10 aprile 2009

terzo settore

Il tema toccato da Cristina nel post “Un tozzo di pane secco” è di scottante attualità, ma temo che la visione da lei suggerita sia tanto utopica, quanto inapplicabile. L’argomento, anche se in forme e con sfumature diverse, è già stato trattato in più di un post su questo blog, così come in uno scambio di e-mail al di fuori di questo contesto. Alla base della “diatriba” (se così vogliamo definirla) c’è il rimpianto verso “un diverso stile”, l’invito al ritorno ad un volontariato che si sostiene unicamente sulla vocazione e sulla bontà delle intenzioni, contrapposto alla prospettiva di un volontariato che necessita di organizzarsi sulla base di regole e di gerarchie. Non a caso ho esordito affermando che il tema è di attualità, sia per l’eccesso di delega che lo stato, o meglio la comunità internazionale, attribuisce alle organizzazioni di volontariato, affidando loro compiti che invece gli dovrebbero competere, sia perché dietro a non poche organizzazioni si celano interessi economici e politici di rilievo. Essersi resi conto che una proliferazione incontrollata poteva avere effetti destabilizzanti e lasciare aperti varchi ad approfittatori e lestofanti, ha indotto molti stati, sin dalla seconda metà del secolo scorso, a legiferare in materia di associazionismo. Paletti a mio avviso inutili quanto necessari (non è un ossimoro!). Inutili se riferiti a chi, come Cristina, interpreta il volontariato come “uno stile di vita basato sulla semplicità e sulla sobrietà”, necessari invece se si vuole che l’organizzazione di volontariato persegua le proprie finalità in modo trasparente e professionale. La spinta emotiva e la buona disposizione dei singoli non bastano a giustificare l’esistenza del terzo settore, quando chi vi opera ha la capacità di costruire e gestire ospedali o interi villaggi, organizzare migliaia di volontari, muovere montagne di denaro, fino a proporsi come intermediario nei conflitti internazionali. A volte si eccede nei formalismi, nell’applicazione di norme che sembrano avere una validità di sola facciata, mentre la sostanza sta altrove, ma questa è la burocrazia; con le sue regole, del tutto inutili fino a quando non vengono invocate e fatte entrare in gioco. Anche lo stato italiano ha capito che il giocattolo stava sfuggendogli di mano e nell’ultimo decreto anticrisi ha disposto verifiche a tappeto sull’idoneità delle ONLUS. Il professionista citato da Cristina, che, in incognito, sottopone ad un “esame di carità” l’ignaro parroco non rappresenta il volontariato, così come non lo rappresentano tutti quegli improvvisati samaritani che, sull’onda dell’emotività, scavalcando il barbone sdraiato sul marciapiede sotto casa, si mettono in macchina diretti in Abruzzo con l’intento, lodevole, di portare aiuto, ma raggiungendo l’obiettivo di intralciare il lavoro di chi, forte della sua preparazione e dell'organizzazione che lo rappresenta, quell’aiuto saprebbe veramente assicurare. Concordo che talvolta si eccede nello scimmiottare l’organizzazione delle aziende a natura commerciale (il più delle volte però si tratta solo di mutuare una terminologia e degli strumenti operativi già collaudati senza ingenerare confusione inventandosi nomi nuovi per concetti e prassi operative vecchie), ma questo non va confuso con lo “stile del volontariato”. A qualcuno può infatti stuzzicare l’orgoglio “possedere un titolo” o avere dei “gradini da scalare”, ciò rientra nella natura umana, ma credo che, per i più, questi incarichi siano un fardello accettato con lo stesso spirito di sacrificio di chi mette tutto il proprio impegno esclusivamente “sul campo”. Gianpietro

2 commenti:

Cristina ha detto...

Discorso ineccepibile, se lo si applica ad associazioni come la Croce Rossa. Il direttore generale dell'azienda in cui lavoro, che conta poche centinaia di dipendenti, quando vuole organizzare una riunione, mette la testa dentro il mio ufficio e mi chiede se, nei prossimi giorni, ho un po' di tempo per discutere un certo argomento. Naturalmente, non ha alcun bisogno di chiederlo, perché io e gli altri andremmo sicuramente a qualunque ora o giorno ci chiedesse di farlo. Lo fa per suscitare in noi un certo spirito di collaborazione e di squadra. Sarebbe impensabile fare altrettanto per il direttore generale della FIAT. Ed è per questo che mi fa una certa impressione, da parte di queste piccole associazioni di volontariato, per le quali svolgo una certa attività, venire convocata ad una riunione, tramite mail di una segretaria, che allega un invito formale di un'altra persona. Mi chiedo se un atteggiamento diverso, meno formale tra di noi, non potrebbe aiutare a ritrovare quello spirito di gruppo, di vicinanza, di solidarietà, di confronto e di discussione all'interno, che adesso mancano. La nostra è una città piccola e mi succede, abbastanza spesso, di incontrare volontari di EmmauS. Sento però che c'è sempre un certo imbarazzo a parlare del nostro modo di stare insieme, anzi non ne parliamo mai, oppure se si tocca questo argomento, c'è sempre una certa rassegnazione e si finisce per dire che ormai la gente è così e non c'è niente da fare. Cristina

Gianpietro ha detto...

Capita anche a me di rimanere sorpreso vedendo "protocollata" certa corrispondenza, o dovendo distinguere tra prima e seconda convocazione, o ancora pensando a chi, non potendo partecipare all'assemblea, si sta industriando per trovare qualcuno cui attribuire "la delega dei poteri" come se effettivamente ci fosse motivo per esercitarli. Tuttavia mi adeguo e li accetto, anche se ci rido sopra. Salvo poi riflettere che proprio in questi giorni mi trovo anch'io alle prese con la burocrazia di un libro soci di una ONLUS vidimato in ritardo e che devo integrare con informazioni circa luogo e data di nascita di diverse persone. Informazioni a suo tempo non rilevate se non altro per buona educazione. Sorridiamo, tanto l'essenza della comunicazione sta da un'altra parte. Gianpietro