16 novembre 2007

Scrivere

Scrivere è difficile, e quando ci si rende conto delle difficoltà la tentazione di fuggire attanaglia i più. In certe situazioni, per qualcuno, lo scrivere può tuttavia trasformarsi da svago in bisogno. Forse non primario, come lo sono il cibarsi, o il dormire, o il ripararsi dalle intemperie, ma finchè non lo affronti e lo soddisfi, ti segue, ti morde ai calcagni, pretende tempo ed attenzione. Non basta pensare “le cose”, sperimentarle, viverle e farsi influenzare per saperle raccontare. Non è la stessa cosa; scrivere è altro, più impegnativo. Se scrivo non devo ricordare, perché nella parola che diventa traccia c’è tutto. E in quel tutto si consuma lo sforzo di chi intende comunicare non una sola volta e ad uno solo, ma in ogni occasione nella quale lo sguardo di qualcuno, chiunque egli sia, percorre quelle righe. Ed io, che le ho vergate, so fin dall’inizio che non potrò essere lì, quel giorno, a spiegare la sofferenza ed i significati che, solo ora, nel confronto con le aspettative degli altri, mi accorgo che faticano a starci dentro. Scrivere è lasciarsi dietro una scia, nata già adulta ed obbligata a spiegarsi da sola. Una scia che non mi appartiene più nell’attimo stesso che diventa nera bava sul foglio. Nel percorso della comunicazione è il ricevente che determina il risultato. Per quanto attento e preparato io possa essere, la parola, o la frase, una volta liberata, entra in un mondo percettivo che ha regole e codici a me estranei e sui quali ho scarsa capacità d’incidere. Quando scrivi un libro non hai il controllo su quello che gli altri capiranno” afferma Umberto Eco. Spesso le parole non esprimono realmente quello che è ingarbugliato nella mente. Le parole hanno il vizio di vivere di vita propria, di richiamare altre parole, indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha scritte. È per questo che alla fine "il significato", ciò che si voleva dire, non è dato, né dalle singole parole, né dalla loro somma, ma da ciò che dentro vi è nascosto; nei rimandi infiniti dell’interazione con il lettore. Appare quindi logico affermare che “il significato” non lo dà la scrittura, ma la lettura. Tuttavia, anche l’esercizio di questa attenzione non basta. Se scrivo delle mie emozioni devo prima averle ascoltate. Devo aver dato loro un nome, un significato ed una valenza, positiva o negativa che sia. Non sarò ancora capace di comunicarle se prima non avrò compreso le mie situazioni emotive, esercitando una scelta che mi consenta di controllarle, di non subirle passivamente. In tutte le fasi di questo processo, nulla ancora è stato scritto. E se ora mi decido a farlo, devo essere consapevole che sto per affrontare la fatica più grande. In riferimento a ciò che ho elaborato e scelto, devo infatti trovare dei termini che siano chiari ed univoci. Comporre delle frasi che nel loro concatenarsi diano costrutto al pensiero. Creare l’atmosfera e l’ambiente adatti per facilitare il compito di chi vorrà cimentarsi con pensieri che parlano attraverso segni immobili, freddi, inanimati, separati dallo sguardo, dal gesto, dal tono della voce: elementi questi che, soli, saprebbero fornire significati e dare spiegazioni laddove il lessico risultasse oscuro al lettore. "Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" affermava Ludwig Wittgenstein e se ci attenessimo a questo principio credo che avremmo ancora il mondo ricoperto di foreste. Perché allora si scrive? Dei nove motivi elencati da Primo Levi trovo che il più pertinente sia “per liberarsi da un’angoscia”. Spesso lo scrivere rappresenta infatti un equivalente della confessione, o del divano di Freud. Se questa è la ragione, ma non è detto che lo sia, non sempre almeno, occorre allora compiere uno sforzo per filtrare l’angoscia, per non scagliarla così com’è, ruvida e grezza, in faccia a chi legge, altrimenti si rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé. Ogni scrittura impone un esercizio, un lavorio faticoso, fatto di continui ripensamenti, di aggiunte e di cancellazioni, con il rischio del fallimento come compagno invisibile e sempre incombente. Si scrive per “dare”, per mettersi in contatto con gli altri, anche quando si afferma di farlo per se stessi. Si scrive come si tende una mano, per condividere un'esperienza. Per Dacia Maraini “scrivere vuol dire prima di tutto dare un nome alle cose”. La scrittura ci forza a scendere nel profondo della realtà, per poi uscirne, attribuendole qualcosa di nostro, di assolutamente personale. Non è questione di talento, mistero di cui non è possibile parlare, né di tecnica, peraltro affinabile, ma, come scrive Marcel Proust “alla stregua dei pozzi artesiani, le opere salgono tanto più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore”. Nello scrivere deve emergere l’intenzionalità del messaggio, “non si scrive per dire qualcosa, si scrive perché si ha qualcosa da dire” affermava Francis Scott Fitzgerald e non è certo il bilancino delle vendite che misurerà il successo dei nostri scritti. Sarà bastato sentirsi lieti di averlo fatto e se poi qualcuno, leggendo, riterrà di poterne trarre un qualche beneficio, sarà un valore che andrà ad aggiungersi al già grande patrimonio di EmmauS. Chiudo questo “post” con due citazioni. La prima è di Orazio e la consiglio a tutti “se volete scrivere scegliete un argomento pari alle vostre forze”. La seconda è di Friedrich Nietzsche “la mia ambizione è dire in dieci frasi quel che chiunque altro dice in un intero libro … quel che chiunque altro NON dice in un intero libro.” decidete voi. Gianpietro

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