13 ottobre 2009

La responsabilità esistenziale

Quello che più preoccupava i partecipanti al corso di formazione per malati terminali, a cui partecipavo anch’io, era che il malato ci domandasse, ad un certo punto, se vedevamo, nella sua situazione, una buona ragione per vivere. Sarebbe stata una domanda alla quale non avremmo saputo cosa rispondere, perché noi certamente non ne vedevamo nessuna. Sorprendentemente, invece, almeno per quanto riguarda la mia esperienza personale con gli ammalati, la buona ragione me l’hanno sempre data loro. Noi, che non abbiamo ancora avuto esperienza di una situazione così grave, in cui i problemi e la loro relativa sofferenza non possano essere ridotti o eliminati, parliamo molto più facilmente di vuoto esistenziale, condizione che equivale già di per sé alla morte, almeno in senso spirituale. Gli ammalati, che ho assistito, mi hanno sempre fornito loro stessi una ragione per vivere: quando erano in una situazione non ancora così grave, c’era sempre un nipote o dei figli che avrebbero voluto veder crescere, una persona che amavano, che non volevano lasciar sola, o la loro bella casa, arredata con tanto amore, o i loro amati libri o studi: non è mai successo che qualcuno non avesse proprio nessuno o nessuna cosa per cui voler vivere. Anche quando la morte è ormai certa, gli ammalati che ho conosciuto hanno sempre trovato il modo di dare un significato alla loro esistenza. Ho avuto la possibilità di verificare questo, anche recentemente, con la mia referente di EmmauS: fino al giorno prima di morire, era preoccupata perché non era ancora riuscita a consegnare il numero delle ore di servizio svolte dai suoi volontari; la sua preoccupazione era anche costantemente rivolta al marito, che non voleva si preoccupasse per lei e per questo, sempre sorridendo, gli faceva capire che la sua fede era profonda in quel momento più che mai. Su questo tema del senso della vita, anche e soprattutto nel momento della sofferenza, ho trovato molto interessanti gli studi di Viktor E. Frankl, lo psichiatra fondatore della logoterapia, che partendo proprio dall’esperienza più dolorosa della sua vita, quella del lager e della perdita della sua famiglia, ha ricostruito la sua esistenza e messo a punto una terapia efficace per la cura del disagio esistenziale che porta al suicidio. Frankl parla di una dimensione orizzontale dell’homo sapiens (o abilis), l’uomo che è abile negli affari, in amore, in tutto e oscilla, nella sua vita, dal successo all’insuccesso; c’è invece una dimensione verticale, che è quella dell’homo patiens, l’uomo sofferente che ha, ai due estremi, invece, la disperazione e la realizzazione. E’ molto importante questa teoria, per capire come l’homo sapiens (abilis) possa trovarsi in una condizione di successo, ma di vuoto esistenziale e, perciò, di disperazione e, viceversa, l’homo patiens in una situazione di insuccesso, ma di realizzazione di senso della vita. In ultima analisi, Frankl dice che vivere non significa altro che avere la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte all’esigenza dell’ora: l’uomo ha una piena realizzazione di se stesso quando smette di stare lì ad attendere quello che la vita può dare, ma capisce che quello che importa è invece soltanto quello che la vita si attende “da lui”. Cristina

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho letto l'articolo sulla responsabilità esistenziale scritto da Cristina. Beh, il mio commento è che l'argomento è interessantissimo, perché ... ci coinvolge tutti! Tuttavia, proprio perché l'argomento è interessante e profondo, il mio timore è che il tentare di chiuderlo in una semplice comprensione (magari fissata tramite una formula psicologica) possa finire per sminuirlo. Capire il senso della vita è il nostro più grande bisogno, tant'è che senza questo obiettivo restiamo nel vuoto. Eppure da noi stessi siamo praticamente incapaci di trovare la via per ottenere la rivelazione del modo per soddisfare tale bisogno. Infatti l'assenza di senso provocata dalla mancanza di risposte (al senso della vita) è parente dell'assenza di senso provocata dalla sovrabbondanza dei tentativi di risposta escogitati dall'uomo per cercare di riempire il proprio vuoto esistenziale. insomma l'uomo in sé non ha risposte e quelle che cerca di darsi sono in sè insoddisfacenti. Penso,allora, che sarebbe utile partire dal chiederci Chi ha posto in noi (nell'uomo) queste domande di Senso("Chi sono, da dove vengo, cosa c'è dopo questa vita"?)! Su questo punto di partenza troviamo una traccia di risposta nella Scrittura, che dice "Egli ha messo il pensiero dell'eternità nel cuore dell'uomo" - Ecclesiaste 3: 11 -. Vorrei lasciare questa traccia di riflessione per cercare di contribuire alla riflessione sulla responsabilità esistenziale. Infatti la nostra responsabilità di uomini è capire Chi ha messo in noi il pensiero dell'eternità, affinché non ci scervelliamo a comprenderlo da noi stessi, ma ci rivolgiamo a Colui che nel mettercelo si aspetta che possiamo farcelo rivelare da Lui. Ecclesiaste 3: 11 è la traccia che, seguendo il filo conduttore della rivelazione biblica porta a...Gesù, che dice: "Io sono la via, la verità e la vita". Con questa "traccia" l'uomo non deve più vagare e rimanere confuso e disperso, poiché il suo viaggio non sarà più un peregrinare senza meta, ma un cammino con una chiara direzione ed uno scopo preciso!

Cristina ha detto...

Anonimo scrive: “Infatti la nostra responsabilità di uomini è capire Chi ha messo in noi il pensiero dell'eternità, affinché non ci scervelliamo a comprenderlo da noi stessi, ma ci rivolgiamo a Colui che nel mettercelo si aspetta che possiamo farcelo rivelare da Lui.” E più avanti: “Con questa "traccia" l'uomo non deve più vagare e rimanere confuso e disperso, poiché il suo viaggio non sarà più un peregrinare senza meta, ma un cammino con una chiara direzione ed uno scopo preciso!”

Grazie per il tuo commento, che mi dà l’occasione di rileggere quello che scrivevo quattro anni fa. Indubbiamente la nostra vita acquista un senso più alto se inserita nell’orizzonte più ampio di una realtà che trascende l’uomo e comprende le cosiddette realtà invisibili o spirituali. Non credo però che questo liberi l’uomo da una sua responsabilità esistenziale. Certamente il credente si aspetta di ricevere un piano da Dio per servirlo. E quando Frankl dice “che vivere non significa altro che avere la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte all’esigenza dell’ora”, credo che questo valga anche per il credente che può fare lo stesso con i compiti che Dio (invece della vita) gli pone.