5 dicembre 2008

OSCAR e la morte

(pag. 15) Ma perché non mi dicono semplicemente che morirò?
(pag. 16) Facciamo tutti finta di essere immortali dimenticando che la vita è fragile, friabile, effimera.
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Credo che il segreto stia tutto nell’avverbio “semplicemente”. Visitiamo un ammalato e sappiamo solo inventarci che: “ha una bella cera”, che: “lo troviamo meglio di ieri”, che: “la medicina oggi fa miracoli”, che: “se ne sono viste di peggio”, che: “la speranza è l’ultima a morire”. “Perché rattristarlo, poverino” ci viene rimproverato, come se per esorcizzare la morte bastasse non nominarla. Eppure tutti sanno che moriremo tutti. Non sarebbe più semplice allora andarle incontro conoscendola? Il filosofo greco Epicuro sosteneva: “Il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi poiché quando noi siamo, la morte non c’è, e quando c’è la morte, allora non siamo più. E così essa nulla importa, né ai vivi, né ai morti; perché in quelli non c’è, mentre questi non sono più.” E per il credente, a renderla attraente, si aggiunge la convinzione che solo attraversando quel varco si ottiene la vita eterna. È naturale allora che si giunga ad averne paura se, fin da piccoli, ci viene impedito di parlarne con semplicità e con amore. Fin che la morte ci appare lontana, ci sentiamo dispensati dal pensare a quel che ci attende, e si nutre una mostruosa, perché contro natura e contro ragione, sensibilità per le minime cose e una strana insensibilità per le più grandi. Ci insegnano a vivere come se fosse per sempre, eppure la morte, “nostra sorella morte”, ci è accanto in ogni momento dell’esistenza. Si incomincia a morire nell’attimo stesso in cui si nasce. Le cellule dell’organismo si rigenerano in continuazione, ed il nostro corpo di domani non è più lo stesso che avevamo ieri. A chi il compito del “memento mori”? Non basta certo lo schiavo che segue il cocchio del vincitore, meglio allora sperare in una “dama in rosa” che ci aiuti a capirla ed accettarla, perché sono privi di futuro gli uomini che: “ … non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici.” (Blaise Pascal, Pensieri) Gianpietro

2 commenti:

Cristina ha detto...

Il tuo post e la citazione di Pascal mi ricordano un tema abbastanza dominante in questo pensatore e che è quello della distrazione: dice che nelle attività, che l'uomo si impone nella vita, vi è sempre la tendenza a tenersi impegnato per non avvicinare il pensiero doloroso della morte. Mi sembra di riconoscere in questo atteggiamento molte analogie con persone che conosco. Non è solo la morte il pensiero da cui oggi molte persone cercano di distrarsi, cercando di non pensarci su tanto: anche la vecchiaia, la povertà, la fame, la disperazione, la solitudine, sono diventate lo spauracchio sociale che non si vuole vedere. L’alternativa, che il libro propone, è che ogni problema, per quanto grave, debba invece non essere evitato, ma attraversato. Quando mi confronto con persone, anche colleghi, che non hanno fatto l’esperienza di stare vicino a chi muore, o a chi soffre, vedo che c’è molta più paura, rispetto anche a quelli che ne hanno più familiarità. Cristina

Cristina ha detto...

Riflettendo su questo atteggiamento, abbastanza frequente, di voler evitare il pensiero della morte, mi viene in mente che anche l’atteggiamento opposto, un vago disgusto per la vita, indica comunque un disagio. L’aiuto concreto di Nonna Rosa consiste nell’insegnare ad Oscar a diventare soggetto attivo di ogni atto della sua vita, anche l’ultimo. A volte vedo persone che si lasciano andare ad una cupa rassegnazione, perché non sanno capire quello che sta succedendo dentro di loro, non accettano il cambiamento. Così capita che se ci sono tante persone che continuano a far finta di essere sempre giovani ed immortali, ce ne sono tante altre che, al contrario, si arrendono prima del tempo. Sono due aspetti opposti, ma indicano entrambi la paura di guardare in faccia una situazione difficile.
Per quanto riguarda la differenza di atteggiamento nei confronti della morte, tra credenti e non credenti, argomento di cui si parla spesso, invidiando chi ha la fede, mi sembra più un luogo comune, che un'esperienza concreta. E' vero che di tante persone si dice che muoiono serene perché hanno la fede, ma io so di tante altre, non credenti, che muoiono con la stessa serenità. Ho letto, abbastanza recentemente, "Tutto me stesso prima di morire", di Carlo Massa, agnostico, e ne è un esempio. Cristina