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.15 anni insieme!
Leggendo “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery ho trovato questa riflessione (pagg. 123, 124) che uno dei personaggi principali, una bambina di 12 anni, fa rientrando dalla visita alla nonna da poco trasferita in una casa di riposo.
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Nessun uomo è un'isola,

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Segue la vita tracce a completar disegni
che d’incerto l’inizio frutto non son dell’oggi
anche se assenza tollerar non puoi
di passi fatti a bilanciar cadute.
Lungo è il percorso e dubbio spesso il pane,
tanta la voglia di lasciarsi andare
a ripagar richiami brevi come il giorno
fatti esperienze in somme spesso amare.
Vai come in gioco a riscoprir lo scopo
con tasche colme di virtù e talenti,
nulla temendo e l’animo sereno
già che venisti sol col tuo bagaglio.
Disseminati amici a lastricar le strade
verità sanno dare adatta al tempo
che di far tue decidi se ti serve
a ritrovar radici chiuse in fondo al cuore.
Cercale attenta e fino a quel momento
diffida scelte che non han ritorno.
Corpo è strumento e mente conoscenza
pedine entrambe mai elette a meta.
Temi l’attesa che non porta frutto
nemica prima in odio al tuo padrone,
donati a lui, cavalli e cocchio insieme,
che strada certa altrove altra non c’è.
Gianpietro
Ho letto, fornitomi da Cristina, il testo dell’intervento del gesuita francese Michel Rondet sul tema “Dio ha una volontà particolare su ciascuno di noi?” La trattazione offre diversi spunti di riflessione che vanno oltre la specificità della domanda. Soffermandomi, per ora, al nucleo centrale credo lo si possa sintetizzare come opposizione all’assunto di chi sostiene l’esistenza di un “disegno di Dio previsto da tutta l’eternità” che ci porrebbe davanti ad “un programma da riempire, stabilito al di fuori di noi, senza neppure darci dei mezzi sicuri per conoscerlo”, per cui “correndo parallelamente al disegno di Dio, ponendoci pur involontariamente al di fuori del suo progetto, avremmo perduto tutto”, se ne conclude che “la storia umana si svolge come uno spettacolo senza sorpresa (dato che Dio) si attende che noi occupiamo il nostro posto di comparse là dove Egli lo ha previsto da tutta l’eternità”. La risposta di Rondet si appella a Paolo “in Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo” (Ef 1,4-5) per affermare che ”è verissimo che vi è un desiderio da parte di Dio che raggiunge personalmente ciascuno di noi”, ma che “rivolgendosi a persone libere … Egli si attende che noi ci esprimiamo in una parola che vada a ricongiungersi con la Sua”. Parola che “sta a noi pronunciarla senza che essa ci sia mai imposta”. In base a ciò “la risposta che daremo a Dio non è iscritta da nessuna parte, né nel libro della vita, né nel cuore di Dio, se non come un’attesa e una speranza”. In definitiva più che di “parlare di una volontà particolare di Dio su ciascuno di noi … sarebbe più esatto parlare di una risposta personale da parte di ognuno di noi al desiderio di Dio”.
Ho ascoltato una giornalista, in televisione, raccontare che, avendo da poco perso la madre, le era stato chiesto, dal direttore del giornale per cui lavora, di scrivere un articolo sul dolore adulto; il successo di questo articolo l’aveva poi spinta a scrivere anche un libro. Non ho mai letto né l’articolo, né il libro, ma questa espressione ‘dolore adulto’ mi ritorna spesso in mente in questi giorni e mi chiedo se ci sia davvero una differenza tra il modo di soffrire di un bambino e quello di un grande. Nella memoria, il mio dolore infantile è completamente egoistico: ricordo molto bene la sofferenza che provavo, ogni estate, quando, prima delle vacanze con tutta la famiglia, venivo abbandonata, per un lunghissimo mese, nella colonia per vacanze della ditta per cui lavorava mio padre, custodita da insensibili “signorine Rottermeier”, tra le quali mio fratello maggiore scelse addirittura la moglie; ricordo anche il dolore e la paura per le botte di mio padre, quando, dopo essermi azzuffata con qualcuno, mi rifugiavo in casa di qualche vicina compiacente, nell’attesa che le acque si calmassero. Del dolore degli altri, però, non sapevo nulla, eppure c’era ed era ben visibile: la mia maestra delle elementari vestiva sempre di nero e sul petto aveva una medaglia d’oro che ogni tanto apriva, mostrandoci la foto del figlio morto; anche le bidelle indossavano abiti a lutto ed era noto a tutti che venivano assunte perché vedove di guerra: ma che tutte queste persone soffrissero anche, a me non passò mai per la mente. In tempi più recenti, il mio modo di soffrire si è allargato fino a comprendere tutta l’umanità, con una sostanziale differenza: che il dolore per quello che capita a me, lo controllo, perché so che ha una durata, più o meno variabile, ma prima o poi passa; quello degli altri, invece, mi sembra sempre senza speranza. Uno dei dolori più grandi, negli ultimi anni, è stato quello che ho provato per la mamma di un uomo rom, che aveva violentato e ucciso una signora di Roma, intervistata un’ora prima della sua estradizione dall’Italia. La donna piangeva e chiedeva pietà, che non la facessero uscire dall'Italia, perché questo significava che non avrebbe più rivisto il figlio; ma soprattutto diceva che il dolore della famiglia della donna uccisa lei lo capiva, ma che non era diverso dal suo. Da quando ho ascoltato queste parole, il mio modo di sentire, di percepire gli avvenimenti della cronaca, è molto cambiato: vicende simili, le vivo emotivamente staccate: da una parte, il dolore, grande, per le vittime innocenti di questi delitti efferati; dall’altra però, una sofferenza, se possibile, anche maggiore, per coloro ai quali molto difficilmente verrà offerta una seconda occasione per riparare il danno che hanno causato. Cristina