27 settembre 2008

Le famiglie infelici

"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo". Così comincia il romanzo di Lev Tolstoi, "Anna Karenina". Un volontario, che conosco da molto tempo, mi ha chiesto di sostituirlo, temporaneamente, nel servizio a domicilio. Mi aveva già parlato di questa famiglia dove, al problema già grave di un ammalato in casa, si è aggiunto quello di un familiare, sul quale grava maggiormente il carico dell'assistenza, che è diventato aggressivo, e sfoga tutta la sua rabbia e frustrazione sull'ammalato che dovrebbe curare. Questa situazione dura ormai da molti anni, ma non c'è nulla da fare, perché gli episodi di violenza avvengono sempre in assenza di testimoni. I sociologi riferiscono che ci sono oggi tre fasce sociali: una alta, che ha le risorse materiali e le idee in testa per risolvere da sola i suoi problemi; una bassa, che vive un disagio visibile e riconosciuto, che viene presa in carico dai servizi sociali; una terza, che sta in mezzo, di cui non si occupa nessuno, o chi se ne occupa lo fa parzialmente. Penso che le famiglie, che hanno un ammalato grave in casa, dovrebbero ricevere, in modo continuativo, l'aiuto di uno psicologo a domicilio, perché sono certa che, con un supporto adeguato, anche una situazione difficile come la malattia, potrebbe essere vissuta con una certa serenità. Cristina

14 commenti:

Gianpietro ha detto...

Non ti sembri, né strano, né provocatorio, ma, istintivamente, mi schiero dalla parte del familiare "... sul quale grava maggiormente il carico dell'assistenza ... (in una) situazione che dura ormai da molti anni ...". A quanti capita di "sclerare" per molto meno? Concordo sull'esigenza di un sostegno psicologico a domicilio, ma, andando oltre il caso specifico, mi chiedo con quale diritto ci aggrappiamo agli altri (parenti o estranei che siano), condizionandone l’esistenza fino a renderli schiavi dei nostri bisogni? Non mi riferisco ad un atto d’amore, ad una scelta volontaria, ad una esperienza di breve periodo, ma a vincoli, più o meno formali, che lentamente, talvolta inconsapevolmente, erodono la libertà di altre persone impedendo o negando loro scelte autonome. Quante rinunce infliggiamo in ragione di rapporti di dipendenza fisica e/o psicologica! Non occorre scendere nel patologico (la situazione che descrivi è un caso limite), basta che analizziamo i rapporti di ogni giorno con il coniuge, con i figli, con i colleghi di lavoro, con gli amici ... e se riusciamo ad essere buoni osservatori di noi stessi non dovremmo avere difficoltà a riconoscere lacci e laccioli , comodi a volte per giustificare non scelte, ma fonte di recriminazioni il giorno che scopriamo a cosa abbiamo rinunciato. Ci sono già troppe cose che ci legano. Difficile dire in quanti casi siamo stati noi a sceglierle. Alcune le accettiamo, altre le sopportiamo, molte le subiamo. Per indole siamo portati a sopravvalutarci, a credere di aver tempo e capacità oltre il reale. Dire di no ci fa sentire inetti e ci riempie di sensi di colpa; ma prima di morire di rimpianti, non sarebbe il caso di fare delle scelte, giuste o sbagliate che siano? Come dice De Andrè: “… continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai”. Gianpietro

Cristina ha detto...

Quello che ci succede nella vita non lo decidiamo noi. Se ti capita in casa un malato, l'unica cosa da fare è cercare tutto l'aiuto possibile, per affrontare bene la situazione. Che alternative ci sono? Tanta gente abbandona la moglie, il marito, i figli, i genitori, io non lo farei mai, non riuscirei nemmeno a pensarlo. Non mi sembrerebbe nemmeno una scelta, ma, piuttosto, una fuga. Sul fatto che sopravvalutiamo le nostre forze hai ragione. Sai cosa mi ha detto questo familiare, che di fronte ad estranei sembra la persona più premurosa del mondo? Dice che ha colto questa malattia come una sfida, e che non si lascia abbattere, sa tutto, è pieno di libri, trattati di medicina, sui quali ha studiato questo male, è di quelli che sembrano saperne più dei medici. Per me ha bisogno di aiuto. Ma non è un giudizio, è una proposta concreta. Se fosse un mio amico, glielo direi. Cristina

Gianpietro ha detto...

In effetti molte delle cose che ci capitano non siamo noi a volerle. Molte, ma non tutte. Il nostro ruolo è, sia quello di orientare gli accadimenti nella giusta direzione (se guido da ubriaco, o se nel costruire una casa utilizzo sabbia al posto del cemento, o se diffondo sostanze cancerogene ... e via di questo passo ... sono direttamente responsabile dei danni che ne derivano), sia quello di far uso del libero arbitrio per assumere le decisioni più idonee a fronte di qualunque evento della vita. L’ineluttabilità, il fatalismo, la via già segnata e che ci tocca solo percorrere, la decisione scritta e inappellabile, sono tutte affermazioni che mi provocano un certo mal di pancia. Con ciò non voglio dire che mi piace fare il “bastian contrario”, ma, quando posso, cerco di attivare quel poco di “spirito critico” che credo di possedere. Rileggendo il mio commento mi accorgo di essere partito dal versante di chi “impone” il proprio bisogno, scivolando verso quello di chi lo “subisce”, senza rimarcare il passaggio. Per questo, forse, le tue considerazioni si soffermano sulla seconda parte della problematica. Non credo sia necessario dilungarsi ad elencare tutte le possibili forme di “imposizione” di un proprio bisogno che, a lungo andare, ripetendosi e riproducendosi in tante differenti situazioni di vita, finiscono con il togliere (o limitare fortemente) l’autonomia decisionale di chi è stato abituato a “subire” fin dall’infanzia (“tu mi vuoi far morire con il tuo comportamento!”, “cosa faccio io se mi lasci?”, “tu dovrai essere il bastone della nostra vecchiaia”, “mi aspetto che tu ...”, “ma non ce l’hai un cuore?”, “pensi sempre solo a te stesso!” ... devo continuare? ... ). Quando siamo tornati a casa dal funerale di mio padre, mia madre ha passato tutto il pomeriggio a piangere ripetendo sempre la stessa frase: “e adesso io come faccio?”. Vedo il secondo versante come una diretta conseguenza del primo. Il radicamento di abitudini che la società spesso regolamenta, impedendo, o riducendo fortemente, la possibilità di confrontarsi con le esperienze della vita in piena autonomia per trarne l’insegnamento che, unico scopo, serve all’anima per riconoscersi. Capisco che le mie parole potrebbero farlo pensare, ma ti assicuro che non sono né cinico né insensibile. Ho tuttavia sperimentato direttamente e con grandissima sofferenza, quello che, con parole del tutto inadeguate, sto cercando di dirti. Tornando a quel familiare dalla “doppia personalità” mi sorge un dubbio. Se gli episodi di violenza avvengono sempre in assenza di testimoni (come scrivi) dovreste esserne a conoscenza solo per il tramite della persona ammalata. Se così fosse conosco dei volontari che mi hanno raccontato di famiglie dove la vera vittima è chi assiste il malato, la cui situazione può indurlo a manifestazioni che possono risultare veramente fantasiose. Gianpietro

Cristina ha detto...

Nel caso specifico, sono entrambi che hanno bisogno di aiuto psicologico per vivere meglio questa situazione. L'ammalato rimprovera in continuazione l'altro, perché non si prende cura di lui in modo adeguato, e la notte, fa finta di dormire, e non accorre subito, quando lo chiama dall'altra stanza. Il familiare, quando sono soli, lo accusa di rovinargli la vita e dice che, ormai, gli suscita repulsione occuparsi di queste cose. Però, la decisione di andare in una struttura, il malato, e dove vuole, il familiare, sembra che nessuno dei due la voglia prendere. Quindi, rimane solo di aiutarli a cercare un modo, di vivere insieme, che non sia un inferno. Cristina

Cristina ha detto...

Io ho una piccola esperienza personale, che mi ha fatto capire che non sempre siamo realmente connessi con quanto l'altro ci sta chiedendo. Un uomo, dopo molti anni di matrimonio, disse alla moglie che voleva andarsene. Si erano sposati molto giovani, il loro matrimonio era stata un'esperienza meravigliosa, ma adesso sentiva il bisogno di essere libero, e ritrovare quella identità che, nel rapporto di coppia, gli sembrava di aver perso. La donna, pur amando molto il marito, lo comprese e, nonostante il dolore che provava per la separazione, si mise a preparagli le cose per andarsene. Venne a sapere, un po' di tempo dopo, direttamente dal marito, che l'essere lasciato andare era stato il dolore più profondo della sua vita; lui, in realtà, era in crisi, e stava chiedendo alla moglie una conferma del suo amore per lui e avrebbe voluto che lottasse con tutte le sue forze perché il marito non la lasciasse, e gli dicesse che senza di lui non poteva vivere. Le esperienze sono diverse, ma hanno in comune che le solzioni non sono sempre quelle più logiche. Cristina

Gianpietro ha detto...

La letteratura ci sguazza con episodi simili a quello che descrivi. Spero di non toccare tasti troppo personali, ma la definizione di "piccola esperienza" mi fa supporre che la narrazione sia realmente in terza persona. Se così non fosse ti chiedo scusa sin d'ora, ma quello che hai descritto è proprio uno di quei tentativi di condizionamento (direi un vero e proprio caso di violenza verso gli altri) che avrei potuto tranquillamente inserire a massima esemplificazione del mio commento. "Ti dico che voglio lasciarti per vedere quanto ci tieni a tenermi legato!". Ma vogliamo scherzare? E quando l'altro compie l'atto d'amore più disinteressato, che consiste proprio nell'anteporre al proprio desiderio quello che si reputa sia il bene dell'altro, non solo non lo apprezza, ma infierisce rinfacciando una scelta che non oso pensare quanta sofferenza sia costata! Crudeltà e sadismo allo stato puro. Scusami Cristina, ma persone come quelle meritano solo disprezzo. Gianpietro

Cristina ha detto...

Capisco il tuo punto di vista, che come spettatore è anche corretto. Però, chi subisce il male deve trovare il modo di andare verso un atteggiamento il più possibile sereno, nei confronti della vicenda che lo ha ferito. Nel caso dell'ammalato e del familiare, fino ad ora abbiamo assistito ad uno schieramento, chi da una parte chi dall'altra. Credo sarebbe opportuno un aiuto esterno, competente, per arrivare invece ad una riconciliazione. In hospice, l'introduzione di volontari come il "counsellor" e lo psicologo, ha dato risultati molto buoni. Cristina

Anonimo ha detto...

ho seguito l'evoluzione dei commenti e, davvero diventa difficile non intervenire,almeno sui temi che mi risuonano e toccato nel vissuto.
in passato ho avuto modo di incontrare situazioni di disagi famigliari dove la disabiltà dell'uno sconfinava nella libertà mortificata dell'altro, ruolo ricoperto spesso dalla donna/madre tenuta culturalmente alla cura.
(e gia sulle differenze di genere ci sarebbe di che parlare, forse per ore, visto che rappresentiamo il genere umano anche se con peso maggiore al femminile!)ma non è questo il tema che mi risuona quanto piuttosto il senso di impotenza che accompagnava il desiderio di "fare qualche cosa" per ristabilire ciò che ritenevo essere "l'equilibrio" interrotto da dinamiche malate.
in quei tempi mi occupavo per professione di assistenza alle persone disabili nell'ambiente domiciliare e spesso era tutta la famiglia ad essere presa in carico.
ho imparato molto da quell'esperienza di lavoro, soprattutto a riconoscere che il disagio avvertivo faceva leva sui miei bisogni non risolti,rimandati,nascosti dietro a dei "a me... mai"a quelle certezze costruite sul passato perchè il futuro,così sconosciuto, spaventava.
capisco la rabbia, la disperazione, le aspettative deluse, la delusione di quel famigliare, è palpabile la
sua paura proprio perche si è manifestata nella forma che più di ogni cosa ci toglie le difese: la malattia della persona nella quale si è investito in affettività, con la quale e per la quale si è progettato sulla base di una "normale vita " che non contemplava certo la malattia.
non so cosa possa fare lo psicologo
nel caso in cui la persona non sente di dover chiedere quell'aiuto, ma ho un leggero fastidio a questa proposta che personalmente ritengo un indietreggiare su ciò che possiamo fare noi come protagonisti: sospendere il giudizio, fare tacere i nostri pensieri che ovviamente si muovono con il nostro vissuto partendo dalla nostra prospettiva, dal nostro punto di vista, e calarci nei suoi panni,vederla da quella parte, andargli incontro....non è facile..
...neanche per me.ma sento che è una buona strada da percorrere.
patti

Cristina ha detto...

La cosa che mi sconcerta in questa situazione, è che il malato sembra cercare il conflitto. Nella mia famiglia, come in molte, il conflitto era il pane quotidiano, ma si mettevano in atto accorgimenti per evitarlo: mia madre mi diceva di non dire certe cose a mio padre, per non farlo arrabbiare; lei taceva di certe spese, per le quali lui si sarebbe irritato; mio fratello taceva delle sue ragazze, perché mio padre si sarebbe infuriato; mio padre nascondeva a mia madre cose più gravi, per le quali lei lo avrebbe ammazzato, e così via. Tutte cose poco edificanti, che hanno fatto, poi, desiderare a me e a mio fratello di costruire una famiglia diversa, in cui ci si potesse dire tutto; ma quello che ci accomunava era il desiderio di vivere in pace. Questo malato, invece, cerca, in tutti i modi, di irritare il familiare che lo assiste. Mentre c’è il volontario, lui va a fare jogging con gli amici, ma il malato mi ha chiesto diverse volte di chiamarlo sul cellulare, per farlo tornare a casa, con i pretesti più assurdi. Abbiamo guardato un film insieme, ed io lo commentavo, mostrando un certo interesse; mi ha chiesto, improvvisamente e senza motivo, di cambiar canale. Non riesco a capire se il suo atteggiamento è consapevole e premeditato, o se ha sviluppato un certo autismo, che lo rende indifferente alle reazioni degli altri. Nel secondo caso, non c’è nulla che si potrebbe fare nell’ambito di una relazione normale, perché chi è affetto da autismo, non se ne rende conto. Cristina

Gianpietro ha detto...

I temi trattati in questo post e nei commenti a corollario rappresentano un punto centrale sia nel ruolo del volontario, sia, più in generale, nel clima di tolleranza, se non di reciproco amore, che si vorrebbe trovare instaurato tra i componenti lo stesso nucleo. Vi possono essere mille ragioni perché ciò non avvenga e la ricerca di una causa, o di un colpevole, è sforzo inutile oltre che rischioso. Dal “Così è (se vi pare)” alle differenti verità di “Rashomon”, si rischia che la prospettiva soggettiva ci porti ad incontrare una verità che si annuncia come: “io sono colei che mi si crede”. Sia Cristina che Patti avanzano suggerimenti che mi sento di condividere. Temo tuttavia che il più delle volte la ricerca dell’equilibrio, mettendo a tacere le fonti di conflitto, invece di soffocarlo, finisca con l’alimentare il fuoco che cova sotto le ceneri. Sospendere il giudizio mi sembra invece un buon consiglio. Dovremmo essere capaci di accettare che gli altri ci appaiano diversi da come vorremmo che fossero e mantenerci distaccati seguendo l’invito evangelico a “ … scuotete la polvere dai vostri piedi …” (Lc 9,1-6) per non lasciarci sopraffare dalle negatività che certe persone tendono a scaricarci addosso. Gianpietro

Anonimo ha detto...

Come un lampo mi balenano delle domande "ma cosa è una relazione normale?" "come facciamo ad affrontare la malattia se non la contempliamo già nella normalità?" "da cosa ci hanno insegnato a fuggire?" .
Penso che entrare in un equilibrio impostato su altri "binari"che abbiamo già deciso che non sono normali (disagi,conflitti malattie ) sia una situazione molto pericolosa e degna sempre di una supervisione. Perchè, a meno che abbiamo già raggiunto la saggezza (ma a quel punto non sentiremmo più il bisogno di fare volontariato),assorbiamo come spugne e stimoliamo le nostre paure
che vediamo riflesse nelle esperenze di chi assistiamo.
Ho imparato una regoletta che uso come esercizio per non lasciare inutilizzata ogni opportunità di disagio che incontro nel quotidiano (...beh a dire il vero alcune mi sfuggono!):mi pongo una semplice domanda:" cosa ho da imparare da questa esperienza emotiva, da questa difficoltà che incontro?).la ricerca della risposta, spesso non subito pronta,
è davvero un buon esercizio per ri-conoscermi e ri-trovarmi ma non solo, mi aiuta a tracciare dei confini di tutela della mia integrità e tracciare dei confini
fra me e l'esperieza che ho di fronte.
non so come sia la vostra organizzazione all'infuori del contesto famigliare in cui operate,
ma penso che gli incontri con lo psicologo servano più a chi fa volontariato(e mi ci metto dentro anche io perche è la nuova avventura che sto iniziando)prima ancora del famigliare e/o assistito che incontriamo.

Gianpietro ha detto...

L’assistenza offerta da un volontario, almeno al nostro livello, non è che una goccia versata nel mare dei bisogni e grave forma di superbia sarebbe la presunzione di saper leggere i delicati equilibri ed i vissuti delle famiglie presso le quali spendiamo le nostre due ore settimanali. Certo, da esterni abbiamo, forse, il vantaggio di leggere le situazioni senza venire condizionati dal contesto, ma andare oltre mi sembrerebbe eccessivo. Magari dopo anni di frequentazioni, dopo che si sono allacciati rapporti anche al di fuori della limitatezza del servizio, quando la nostra presenza è diventata qualcosa di più di un contratto ad ore, ecco, solo allora e sempre con la massima discrezione e delicatezza, possiamo formulare un qualche suggerimento frutto dell’esperienza. In questo senso penso che al volontario EmmauS possa bastare il sostegno dell’organizzazione di appartenenza, la frequentazione di corsi di formazione, il periodico confronto con le esperienze degli altri volontari (e questo blog cos’è se non uno strumento di dialogo?). Io credo che il suggerimento di Cristina circa il possibile ruolo di uno psicologo che aiuti quella famiglia a dipanare i conflitti che sembrano essere sorti tra ammalato e familiare vada nella giusta direzione e testimoni l’umiltà di riconoscere il proprio limite di volontario part-time. Suppongo che la presenza di un medico con camice e stetoscopio che sporge dal taschino non solleverebbe obiezione alcuna in quella casa, perché allora respingere l’aiuto di chi, per preparazione professionale, potrebbe avere gli strumenti utili a comprendere le dinamiche che hanno portato a quella che sembra essere una china senza ritorno? Che poi anch’io senta il bisogno di uno psicologo che mi aiuti a capire quello che ho dentro, specie in questo periodo e indipendentemente dal ruolo di volontario, è cosa che non si discute! Gianpietro

Cristina ha detto...

Una precisazione è doverosa. La normalità si riferiva alla non competenza, mia in questo caso, e non ad una presunta superiorità. La psicologia è di grande aiuto a tutti, in alcuni casi con un po' più di urgenza. Nella divisione di oncologia dell'ospedale, a chi inizia una terapia, viene dato un foglio verde con tutte le istruzioni, e il numero di telefono di una psicologa, a cui il malato e la sua famiglia, se lo vogliono, possono rivolgersi. Una possibilità di questo tipo non toglie niente a nessuno, non esclude altre relazioni, e penso sia una risorsa importante. Cristina

Cristina ha detto...

La seconda considerazione sul concetto di “conoscenza” e “normalità” non sono certa sia così necessaria, perché ho capito il senso con cui è stato fatto il richiamo a considerare normali la malattia, il disagio, e il conflitto e anche il commento che avverte che le dinamiche di una famiglia non sono sempre immediatamente comprensibili, e lo condivido. Sento che, forse, questo commento è superfluo, ma temo che a volte il mio linguaggio sia un po’ oscuro, e spero così di chiarirlo. Io posso, con tutta serenità, definire un contesto “familiare” come quello che ho descritto “non normale” e “non felice”. Non lo posso fare con le persone di questa famiglia, per ovvie ragioni, ma in un contesto più neutro sì. Si tratta di verità “a priori” che possono essere note indipendentemente da qualunque esperienza. Se dico: “Nixon è l’uomo che vinse le elezioni nel 1968”, questa è una verità che non ha bisogno della mia esperienza per essere dimostrata, ed è assolutamente certa. Nel mio caso, invece, nessuna delle due verità che sostengo è certa, ma non hanno, comunque, alcun bisogno lo stesso di essere dimostrate: si chiamano verità a priori e contingenti, rispetto a dei riferimenti, che non stabilisco io, naturalmente. Per quanto riguarda la felicità, il riferimento è quello della psichiatria moderna, che dice che un uomo per essere felice ha bisogno di sentirsi amato dalle persone importanti della sua vita. Questa regola, che stabilisce, di conseguenza, una norma, non è un merito, non ha una connotazione morale, non è neanche necessario osservarla: un uomo si può sentire felice anche sniffando coca dalla mattina alla sera; ma se lui dice: “Io sono un uomo felice”, questo asserto non risponde ad una verità a priori, contingente, per essere tale, dovrebbe essere riconosciuta in modo autorevole. Potrebbe, invece, diventare una verità a “posteriori”, se tutti quelli che fanno uso di droga, facessero una vita felice. Questo dal punto di vista della epistemologia, la disciplina che studia i modi per arrivare alla conoscenza. Cristina