25 settembre 2008

oltre l'opportunità

In questi anni di volontariato ho partecipato ad un progetto di “danzability” che ha messo insieme ballerini professionisti e ragazzi diversamente abili, ospiti di alcune comunità reggiane. L’esperienza, stimolante e molto coinvolgente, ha attraversato varie fasi con picchi di entusiasmo ed altrettanti abissi di delusione. Gioie e rabbie si sono mescolate senza che, a volte, ne fosse chiara la causa. Leggendo il testo di un’intervista fatta proprio a quei ragazzi ed ai loro accompagnatori, apparsa qualche mese fa sulla stampa locale, mi sono soffermato a riflettere su alcune affermazioni:
“… vogliamo diventare una compagnia di danza a tutti gli effetti ed essere inseriti in un circuito di assoluta normalità …” Come questa, diverse altre espressioni sembravano finalizzate a valorizzare l’impegno dei danzatori a prescindere (Totò mi perseguita!) dall’handicap, spesso evidente, nel timore che la propria esibizione venga sostenuta dal pubblico solo per non rischiare di apparire cinici. Il pietismo esiste nonostante i maldestri tentativi di nasconderlo, difficile liberarsene e su questo tema la loro sensibilità ha antenne lunghe e perfettamente funzionanti.
“Non volevamo che fosse solo un’opportunità per gli ospiti” sostiene un accompagnatore. La danza vista come diversivo alla monotonia del quotidiano; l’uscita col pulmino; un paio d’ore di svago; la promessa di un gelato al rientro se ci si è ben comportati. Una terapia differente, che nessun medico ha prescritto ed i cui risultati nessuno potrà avvalorare. Una medicina assunta su base volontaria, dato che più d’uno di quelli che si erano cimentati sul parquet ha poi scelto di non continuare, o di limitare l’impegno. Ad altri invece è mancato lo spazio, le chiamate in pista sempre più diradate, si faceva tappezzeria. Per quelli che vogliono continuare questa è una “opportunità” che mantiene ancora intatte tutte le sue potenzialità. Va quindi sfruttata, incentivata, applicata a quanti più “ospiti” possibile. Per contro, l’auspicata trasformazione in spettacolo teatrale e competizione sportiva, dovrebbe salvaguardare il gioco, il dilettantismo di chi usa la danza ad integrazione della terapia personale. Credo che attorno a questi magnifici ragazzi vada stesa una rete protettiva, fatta di chiarezza, sia dei ruoli, che delle attese. Auspico venga creata un’organizzazione affidabile, dotata di ambienti, mezzi e risorse economiche adeguate, al cui interno ognuno conosca il proprio compito e rispetti quello degli altri. Fatto questo, l’esercizio più difficile sarà allora quello di respingere la tentazione che, al superamento della dicotomia abile/disabile, si sostituisca la selezione tra danzatori diversamente abili di prima serie e di seconda serie. Gianpietro

1 commento:

Cristina ha detto...

Penso che questo progetto sia molto importante, perché fa capire come ogni persona possa trovare il modo di esprimersi. Il rischio che si possano fare delle differenze, temo sia inevitabile: il termine diversamente abile, va bene se sottintende che ognuno di noi ha una sua abilità, non va bene, se invece serve per nascondere le nostre inadeguatezze e diversità. Sulle difficoltà a raggiungere gli obiettivi, ogni progetto si misura con questo, ma si rafforza anche. Ogni giorno, sperimentiamo le difficoltà che ci sono nel raggiungere i nostri ideali: quello che distingue quelli capaci di lottare dai rinunciatari, non è avere buone idee in testa, ma perseverare, attraverso i fallimenti e le delusioni. Io mi avvilisco facilmente, ma una volta che un obiettivo mi entra in testa, difficilmente riesco a togliermelo. Dico questo, in un giorno in cui ho dovuto rinunciare ad un progetto importante, sul lavoro, per l'ostruzionismo di alcuni colleghi. Cristina