nel soffrire c'è questa dimensione di crescita, in consapevolezza e conoscenza. Per quanto riguarda l'utilità del dolore, lui sostiene che, a parte questa crescita, non migliora l'uomo, a meno che non sia già buono di suo. Ci siamo posti questo problema anche in questo blog: se il dolore sia utile, se davvero purifica, come sostengono certi mistici. Per quel che mi riguarda, non sono ancora in grado di dare una risposta. Le grandi conversioni, come quella di fra' Cristoforo, finora le ho solo lette sui libri. Cristina

Cristina ha detto...

Nella esperienza che ho fatto, molto limitata a dire il vero, con ammalati gravi, non mi sono mai accorta che la sofferenza abbia prodotto qualcosa di buono; ma, tanto per citare il nuovo libro che abbiamo proposto, sappiamo che "l'essenziale è invisibile agli occhi"; così, penso, quello che accade nel profondo del cuore dell'uomo, non è sempre così evidente e facile da capire.
Sarebbe anche irreale pensare che il miglioramento di una persona avvenga sempre come una folgorazione sulla via di Damasco. Questa considerazione, per correggere un po' lo scetticismo del mio commento precedente, influenzato anche dallo scrittore che ho citato, che mi piace molto, al di là però della ragionevolezza delle sue argomentazioni. Cristina

Gianpietro ha detto...

Benvenuta "anonima"!!! Mi piacerebbe registrarti come autrice dei post (fammi sapere tramite e-mail).
Venendo all'interessante scambio di opinioni con Cristina sento di poter condividere la frase di Pascal (la prendo da un intervento del gesuita Rondet che analizzo nel post sul "libero arbitrio" del 5 febbraio): "gli eventi sono dei maestri che Dio ci dà per aiutarci a servirlo". Non sono gli eventi che ci fanno santi. Essi sono i materiali che ci vengono dati per costruire la nostra risposta alla chiamata di Dio. Nulla più degli eventi che generano sofferenza ha la capacità di incidere nel profondo, ma nulla essi possono se non vogliamo/sappiamo servircene. Quante cose la storia ci dovrebbe avere insegnato e se effettivamente bastasse la sofferenza per redimerci allora non si comprende perchè l'umanità sia tuttora più vicina allo stato animale che alla santità. Con tutto il rispetto per gli amici animali. Gianpietro

Anonimo ha detto...

"Nulla più degli eventi che generano sofferenza ha la capacità di incidere nel profondo, ma nulla essi possono se non vogliamo/sappiamo servircene."
Niente di più giusto... concordo su tutti i fronti.
Grazie per l'accoglienza!