16 marzo 2014

La domanda giusta

Da bimbo, alla domanda: “Cosa farai da grande?” avrò indicato, come tanti, il gioco del momento, ma non ne conservo memoria. Negli anni, le domande sono diventate: “Che studi vuoi fare?”, “Quale lavoro cerchi?”,Su cosa ti vuoi impegnare?”, “Insieme a chi vuoi vivere?”. Domande comuni, che ben ricordo, anche se a nessuna posso associare una risposta basata su solidi convincimenti. Chi invece può giurare di avere risposto in piena libertà, cosciente delle proprie certezze? E quanti hanno portato a compimento la scelta iniziale? Chi volevo essere, chi sono diventato: spesso, sogni diversi. A decidere, il più delle volte, è stata la vita stessa con la sua insondabile casualità, fatta di percorsi obbligati, più che di reali alternative. Se oggi mi ritengo frutto delle circostanze, è dovuto all’essermi trovato in un certo posto, in un dato momento e non altrove, o in un’altra condizione. Ho deciso quasi nulla, accettando di rimanere entro binari che non avevo tracciato. Ad ogni incontro mi sono limitato a cogliere quel tanto che bastava per sopravvivere. Ho dato valore alle cose solo dopo averle possedute, prima non esistevano, e non m’importa sapere che presto le perderò definitivamente. Da vecchio, nel vedermi dall’alto, quando sono generoso mi giustifico, se sono obiettivo mi condanno, volendo mentire non nutro rimpianti. “Quanti talenti hai da spendere? E per quale fine?” questa sarebbe stata la domanda giusta, a patto di avere una colonna alta sei metri sulla quale rimanere appollaiato a riflettere per il resto dei giorni. Nessun biografo mi aiuterà a rileggere il passato, meglio allora accettare che il nulla prosegua nell’opera di spegnimento della memoria. Gianpietro

4 commenti:

Cristina ha detto...

Da quando ho conosciuto l’opera di Thoreau, mi sento molto ispirata da questo passaggio in Walden:

“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto.”
(Walden, Henry David Thoreau)

Per me, questo passaggio, da uno stato esistenziale in cui tendevo a lasciarmi vivere alla vera vita, vissuta in profondità e saggezza, è avvenuto nei dieci anni in cui sono vissuta da sola.

Poi, naturalmente, a un osservatore esterno, la mia vita sarà apparsa quella di sempre.
Quello che cambia è la vita interiore, perché solo di quella siamo padroni, ma è una vita che si amplia a dismisura ed è molto più ricca e interessante di quella che siamo soliti chiamare vita, ma che non è altro che routine.

Maria Maddalena ha detto...

Le scelte che si compiono o non si compiono sono e saranno sempre il frutto delle circostanze in cui ci si viene a trovare.
La vera scelta, quella che possiamo sentire veramente nostra, è "come" decidere di vivere in queste circostanze, è la scelta su noi stessi.
Quanti sono coloro che possono dire di aver fatto quello che avevano pianificato di fare nella propria vita?
Il bilancio della propria vita risulterà allora penoso se basato su questo interrogativo.
Io non ricordo cosa rispondessi da bambina alla classica domanda che le vecchie zie di solito pongono ai nipotini "cosa vuoi fare da grande?".
Ricordo invece benissimo che, vedendo le ragazze più grandi, mi dicevo: "Io non arriverò mai ad avere la loro età". E non lo dicevo con senso di angoscia per un ipotetico futuro negato, ma proprio perchè mi era difficile immaginarmi diversa da quella che ero.
Ed è ancora così. Non riesco ad immaginarmi tra 20-30 anni, a "pianificare" il futuro.
Il mio obiettivo è sempre nel presente: essere in pace con me stessa, sicura di non andare verso il nulla, ma verso la pienezza.

Gianpietro ha detto...

Maria Maddalena ha ragione, sia quando rifugge dall'idea di una pianificazione a lungo termine, sia quando colloca la vera scelta nel decidere come vivere le singole circostanze. La mia riflessione puntava soprattutto su quest'ultimo aspetto. Sul come si viene a formare la decisione e da quali fattori viene influenzata (o guidata). Quanto pesano le circostanze e i condizionamenti esterni rispetto al libero arbitrio, alla ponderatezza e convincimento delle scelte. Nella mia esperienza (e di che altro potrei parlare!) l'essere in pace con me stesso poteva configurarsi nell'aver seguito (o non ostacolato) la corrente, nell'aver scelto di non scegliere, nell'aver deciso senza disporre di elementi sufficienti per farlo. Rileggendomi oggi, se non mento, è fonte di rimpianti, di responsabilizzazione per colpe (o errori) volutamente ignorate, auto-assolvimenti, sepolture (ricordi l'assillo della persona uccisa e nascosta?). In quanto al futuro, andiamo tutti incontro al nulla, verso l'entropia, non la pienezza. Le sinapsi si stanno scollegando una ad una e, talvolta, arrivo a sentire lo scatto dell'interruttore che si spegne. Pazienza. Se è solo natura, queste parole non hanno senso; diversamente credo che mi sarà data un'altra chance. Gianpietro

Cristina ha detto...

- ”… sicura di non andare verso il nulla, ma verso la pienezza.”
- ”… andiamo tutti incontro al nulla …non la pienezza.”

Penso che entrambe le espressioni siano corrette, seppure nell’ambito di visioni differenti del mondo e della vita.
In una visione della vita individuale, è evidente che il nostro corpo si dissolve e anche il ricordo del nostro passaggio in questo mondo, in chi rimane, è destinato a scomparire, nell’arco di un tempo più o meno breve. Anche con una visione simile della vita, è possibile all’uomo svolgere bene il suo lavoro, volere bene agli altri, stare nel bene e agire con giustizia. Credo che questa sia una visione di tutto rispetto, anche onesta, che non rimanda il senso della vita a un aldilà e questo è ragionevole, perché il nostro pensiero non ha voce in capitolo in tutto ciò che è infinito ed eterno. Parafrasando Buddha, non ha senso pensare all’infinito, mentre la casa brucia. Vale a dire che è inutile arrovellarsi intorno al fine ultimo della vita, molto meglio buttarsi nell’avventura della vita, perché ci sono compiti più urgenti a cui dedicarsi.

La vita in pienezza credo che, invece, si collochi in una visione evolutiva della vita e dell’universo, della quale ci si sente parte. E’ un dato scientifico che c’è un’evoluzione e che si evolve verso il meglio, verso l’alto e che questo sia il fine della vita: crescere e svilupparsi. Vivere una vita così, significa tendere all’armonia con il dentro, il fuori, e la parte superiore di noi stessi, dove hanno sede il coraggio, l’intuizione, l’ispirazione, l’amore per l’arte, e tutte le qualità umane superiori e anche questo non è un compito da poco e non tutti ci riescono, anzi penso che vada tenuto ben presente che il percorso è continuo, accidentato, non lineare, pieno di cadute e regressioni.
Poi, c’è anche chi va oltre, verso un livello di coscienza religiosa o spirituale, che però è una attività che va oltre la mente e che per il momento qui non ci interessa, perché mi pare che il tema riguardi invece il personale, che credo abbia molta importanza, perché se non si sciolgono i nodi a questo livello, poi credo sia difficile proseguire.