23 settembre 2008

Un tu che mi viene incontro

Mi era stata chiesta la disponibilità per un servizio straordinario all’hospice, in occasione di un evento speciale. La giornata era stata molto intensa, per il grande afflusso di gente e la sera, per la stanchezza, avevo dovuto chiedere ad un carissimo amico di rinviare l’appuntamento che avevo con lui. Mi rispose con un messaggio durissimo, e da allora non ha più voluto vedermi. L’amico importante, buono, paziente, che sapeva ascoltare, capire, condividere i miei interessi, si è rivelato un despota inflessibile. Nel libro che lo rese famoso, “Ich und Du”, che l’italiano traduce, in modo abbastanza incomprensibile, con “Il sistema dialogico”, Martin Buber sostiene che l’uomo nasce nella relazione, ma che di questa ne esistono due tipi, che corrispondono a due parole e due atteggiamenti diversi. La prima è la relazione Io-Esso, ed è l’esperienza con un oggetto, che si può possedere, e del quale si conoscono esattamente la forma e le caratteristiche. Questa relazione ci dà la stabilità, la sicurezza, ma è un’esperienza frammentaria: se mi concentro su un oggetto, per esempio il bicchiere sul tavolo, non ho la visione dell’intera stanza. La seconda relazione è Io-Tu, ed ogni incontro con il Tu è un incontro totale, ma questa relazione non ha stabilità, infatti ne facciamo altre. Le due relazioni non sono organizzabili, si intersecano, scolorano di continuo l’una nell’altra: da una dipende la stabilità, dall’altra la felicità. Nella relazione Io-Esso, il mistero è fonte di angoscia, nella relazione Io-Tu, il mistero è fonte di gioia. Io penso che oggi siamo tutti meno disponibili a questa relazione con un Tu che ci viene incontro, e questo lo si percepisce soprattutto nella paura che abbiamo degli stranieri, che ci danno angoscia, perché non riusciamo a prevederne il comportamento: siamo tutti profondamente insicuri, e preferiamo la sicurezza di un rapporto che, alla fine, diventa una prigione. Cristina

1 commento:

Gianpietro ha detto...

È opinione diffusa che l’attività filosofica riguardi una ristretta cerchia di addetti ai lavori, impegnati ad affrontare ed a risolvere astrusi problemi lontani dalla vita reale della gente comune. Certamente esiste un livello di elaborazione organica delle questioni filosofiche, frutto della riflessione di chi fa della filosofia una professione accademica. Più in generale, tuttavia, la filosofia è un’attività che è propria dell’uomo in quanto tale, nel momento in cui utilizza la forza della ragione per comprendere la realtà in cui vive, fornendo spiegazioni logiche e motivate ai problemi che si trova quotidianamente ad affrontare. Aristotele non ne faceva una questione elitaria affermando infatti che: ”... è possibile dedicarsi alla filosofia, che essa è il maggiore di tutti i beni, e che è facile conseguirla. Per tutti questi motivi, vale la pena di coltivarla con passione ... Proprio per gustare le gioie vere e buone gli uomini intelligenti devono dunque dedicarsi alla filosofia.” Filosofia come strumento privilegiato, ma disponibile a tutti, il più grande dei beni poiché ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé. Cristina, prendendo a riferimento Buder, ci dà un tipico esempio di ragionamento filosofico, chiaro nella sua formulazione, ma che, per diventare efficace, richiederebbe un’analisi individuale approfondita, condotta termine dopo termine, sulla base di un dizionario comune prima di poter affermare di averlo compreso e, di conseguenza, optare tra condividerlo o respingerlo. È lo spinoso problema della relazione tra “pensiero e linguaggio”. Personalmente, concordo con quanti ritengono che il linguaggio rappresenti un vero e proprio “limite” all’agire libero e plastico del pensiero. Senza scomodare Platone che nel Fedro contesta l’utillità dell’alfabeto, o l'inflazionata espressione di Wittgenstein: "Di quello che non può essere detto, si deve tacere", credo sarebbe bastevole mettere a confronto poche persone sul significato che attribuiscono alle espressioni utilizzate da Cristina che, lo ripeto, appaiono molto più chiare, non equivoche, di quante ne ricorrono nella maggior parte dei testi filosofici, e sono certo uscirebbero visioni fortemente discordanti. Considerando poi che per realizzare questo esercizio è necessario far uso delle parole, queste ingenererebbero ulteriore confusione. Goethe diceva: "basta parlare e si comincia a sbagliare". Gianpietro