15 giugno 2008

Le case degli altri

Quando vado nelle case degli altri mi piace guardarmi intorno e osservare dagli oggetti e dalla condivisione degli spazi come vivono quelli che ci abitano. Quaderni e libri di scuola in cucina e in soggiorno parlano di un papà e di una mamma che aiutano i figli nello studio, o almeno ne condividono l’esperienza, la poltrona relax del nonno in soggiorno dice che gli anziani in questa casa non vengono isolati nell’angolo più remoto con la scusa che il chiasso dei giovani li disturberebbe, un certo ordine maniacale di chi vive solo suggerisce una inclinazione alla solitudine voluta e desiderata, forse un rifugio da una realtà un po’ inquieta che non tutti sopportano a lungo. Nelle case degli ammalati in fase cronica e irreversibile, questo inquilino scomodo e invadente che è la malattia si prende tutti gli spazi e soffoca quel diritto alla intimità di cui tutti abbiamo bisogno. Nella casa dove vado io non c’è più uno spazio libero, ogni stanza porta il segno di una condivisione totale e assoluta con la malattia: le medicine sono ovunque, per essere a portata di mano durante le diverse ore del giorno e della notte, nemmeno il frigorifero è stato risparmiato, perché alcuni medicinali devono essere conservati a una certa temperatura; ci sono diverse poltrone con le ruote: una più pesante per la casa, quella pieghevole per l’auto, una più piccola che serve solo per l’ascensore che, come in molte case, è ancora una barriera architettonica; poi ancora uno stabilizzatore per stare in posizione eretta, un sollevatore per alzare l’ammalato dal letto e viceversa, un carrello per i medicinali, una sedia particolare per la doccia, e poi attrezzi per gli esercizi respiratori, per i massaggi, misuratori di pressione analogici e digitali. Spesso il volontario viene mandato in una stanza a prendere una di queste cose e, pur con le dovute cautele, disturba il sonno o la quiete o la intimità di uno dei familiari. All’inizio è molto imbarazzante, la signora mi ha raccontato di una volontaria che mi ha preceduto e che provava molto disagio quando doveva entrare in una stanza dove c’era un altro familiare. La malattia mette in balia degli altri non solo l’ammalato, ma tutta la famiglia. Hanno bisogno dei volontari, dell’assistenza infermieristica, degli operatori sanitari, del medico, della collaboratrice domestica, di tutti: guai se non ci fossero. Sono molto gentili con tutti, ma nel profondo del loro cuore mi chiedo come vivano questa intrusione nello spazio più intimo che l’uomo ha e che è la sua casa. Cristina

4 commenti:

Gianpietro ha detto...

L'intimità della casa, la casa come specchio di chi l'abita. La casa come alternativa alle parole che non si riescono a dire. Entra in una casa ed osservala, saprai molto di chi la vive. Vivere la propria abitazione, dedicarle attenzioni pari se non maggiori di quante se ne hanno con gli altri ospiti. Sono tutte considerazioni che fanno parte del linguaggio comune e che tu hai sintetizzato con l'espressione "... intrusione nello spazio più intimo che l’uomo ha e che è la sua casa." Sarà certamente vero, ma non lo capisco. Per me "è parlare arabo". Certo, riesco anch'io a vedere le attenzioni i particolari che caratterizzano ciascuna abitazione e la rendono diversa da tutte le altre, indipendemente dal fatto che si tratti di moduli abitativi ripetuti, tutti identici, come se fossero fatti con lo stampo, però non riesco ad annettervi particolari significati. La casa per me è solo un tetto per quando piove, un posto dove tenere le cose che non posso portarmi dietro. Penso di riconoscere il bello e di sapere apprezzare un mobile, un quadro, una suppellettile, un oggetto che sia anche espressione artistica, ma tutto questo non mi rappresenta. La mia casa potrebbe essere quella che ho come il suo negativo, non mi importerebbe. Per questo non ho la capacità di leggere gli altri attraverso i luoghi che abitano e le cose delle quali amano circondarsi. Se posso, preferisco cercare di conoscerli entrando nel loro intimo, quando me lo consentono. Gianpietro

Cristina ha detto...

Capisco il tuo punto di vista, ma io ho un rapporto diverso con la casa. Nella mia esperienza personale accogliere mia madre in casa è stato un passo molto importante e che ha dato anche i suoi frutti in termini di relazione, ma mi è costato. Per questo mi chiedo come vivrei la condivisione di uno spazio con tante persone se fossi al posto di questi familiari. Cristina

Cristina ha detto...

Sul fatto poi che gli oggetti non ci rappresentano sono certamente d'accordo, ma non ci rappresenterà lo stile della piccola biblioteca di casa, ma i libri che contiene penso proprio di sì, stessa cosa per la musica e i film. Io metto su casa dappertutto: il mio ufficio è pieno di cose personali, che non hanno niente a che fare con il lavoro che faccio, ma mi piace averle intorno, così faccio anche in altri luoghi dove mi danno un po' di spazio. Cristina

Elena ha detto...

Anch'io, quando entro in una casa, mi guardo intorno e cerco di cogliere dei segni che mi parlino delle persone che abitano la casa. Poi, se mi capita di rimanere incantata, cerco di distogliere lo sguardo e di non soffermarmi troppo per timore di essere invadente e fastidiosa, Mi chiedo come vivo io gli sguardi degli altri che entrano in casa mia: sguardi curiosi? curiosi? critici?approvanti? compiaciuti? invidiosi?Cosa trapela di me e del mio intimo dalla mia casa? Cosa è per me la mia casa? Luogo che mi racchiude, che mi accoglie, che mi consola dove ogni sentimento, sia dolore o gioia, tristezza o angoscia, malinconia o altro viene ricollocata in uno spazio della mia vita. Fino a quando sarà così? Forse fino a quando non sarà invasa dalla malattia o dalla solitudine.Forse fino a quando proverà ad accogliere il mondo esterno e a portarlo dentro.