22 maggio 2013

Le scelte


I nostri comportamenti dipendono da un’infinità di fattori. Impossibile stilarne un elenco esaustivo. Solo per citarne alcuni: la differenza di genere, lo stadio dell’esistenza, le condizioni di salute, le risorse a disposizione, le condizioni ambientali, le convenzioni ed il ruolo sociale, la storia personale, i vincoli familiari, la cultura, le tradizioni, l’educazione, le aspettative individuali e le pressioni sociali, lo stato emotivo e psichico del momento, il carattere, la sensibilità … i pensieri … i sentimenti …. E questi sono solo una parte degli elementi che entrano in gioco, a diversi livelli d’intensità e senza che si possa tracciare una scala di priorità. Si tratta di un mix che può variare, per quantità e rilevanza, anche sensibilmente da individuo a individuo. Parlarne in termini generali sarebbe da sciocchi. Un po’ come definire il livello di felicità, o di sofferenza, attribuendo peso prevalente a quello che, a nostro giudizio, costituisce il fattore dominante. “Quella persona non potrà mai essere felice con la situazione familiare/economica/di salute che si ritrova…”, oppure “Non capisco cosa gli manchi per essere felice. Si gode la pensione, è in buona salute, senza problemi economici, né familiari …” La realtà può essere ben diversa, può dipendere da tutt'altro. “Il piacere di vivere”, così come “il male di vivere”, possono coesistere alternandosi fino a sembrare, riflessi nello stesso specchio, uno il negativo dell'altro. Non si tratta di compensazione tra opposti e nemmeno della ricerca di un compromesso. Nel campo dei sentimenti questa dicotomia si manifesta con maggiore evidenza. La capacità di controllo è ridotta, i dubbi possono diventare assillanti e la percezione della realtà è fortemente distorta. Si convive con spinte contrapposte ed il passaggio dall'una all'altra sponda è sempre un salto nel vuoto, un momento di vero panico, di fiato sospeso. In quei frangenti gioia e dolore crescono in modo esponenziale e la differenza tra la strada e la scarpata diventa minima. Gianpietro

18 maggio 2013

November rain

Si pensa di potere aspettare, che non sia necessario correre, avere fretta di decidere. Ci saranno altre possibilità, nuove occasioni. Basterà farsi trovare pronti. Passano gli anni e li riempiamo di cose non fatte, di opportunità che ci siamo lasciati scivolare addosso, perdendole definitivamente. Tanto ne verranno altre: abbiamo detto. È stato così per le scelte di studio, lavorative, culturali, di svago, di ricerca, affettive… Sono soprattutto le persone che tendiamo a considerarle di passaggio. È come se le vedessimo immerse in un flusso continuo nel quale crediamo di poterci inserire a nostra discrezione. Siamo convinti di avere il diritto a pescarvi sempre il meglio, ma senza fretta, tanto c’è tempo, ne passeranno di più interessanti. Per alcuni, queste scelte risultano condizionate dall'ambiente, dalle tradizioni, da vincoli oggetivi, da figure estranee. Il peso delle decisioni viene rimosso dalle spalle di chi dovrebbe/vorrebbe portarlo e spostato su altri che diventano così proprietari anche dell’anima. In entrambi i casi le difese accumulate negli anni si ergono a formare una barriera che toglie l’orizzonte alla vista e respinge chi vorrebbe accostarsi. Molte occasioni non si ripresenteranno più. Ma quando un giorno incontriamo la persona che sognavamo di poter scegliere e dalla quale vorremmo essere scelti, ecco che intorno a noi la gabbia ha già preso forma e consistenza, ed anche il tempo assume ben altra rilevanza. L’insofferenza pervade le giornate, ogni attimo d’attesa è visto come uno spreco. Siamo noi a trovarci trascinati dalla corrente, invocando un braccio che si allunghi nella nostra direzione prima di venire sospinti oltre. Vorremmo gridare: “Non perdere questa opportunità! Cambia il corso dell’esistenza! Fermati e scegli!”. Parole che pronunceremo a gran voce, consapevoli che potremmo non essere ascoltati. Gianpietro

7 maggio 2013

Fine vite

Nutro stima e rispetto nei confronti di Vito Mancuso e mi trovo solidale con diverse sue analisi (ho apprezzato in particolare “L’anima e il suo destino” ed. Raffaello Cortina – 2007). Non altrettanto convincenti mi sono parse le considerazioni riportate nell’articolo pubblicato su “La repubblica” del 5 maggio 2013 (clicca qui per leggerlo, prima di proseguire).
Il tema (eutanasia, o suicidio assistito) è ampio e non offre appigli a chi fosse alla ricerca di verità incontrovertibili (tralascio gli integralisti e i dogmatici). Assumo pertanto come valide, sia le due premesse “alleviare la sofferenza, sempre” e “rispettare la libera autodeterminazione delle coscienze, sempre”, sia la classificazione dell’individuo, la sua “consistenza”, nelle cinque forme di vita (di qui il plurale nel titolo del post) raggruppate nelle tre classi “bios-zoè” (biologica e animale), “psychè” (psichica) e “logos-nous” (ragione e spirito). Accetto anche che tra di esse esista un ordine crescente in termini evolutivi (sia temporali che di consapevolezza). Detto questo mi è parso evidente, dalla lettura del testo, che all’ultimo livello “logos-nous” viene attribuita la responsabilità delle scelte che impattano sui livelli inferiori: “io penso che il rispetto della vita debba consistere alla fine nel rispetto della sua vita spirituale (nous), della sua coscienza o libertà” e più avanti: “cosa è più sacro: la vita biologica o la vita spirituale?”. Queste affermazioni pongono già un problema nei confronti di chi quel livello non lo ha ancora raggiunto (infanzia e sottocultura) o lo ha perduto (malattie e infortuni). Chi stabilisce inoltre la sua esistenza, completezza e integrità? È quindi al livello del “nous” che andrebbero assegnati tutti i poteri decisionali sulle “vite” dei livelli “inferiori”: non solo su quella biologica/animale, ma anche su quella psichica. Eventualmente in modo selettivo?
Sviluppando il discorso credo si possa andare oltre il limite posto dall’autore: “di fronte ai casi estremi di malattia, quando la disarmonia tra le forme vitali diviene lacerante…” dato che egli stesso fa riferimento a: “esseri umani che non riescono, o non vogliono, mantenere l’armonia tra la loro vita biologica, la loro vita psichica e la loro vita spirituale” e poco più avanti lo ribadisce con un’affermazione che, a mio avviso, apre la porta a scelte di “fine vita” non strettamente collegabili a condizioni di tipo “vegetativo”. Dice infatti: “e se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita bios perché per lui o per lei l’esistenza è diventata una prigione e una tortura … lo (si) deve rispettare”. Quali tipologie di suicidio non rientrano in tale casistica? Chi, oltre all’interessato, può valutare le condizioni di: “ansia, paura, sofferenze devastanti per la salute psichica e spirituale”?
Le lascio come domande aperte.
Personalmente ritengo che nessuno stato e nessuna religione debbano tramutare il “diritto” alla vita in un “dovere” e in questo condivido l’affermazione dell’autore: “nessun essere umano può essere costretto a continuare a vivere”, ma la amplio, sostenendo: “a prescindere dalle condizioni e dalle circostanze della scelta”. Gianpietro

6 maggio 2013

L'arte della semplicità

L’arte della semplicità” è il titolo di un bel libro di Dominique Loreau, che dagli anni ’70 vive in Giappone e ha adottato lo stile della filosofia zen anche nella sua vita pratica di tutti i giorni. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e credo che sia importante precisare che semplice non ha il significato di una diminuzione, ma significa essenziale. Viviamo circondati da migliaia di oggetti, molto spesso inutili, che però ci dispiace buttare via, perché sono legati a un ricordo o perché sono stati di moda e li abbiamo pagati tanto o perché pensiamo possano tornare a servire un giorno o l’altro. Dopo aver letto questo libro, viene voglia di eliminarli una volta per tutte e certamente non li rimpiangeremo. Gli oggetti che ci servono veramente sono davvero pochi e non bisogna pensare che una casa disadorna perda in bellezza, perché invece gli spazi si riempiranno di luce, di profumo, di aria: elementi bellissimi che renderanno migliore la nostra vita. Io ho cominciato anni fa a liberarmi degli oggetti inutili e soprattutto di quelli brutti e questo ha fatto nascere in me, per ogni nuovo acquisto, il bisogno di comprare solo quello che veramente mi serve e non occupa solo spazio, ma che sia anche bello, artigianale, piacevole al tatto e alla vista, pensando anche che quando lo eliminerò, perché mi avrà stancato, potrò darlo a qualcuno e questa persona ne ricaverà il piacere, alla sua vista, che ha dato a me la prima volta. E non importa se questa persona, che avrà un mio abito, o una borsa, o un servizio di piatti, o un gioiello, sarà un’amica, un familiare, un povero, che si veste con quello che si lascia nei cassonetti della Caritas. Sarà bello condividere con altri l’oggetto che abbiamo acquistato, solo se non è sciupato ed è ancora bello, come quando lo abbiamo ricevuto noi la prima volta. Così ho fatto con i libri. Quelli che non mi erano piaciuti sono finiti nel cassonetto della carta da riciclo e ho regalato solo quelli che, pur essendomi piaciuti, non avrei riletto, perché nella biblioteca di casa è meglio tenere solo pochi libri, essenziali, importanti, che amiamo leggere e rileggere, e per tutti gli altri, fortunatamente, adesso c’è il lettore digitale, che ne contiene migliaia e non occupa spazio. Dopo essermi circondata solo di oggetti belli e funzionali, in casa, è stata la volta di fare pulizia nei miei pensieri. Quanti luoghi comuni, quante idee fisse inculcate nella mia testa, chissà quando e chissà da chi. Solo tra le amicizie non ho fatto nessuna pulizia, come invece sembra raccomandare questo piccolo libro, perché quelle che ho sono poche e mi sono tutte care. Sono tutte diverse tra loro e anche da me, ma non importa: alcune sono recenti, magari acquisite sul web o frequentando qualche comunità, altre, di vecchia data, risalgono addirittura all’infanzia.
Concludo infine con un pensiero di Thoreau a cui ricorro spesso e che forse oggi varrebbe la pena per molti di ricordare: “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno.” (David Thoreau, Walden). Cristina

5 maggio 2013

DOMINO

Nel corso dell'esistenza si creano tra le persone intrecci che, a priori, non si sarebbero potuti immaginare. Le relazioni che contano prendono spesso il via da episodi che nulla hanno di canonico e seguono snodi dagli esiti talmente aleatori da sembrare poggianti sul nulla. Succede poi che queste relazioni prendono consistenza, quasi fossero sorrette da fili invisibili: si rafforzano, diventando prioritarie e prevalenti. Alla base restano tuttavia equilibri instabili, dichiarazioni d'intenti che sembrerebbe facile spezzare, o disconfermare. Ad esse si contrappongono situazioni esteriori, dipendenze relazionali e affettive, tante particolarità contingenti che puntellano l’intera struttura, fino a quando, modificandosi anche un solo tassello, viene ad alterarsi l’equilibrio complessivo. Sono come le tessere di un domino accostate le une alle altre. A seconda del tipo di disequilibrio che si viene a creare, causa anche fattori del tutto esterni alla relazione, si presenta un nuovo quadro d’insieme, al cui interno le tessere assumono un differente orientamento, talvolta opposto a quello iniziale. Ciascun attore è allora chiamato a recitare una parte del tutto nuova. Ruoli che erano comunque già contemplati dal copione: noti, dichiarati e condivisi da ogni recitante, ma dall'esito incerto perché mai provati sul campo. Se in una scena si attiva una promessa, ancorché basata su una mera ipotesi, si deve essere consapevoli che in una delle scene successive è possibile, con variabile probabilistica da zero a cento, che quella promessa debba essere mantenuta. Puntellarsi su equilibri basati unicamente su scenari teorici e mai sperimentati, è fattibile, ma impegnativo. Può venire il giorno della verità, del sì pronunciato al posto di una sequenza infinita di no, ed allora si deve essere pronti a rendere conto di quanto promesso, degli impegni assunti. Quando ciò accade va inoltre tenuto presente che gli attori sono già stati duramente provati dalle condizioni che hanno portato al cambiamento. I tempi di attuazione delle scelte sono ridotti ed i margini di manovra minimi. In quella fase le possibilità di modifica delle prospettive sono nulle, o possono risultare inaccettabili agli occhi di chi ha puntato tutto sugli impegni dichiarati e costantemente ribaditi.
Ecco, con questa consapevolezza, io rinnovo la promessa. Qualunque sia la sua scelta. Gianpietro

3 maggio 2013

il "giusto mezzo"

Sono trascorsi due mesi dall’ultimo post pubblicato su questo blog. Un intervallo comunque limitato, dato che ormai si tratta di uno spazio riservato a pochi intimi, non più identificabile come strumento comunicativo di un’associazione. Credo sarebbe anche corretto modificarne il nome: operazione però non consentita dato che  fa parte dell’url. Prima tuttavia di rimuovere, quanto meno, il logo di EmmauS, mi piacerebbe avere vostri suggerimenti. Dicevo di questi due mesi trascorsi nel silenzio degli autori, al pari di quello dei visitatori. Oggi Cristina lo ha interrotto citando Tolstoj in un commento su “Alternanza” del 3 marzo. Sono lusingato per l’accostamento, ma dissento rispetto all'invito ad adottare il “giusto mezzo” (l’aurea mediocritas proclamata da Orazio). Per gran parte dell’esistenza ho seguito proprio quella regola: “non rischiare”, “aspetta”, “stai alla finestra”, “ fai il minimo”, “scegli il male minore, o il bene meno impegnativo”, “adattati alle circostanze”, “non esagerare”, “sopporta”, “non esporti”, “soffoca le passioni”, “pensa agli altri”, “non creare sofferenza”, “sii responsabile”, “pazienta”, “rinuncia” …  sempre alla ricerca dell’equidistanza tra il nihil e lo slancio (non me la sento di usare il termine “illusioni” scelto da Cristina).
Oggi avverto per intero il peso di questa politica della non scelta, di questo comportamento votato alla disperazione, frutto di compromessi, spesso nemmeno sollecitati. Questo periodo è terminato, quell'io ha cessato di esistere il 9 marzo. Una volta varcata l’ultima sliding door è nato un nuovo individuo. Due mesi fa ho scelto un differente battesimo, che in questi giorni ho riconfermato con una promessa fatta seduto in terra, la schiena appoggiata ad una lapide. Da oggi non più galleggiamenti avvolti dalla nebbia, silenzi mascherati da quieto vivere. Da oggi voglio urlare di gioia, ed allo stesso modo piangere di dolore. Bruciarmi se mi attira il fuoco, annegarmi se mi attrae l’abisso. Da oggi ho scelto di amare a dispetto delle regole e delle convenzioni, dell’età e delle circostanze. Ho scelto di amare, qualunque sia la sua scelta. Ho deciso di vivere. Gianpietro
I due ruscelli
Finalmente riuniti
Un solo canto

10 marzo 2013

Mille

Percorrono mille rivoli le motivazioni della crisi. Mille sono le colpe attribuite a mille diversi colpevoli che ognuno individua, ma che nessuno condanna. Mille i mostri virtuali ai quali lasciamo manovrare leve prive di impronte umane. Mille sono le interpretazioni dello stesso fatto e mille sono i  fatti che rimangono privi di una interpretazione. Mille le giustificazioni, mille gli alibi, milioni le bugie che difendono milioni di interessi. Mille gli indicatori che puntano verso mille direzioni contrapposte e mille le voci che sanno distorcerne la interpretazione. Mille le conseguenze previste e altre mille quelle imprevedibili, che milioni di occhi leggono in mille differenti modi. Mille le scelte possibili, consigliate, imposte, devianti, comunque sbagliate: ognuna con mille esiti aventi identiche possibilità di realizzazione, e mai nessuna che soddisfi le attese. Mille sono i passi che trascinano verso un’identica deriva gli onesti inconsapevoli legati ai consapevoli disonesti. Mille le domande senza risposta, mille le risposte date a domande non formulate. Mille i perché urlati disperatamente, mille le motivazioni false e interessate. Mille gli atti estremi che rimbalzano sul muro di mille pianti ipocriti. Mille proclami, mille programmi, mille soluzioni, mille minacce, mille moniti, mille appelli, mille interrogazioni, mille richiami. Milioni di insulti e di parole rubate e urlate al vento. Nessuna prospettiva, ma un solo esito certo. La rana sta bollendo. Gianpietro

9 marzo 2013

Sliding doors

Talvolta, si verificano inaspettate soluzioni di continuità, capaci di sciogliere lacerazioni provocate da spinte contrapposte. Si tratta di eventi esterni e, spesso, da noi indipendenti. Clamorosi o banali, ma sempre efficaci quel tanto che serve a rompere, per tempi indefiniti, lacci che parevano inestricabili. Ai più significativi diamo il nome di “momenti di svolta”. Spesso si presentano in forma di individui, la cui influenza marca profondamente la nostra esistenza, sia che ci abbiano rivolto lo sguardo una sola volta, sia che ci accompagnino fino alla morte. Altre volte sono eventi, accadimenti traumatici, tanto quelli lieti come quelli dolorosi, in grado di spostare il baricentro dei nostri interessi. Sotto quelle spinte la vita ridisegna il proprio percorso e dal loro verificarsi traiamo le giustificazioni allorché ci voltiamo per rileggerne il senso. Di fronte ad essi ci sentiamo indifesi, anche se non ci viene preclusa la possibilità di barare. Ma tantissimi altri incontri marcano il sentiero, costellandolo di occasioni vissute o perse, di mani protese o chiuse a pugno, di sguardi distolti o affrontati, di scelte lasciate a chi veniva dopo di noi o accettate anche quando non si era costretti a farlo … Mi è facile pensare alle tante “sliding doors” che si sono richiuse alle mie spalle, in numero almeno pari a quelle contro le quali ho sbattuto il viso. Mi volto e credo di vedere una linea retta. Mi sembra che nulla potesse essere diverso da come è stato. Mi ripeto allora che non ho fatto altro che seguire un solco, e che la libertà di scelta è una finzione. Ciò che è stato, è stato così come doveva essere e diversamente non poteva. Eppure quelle porte non le ho dimenticate, la soluzione di continuità l’ho avvertita e se oggi mi dico “avrei potuto”, l’avrei potuto dire anche allora.
Ma non è di questo che volevo scrivere. Stasera riflettevo su altri incontri, su "sliding doors" cosiddette “minori”, quelle che possono avermi dato un attimo di serenità o avere favorito il sorgere di un dubbio. Quelle che hanno contribuito a darmi la spinta giusta oppure avermi aiutato nella frenata. Nei miei ricordi lo sono state alcune letture, purtroppo ignorate quando sarebbe stata invece l’età giusta per farle. Lo è stata certa musica, come quella che ascolto adesso mentre sto scrivendo, casualmente scoperta nell’unico momento, tanti anni fa, in cui serviva. Lo sono stati gli scritti che mi sono regalato, disseminati negli anni, nei diversi tentativi di ricerca interiore, mai completata, e che vorrei avere la capacità di continuare. Lo sono certe amicizie nate per gioco e che si cibano d’aria, di attese, di silenzi più che di parole. Incontri casuali e che tali rimangono fino a quando una parola in più dà origine alla soluzione di continuità. Ed ecco lo squillo che getta un’asse tra le rive. Percorrerla significa ritrovarsi con una pianta tra le mani alla quale donare l’acqua giusta perché non inaridisca, ma, al contempo, cresca senza il rischio di annegare. Gianpietro

3 marzo 2013

Alternanza


Ci sono momenti, periodi lunghi anche più giornate, che vivo malvolentieri non sopportando lo stress che mi procura il concatenarsi degli impegni. Per contro, vi sono altre giornate nelle quali la mancanza di compiti genera noia, ansia, un'uguale sofferenza. E questo alternarsi convive con un malessere che ha molteplici cause. Il rumore di fondo è sempre lo stesso: l’incertezza, la sensazione d’impotenza, d’ineluttabilità, d’inadeguatezza di fronte ai comportamenti che mi vengono richiesti o ai quali credo di dovere attendere. Fuga e ricerca, immersione e soffocamento, ansia e noia, con margini di tolleranza sempre più ridotti. Complice un degrado mentale e fisico che, riconoscendolo, tento, ma è sforzo vano, di respingere. Essere qui e altrove. Vedermi dall’alto per tutto comprendere e contenere. O identificarmi solo con l’io interiore: testuggine che non riceve luce e non dà voce. Nel passato c’erano prospettive, attese dettate dalle consuetudini, regole inconsapevolmente accettate, che scandivano tempi e modi. Poi tutto questo è finito. Non ricordo il momento, né ha senso cercarlo. Se c’è stato, era una bandiera abbassata, non la causa. Forse uno scritto liberatorio. Forse la fine dei giochi, che si chiamassero lavoro o studio. Forse occhi che si sono finalmente aperti sul vuoto intorno, non visto, ma sempre esistito. Ed ecco l’ansia che ondeggia tra il bisogno di colmare e il desiderio di fuggire. Chi mi giustificherà per le ore che spreco? Tra pochi giorni compio gli anni. Per mio padre fu l’ultima volta. Gianpietro

28 gennaio 2013

Shoah


Prima di tutto vennero a prendere gli zingari 
e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

(Martin Niemöller 1892-1984)

27 gennaio 2013

Sono un "baby boomer"


Nei giorni scorsi ho ultimato la lettura del libro di Federico Rampini “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo – manifesto generazionale per non rinunciare al futuro”. Non si tratta di un "vero" libro, ma della ristampa di una serie di brevi articoli già pubblicati sul quotidiano del quale l’autore è corrispondente dagli USA. Articoli tutti inerenti il tema dei cosiddetti “baby boomers”. È un genere di saggistica che non mi attira, sia perchè la forma adottata non offre sufficienti approfondimenti, sia perchè su gran parte delle tematiche sociologiche si può dire tutto ed il contrario di tutto. Tuttavia, rientrando anch’io, seppur di poco, nel range anagrafico che mi classifica come “baby boomer” mi sono posto alcune domande. Ad esempio: perché …
... il significativo innalzamento dell’aspettativa di vita, in termini sia quantitativi che qualitativi, viene considerato una conquista a livello individuale, ma un grave pericolo (e quindi un danno) a livello sociale?
... un sessantenne in buone condizioni (come nella maggioranza dei casi) e con una prospettiva di diversi anni di capacità produttiva viene considerato di intralcio, di ostacolo all’inserimento della generazione successiva nel mondo del lavoro?
... si parla di noi in termini di gerontocrazia, di generazione tappo, ancorata a privilegi anacronistici, consumatori di risorse sociali, mentre mi ritengo fonte di saggezza, depositario di esperienze, possibile guida?
... un rancore così forte nei confronti di padri/nonni apparsi solo una generazione dopo quella, allora rispettata, ma che ha causato l’olocausto della seconda guerra mondiale e subito dopo ci ha riempito il materasso di ordigni nucleari?
... si innalza l’età pensionabile e nel contempo si incentivano le uscite anticipate dal mondo del lavoro di chi non ha ancora sessanta anni?
... le pensioni perdono continuamente potere di acquisto, non venendo adeguate all’inflazione, e nel contempo veniamo colpevolizzati se non compriamo una nuova automobile ogni anno?
... il mercato non offre posti di lavoro per i nostri figli, mentre gran parte degli articoli che acquistiamo reca sulla targhetta la scritta “made in china”?

Adesso cambio genere di lettura. Gianpietro

20 gennaio 2013

Quel 17 gennaio


Solo dopo aver pubblicato il commento al post di Cristina sulle “badanti” mi sono reso conto che era il 17 gennaio. Ho avuto bisogno di quell’input per ricordarmi che in quello stesso giorno di sei anni fa aiutavo Valentina (la badante) a lavare e rivestire il corpo ancora caldo di mia madre. Diversamente, avrei di certo ignorato la ricorrenza. Ci ho riflettuto in questi giorni e mi sono chiesto se quella morte mi ha procurato sofferenza, se ho impiegato del tempo per elaborare il lutto, se conservo memorie che mi tengono a lei legato. No, niente di tutto ciò. Si è verificata una soluzione di continuità, un trasloco che non lascia indirizzo. Fine, non c’è da voltare pagina, ci si riorganizza e basta. Detesto le cerimonie, rifuggo i funerali e non sopporto l’immagine dei cimiteri, o l’idea di portare fiori sulle tombe. Situazioni nelle quali mi sono venuto a trovare, ma che ho vissuto con ipocrisia. Non amavo mia madre? È probabile, ma con mio padre non è andata diversamente. Non li ho visti morire. Un’auto che bloccava l’uscita dal parcheggio mi ha fatto arrivare in ospedale pochi minuti dopo che mio padre era morto. E quando la badante ha suonato alla mia porta la mamma non respirava già più. Non ho dovuto chiudere i loro occhi, ma ricordo le mani calde e morbide. Ho intrecciato le mie dita alle loro e le ho tenute strette il tempo di un saluto, l’invito a non trattenersi, a seguire la loro strada dimenticandosi di noi. Poi mi sono occupato di ciò che andava fatto. Li penso raramente e sempre in collegamento ad episodi di vita. Non soffro per la loro assenza, né vado a rileggerne il nome sulla lapide. Mi chiedo se sia giusto, o se difetto di sentimenti. Non ho una risposta, ma vorrei che quel giorno anche gli altri facessero lo stesso con me. Gianpietro

15 gennaio 2013

Vengono soprattutto dall'Est ..


Vengono soprattutto dai paesi dell’Est, ma anche dal Perù, dalla Bolivia e dalle Filippine. Le abbiamo messe accanto alla fragilità e alla sofferenza di disabili e anziani, abbiamo affidato a loro i nostri affetti più cari, svolgono mansioni che nemmeno la nostra carità di figli potrebbero farci svolgere senza provare disgusto, però abbiamo messo loro un nome che non è né bello né dignitoso: le abbiamo chiamate badanti. Il termine viene dal mondo contadino e si riferisce alla persona che bada alle mucche o agli altri animali della stalla. Chi come me non ha mai amato questa parola ci gira intorno, ma susciterebbe derisione se dicesse di avere in casa una governante, una cameriera o una domestica. I ricchi hanno persone che svolgono quelle mansioni, la classe media ha le “badanti” per assistere i familiari e le “donne” per fare le pulizie. Ieri è stato il primo giorno di Nina (non è il suo vero nome, ma la chiamerò così) che è venuta per assistere la mia mamma anziana, mentre io sono al lavoro. Avrei baciato la terra su cui cammina, tanto è il sollievo e il conforto che ha portato nella mia vita. Dice che al suo paese ha fatto la fisioterapista e da quattro anni lavora in Italia, per far studiare i figli. Non c’è nessuna possibilità di controllare le informazioni, e ci si affida alle referenze, soprattutto se, come nel suo caso, ha già lavorato presso una famiglia che si conosce. Nina non esprime le sue emozioni, o per meglio dire ha una sola espressione: sorride sempre annuendo. A volte mi chiedo se abbia veramente capito, ma non voglio ferire la sua suscettibilità, ripetendole le cose più volte. Non sono ancora riuscita a capire che cosa le piaccia mangiare, perché a questa domanda risponde sempre che per lei  non è un problema. Ho riempito allora il frigorifero con tutto: filetto di manzo e di pollo, prosciutto, formaggio, verdure di tutti i tipi, frutta, vasetti di salsa e condimenti vari; e così la dispensa di pasta, funghi e tutte le cose che possono stare fuori dal frigorifero. Ed è divertente, perché, risolto il problema dell’assistenza di  mia madre, si presenta quello di assistere chi la assiste. Gli amici mi hanno detto che non appena trovano di meglio se ne vanno e ci lasciano così, senza  nemmeno un preavviso, e allora la vita diventa una gara per essere la famiglia migliore, presso cui possano desiderare di lavorare. Cristina

11 settembre 2012

Il silenzio

(pag. 22): "Voi parlate quando avete perduto la pace con i vostri pensieri."

Io amo il silenzio. Sono sempre stata poco loquace, fin da bambina, e in famiglia sono sempre stata rimproverata per questo: come se il non parlare in continuazione denotasse mancanza di partecipazione a ciò che accadeva intorno a me. Non sono in molti a dare il giusto valore al silenzio. Con i ragazzi che seguo dedico sempre almeno un incontro ad approfondire questo tema e più che altro a sperimentarlo. E risulta essere sempre l'incontro per loro più imbarazzante...
Comunque, dal momento che preferisco il silenzio, lascio a chi è più bravo di me con le parole il compito di commentare questo testo.
Maria Maddalena

17 agosto 2012

Gradini

L’estate è un tempo molto bello perché ci sono le vacanze e se si coglie questa opportunità come uno stato dell’anima e non come una corsa forsennata a intasare le autostrade è anche un tempo molto bello per fermarsi a pensare da soli o con gli amici o anche con qualche estraneo. L’altro giorno un amico mi diceva che lui da tempo pensa che si dovrebbe vivere ogni giorno come se fosse il primo e non l’ultimo, come qualcuno è invece solito dire e citava questa poesia di Hermann Hesse che è davvero molto bella e che vi voglio dedicare in questo ultimo giorno di vacanza, perché lunedì dovrò tornare al lavoro. Ogni giorno può essere un nuovo inizio per progredire e ampliare la nostra coscienza e a questo anche una poesia può servire. Cristina

Gradini (Hermann Hesse)
  
Come ogni fior languisce e
giovinezza cede a vecchiaia,
anche la vita in tutti i gradi suoi fiorisce,
insieme ad ogni senno e virtù, né può durare eterna.
Quando la vita chiama, il cuore
sia pronto a partire ed a ricominciare,
per offrirsi sereno e valoroso ad altri, nuovi vincoli e legami.
Ogni inizio contiene una magia
che ci protegge e a vivere ci aiuta.
Dobbiamo attraversare spazi e spazi,
senza fermare in alcun d'essi il piede,
lo spirto universal non vuol legarci,
ma su di grado in grado sollevarci.
Appena ci avvezziamo ad una sede
rischiamo d'infiacchire nell'ignavia:
sol chi e' disposto a muoversi e partire
vince la consuetudine inceppante.
Forse il momento stesso della morte
ci farà andare incontro a nuovi spazi:
della vita il richiamo non ha fine....
Su, cuore mio, congedati e guarisci...

3 luglio 2012

Sul dare

(pag. 8): "E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito. Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell'aria la sua fragranza."

Questo capitolo mi riporta all'episodio del Vangelo di Marco (Mc 10,17-31) in cui l'incapacità di un ricco di lasciare i propri beni dà a Gesù l'occasione per avvertire i propri discepoli del pericolo che consiste nel lasciarsi imprigionare nell'orizzonte soffocante delle ricchezze. Se il nostro sguardo è catturato dai beni (da quelli che si hanno e da quelli che si vorrebbero avere) saremo prigionieri dei beni. Vivremo nella paura di perderli o di non poterli mai avere. La ricchezza in sé non va però condannata. Non la mano, ma il cuore deve star lontano da essa. Si tratta di saperla utilizzare per il bene degli altri. Chi è ricco lo è per gli altri. Resta comunque sempre il fatto che è quando si dona se stessi che si dona veramente. E lo si deve fare "senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito". Perchè donarsi in questo modo fa sentir bene se stessi prima ancora dei beneficiari del proprio aiuto. Maria Maddalena

18 giugno 2012

Quale libertà oggi

(pag. 18 e pag. 19) “Se è un despota colui che volete detronizzare, badate prima che il trono eretto dentro di voi sia già stato distrutto. Poiché come può un tiranno governare uomini liberi e fieri, se non per una tirannia e un difetto della loro stessa libertà e del loro orgoglio?”

Si parla molto di libertà oggi e, come qualcuno ha giustamente detto a proposito dell’acqua, quando si parla molto di un bene, vuol dire che questo bene sta cominciando a scarseggiare. Ha ragione l’autore de “Il Profeta” a dire che la libertà comincia da noi stessi e se non abbiamo la libertà interiore, diventa allora inutile detronizzare potenti e tiranni, perché a un potere ne seguirà un altro, se ci sono uomini che non sanno vivere da uomini liberi. Ma, nella concretezza, cosa significa essere uomini liberi? Penso che voglia dire che c’è un bene che promuove la vita e oggettivamente pensabile e non dipende dalle circostanze, ed essere liberi significa avere la capacità di giudizio per individuare quel bene e operarlo. Socrate in catene, che decide di morire, piuttosto che scappare in esilio, non si piega all’arroganza del potere e se oggi il suo pensiero si è tramandato fino a noi e nutre ancora il nostro spirito è in virtù di quella scelta. Se Socrate fosse fuggito, non sarebbe stato per i suoi discepoli un esempio da seguire, perché, nel momento della massima libertà, quello della scelta, lui avrebbe preferito rinunciarvi, per salvarsi, e tutto quello che aveva detto fino a quel momento avrebbe perso di valore. Ma tornando ai nostri tempi, penso che libertà interiore voglia dire libertà della coscienza di riconoscere il bene anche nella situazione più drammatica e farlo. Non ci dobbiamo illudere che oggi possa nascere un  governo che ci assicuri la libertà, perché la democrazia, ammesso che sia mai esistita, oggi non c’è sicuramente e non ci dobbiamo illudere al riguardo. Possiamo, però, operare il bene, in qualunque situazione ci troviamo, e questa libertà non ci verrà mai a mancare. Cristina 

13 giugno 2012

Il lavoro

(pag. 11) Il lavoro è amore rivelato. E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.

Il capitolo sul lavoro de “Il Profeta” è molto bello dal punto di vista teorico, perché mostra che in ogni mestiere, anche quello umile del panettiere, ci può essere poesia, se svolto con amore e, se manca questa qualità, persino il pane verrebbe male. Ma gli antichi dicevano anche che prima bisogna vivere e poi fare della filosofia e leggendo la biografia dell’autore di questo libro si scopre che c’è della verità e del buon senso anche in questa affermazione. Gibran potè studiare, scrivere, dare vita a riviste e associazioni culturali, pur provenendo da una famiglia economicamente disagiata, solo perché ci fu chi lo mantenne, a cominciare dalla madre, con il suo lavoro di merciaia, poi, quando la madre morì, la sorella, con il suo lavoro di sartina, e per finire un'anziana amante, Mary Haskell, che finanziò la maggior parte delle sue iniziative. Nessuno scrittore riuscì mai a mantenersi con il proprio lavoro e fu principalmente per questo motivo che gli scrittori un tempo, o prevenivano da famiglie facoltose, oppure dovevano lavorare, svolgendo mestieri modesti, che non potevano certamente amare, come Pessoa e anche altri. Ci provò Proust a lavorare come bibliotecario o archivista, ma credo che non durò nemmeno un mese. Ma sarebbe certamente bello, non riuscendo a lavorare con gioia, vivere accettando la elemosina di chi con gioia, invece, lavora. Ma io credo che sia esattamente il contrario: che qualcuno possa lavorare con gioia, solo perché c’è chi, lavorando con disgusto, finanzia il suo lavoro. E non dobbiamo pensare per forza male, alludendo a corrotti e parassiti. Penso a chi lavora nella ricerca, con passione, dedicando a essa tutta la vita. Molto spesso lo può fare perché ci sono contribuenti, non sempre così felici di farlo né di lavorare, che lo sostengono. Allora questo capitolo lo modificherei sostanzialmente dicendo che, dovendo lavorare, cercheremo di essere almeno responsabili del nostro lavoro e di farlo bene, cercheremo anche di essere sempre gentili con tutti, sorridendo al mattino, quando entriamo al lavoro, anche quando non avremmo nessuna voglia di farlo. Cristina

12 giugno 2012

Sul matrimonio

(pag. 7) “Cantate e danzate insieme e state allegri, ma ognuno di voi sia solo. Come sole sono le corde del liuto, benché vibrino di musica uguale.”

Il capitolo sul matrimonio del libro che stiamo leggendo insieme: “Il Profeta” di Gibran istruisce sul valore della solitudine, che non è misantropia o egoismo, ma consapevolezza di essere una persona diversa dall’altra, con caratteristiche personali ben distinte, alle quali non occorre rinunciare, perché non c’è amore se manca la libertà di essere se stessi e se il rapporto di coppia viene vissuto come una prigione o come un dovere. Mi è piaciuta comunque l’espressione “cantate e danzate insieme e state allegri” perché credo che sia da questa allegria che riconosciamo che c’è l’amore. Certamente, nella vita insieme, ci sono momenti difficili, ma questa allegria non dovrebbe mai mancare, perché quando finisce la voglia di ridere insieme, finisce tutto. Sento spesso gli anziani che ricordano il tempo della giovinezza, quando bastava poco per divertirsi ed essere allegri e trovo strano che quel poco che bastava allora non si cerchi di tenerlo vivo, come si terrebbe vivo un piccolo fuoco, sotto la cenere del camino, che altrimenti rischierebbe di spegnersi. Oltre all’allegria c’è, a mio avviso, anche un’altra qualità importante, che vale per tutte le relazioni, ed è l’umorismo, che aiuta a ridimensionare tutto, perché nella vita insieme, spesso, si amplificano problemi, che non meriterebbero tanta importanza e preoccupazione. Cristina

10 giugno 2012

Quando l'amore chiama

(pag. 6) Quando l'amore vi chiama, seguitelo. Anche se le sue vie sono dure e scoscese e quando le sue ali vi avvolgeranno, affidatevi a lui. Anche se la sua lama, nascosta tra le piume, vi può ferire. E quando vi parla, abbiate fede in lui, anche se la sua voce può distruggere i vostri sogni come il vento del nord devasta il giardino. Poiché l'amore come vi incorona così vi crocefigge. E  come vi fa fiorire così vi reciderà. Come sale alla vostra sommità e accarezza i più teneri rami che fremono al sole, così scenderà alle vostre radici e le scuoterà fin dove si avvinghiano alla terra.

Non ci può essere vita senza l'amore. L'amore è  un dono, che  non dobbiamo nemmeno fare tanta fatica a cercare, perché non dobbiamo fare altro che aprire il cuore e allargare le braccia, per accoglierlo, quando lo incontriamo. Poi, la società ha cercato di incasellarlo in schemi e istituzioni, che hanno indubbiamente una loro utilità per dare stabilità e continuità all’amore, ma l’amore è una qualità spirituale, che poco ha a che fare con le nostre costruzioni e i nostri recinti. L’amore vero è quello che tiene insieme tutto l’universo: l’amore è forte, saldo ed eterno, ma siamo noi che, a volte, chiudiamo il cuore e non ne vogliamo sapere, perché ne abbiamo paura. Ma è anche vero che può procurare dolore. Per seguire l’amore, quando chiama - come dice il profeta - spesso si abbandona qualcuno: un padre o una madre, un altro uomo o un’altra donna, a volte una fede o una missione e questo porta spesso dolore. Basti pensare a Edith Stein, brillante allieva di Husserl, che dopo aver scoperto che non è la filosofia che porta alla verità, ma la scienza della croce, attraverso Cristo, rinunciò all’ebraismo, per convertirsi al cristianesimo, spezzando il cuore alla madre e lacerando i rapporti tra loro. Ma anche nella vita più normale, i genitori fanno esperienza di questa duplicità dell’amore. Poco tempo fa, chiesi a mia madre quali fossero stati i momenti più felici della sua vita e quali  quelli più dolorosi. Non ebbe alcuna esitazione a rispondere che quelli più felici erano stati la nascita dei figli e quelli più dolorosi erano stati a causa nostra. Cristina

6 maggio 2012

Principi e strategie della decrescita: le otto R

Parlando di decrescita, il passo successivo sarà identificare i principi e le strategie a cui si devono ispirare i comportamenti individuali, in particolare quelli di acquisto e di consumo e quelli collettivi nel suo complesso. Vengono di solito riassunti in modo schematico nelle cosiddette “otto R”: ridurre, riutilizzare, riciclare, rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare. Quanto portiamo queste strategie nel quotidiano della nostra esperienza, dobbiamo sempre tenere presente le due caratteristiche comuni: il dono e la scelta libera e gioiosa. Tradotte significano ad esempio contrastare la delocalizzazione, guidata da considerazioni esclusivamente economiche legate al vantaggio competitivo: il costo inferiore dei fattori di produzione, in particolare del lavoro e recuperare la dimensione locale della produzione: filiere locali o “corte”, finanziamenti alle imprese locali e del consumo: consumo “a Km 0”, G.a.s.-Gruppi di acquisto solidale, di cui abbiamo già parlato. Significa progettare beni che durano nel tempo e che non siano programmati per una obsolescenza rapida nell’ottica del consumo. Significa recuperare e rivalutare l’esistente e non desiderare ciò che è nuovo solo perché è nuovo. Significa ridurre per esempio l’accelerazione. Jean Robert e Dupuy svolsero un’analisi approfondita sul sistema automobilistico e arrivarono ad affermare che, al di là di una certa soglia, oggi ampiamente superata, nei grandi agglomerati urbani la moltiplicazione dei veicoli avvantaggia decisamente il pedone e il ciclista. Ma osserva Dupuy che l’alternativa radicale ai trasporti attuali: “non sono trasporti meno inquinanti, meno rumorosi e più rapidi; è una drastica riduzione della loro impronta nella nostra vita quotidiana.”. ”Gli utenti – scriveva già Illich – spezzeranno le catene del trasporto superpotente quando cominceranno di nuovo ad amare come un territorio il loro circondario e a temere di allontanarsene troppo spesso. […] Come compenso, si avrebbe il ritorno al senso del luogo di vita, che è un elemento strategico del programma della decrescita.” Non c’è comunque teoria buona che  non cominci dal quotidiano: da noi, dalla nostra famiglia, dalla  nostra casa. Proprio ieri sera, sentivo Luca Mercalli, un nucleare cosiddetto di quinta generazione, che in una trasmissione televisiva consigliava di approfittare di questa estate per cominciare a sbarazzarci del superfluo, dedicando tempo e risorse a tutto ciò che rende confortevole la nostra casa, riscaldamento e altro, limitando il consumo di energia, coltivando l’orto, chi ha la fortuna di averlo, curando l’igiene e la salute del nostro corpo, pensando, infine, che poi, di tutto il resto, si può anche fare senza. E a questo elenco di cose che si possono fare durante l’estate, evitando la dispersione e la passività che prende alcuni, aggiungo anche “rivalutare” l’ascolto dell’altro, chiunque esso sia, perché questo non può che far crescere e dare respiro alla nostra dimensione interiore. Cristina

28 aprile 2012

Il Profeta

Kahlil Gibran "IL PROFETA" pubblicato nel 1923. Questo è il secondo e-book che propongo. Si tratta dell'opera principale dello scrittore/pittore libanese. Anch'esso è un testo breve, ma a differenza del libro di Bach è pervaso da una vena poetica la cui efficacia dipende tuttavia dalla bravura del traduttore. Molte edizioni hanno a fronte il testo in inglese, ma non quella che ho trovato sulla rete e che ho messo a disposizione con un apposito link. Il libro affronta 26 temi ad ognuno dei quali viene dedicato un breve capitolo. Si va dal più noto "... i vostri figli non sono vostri figli ... ", al tema della libertà, dell'amicizia, della bellezza, della preghiera ... Tanti spunti di riflessione, tante considerazioni che possiamo analizzare e approfondire.
"... ed io dico che la vita è davvero oscurità se non c'è slancio,
e ogni slancio è cieco se non c'è conoscenza,
e ogni conoscenza è vana se non c'è attività,
e ogni attività è vuota se non c'è amore;
e quando voi lavorate con amore instaurate un legame con voi stessi, con gli altri, e con Dio."
Gianpietro

24 aprile 2012

TRAVIAN

Sorpresi? Consideratelo un momento di evasione, la ricreazione di metà mattinata a scuola. Vuole anche essere un omaggio al gioco che mi ha consentito di conoscere e stringere amicizia con Maria Maddalena. Si chiama TRAVIAN (non ne conosco l’etimologia) ed è un videogioco di strategia militare per browser di tipo multiplayer approdato dalla Germania in Italia nel 2005. Niente a che vedere con le grafiche cruente della maggior parte dei giochi di guerra. Assomiglia molto ai fumetti di Asterix e prevede un impegno che si protrae per circa un anno prima di completare un server di gioco. Normalmente si gioca in squadre (alleanze) di 40/50 giocatori che contendono uno scacchiere a diverse altre migliaia di appassionati. L’immagine del post documenta il risultato finale, la costruzione della Meraviglia (obiettivo che ogni player vorrebbe raggiungere). Quello dell’immagine è l’ultimo che abbiamo giocato (e vinto) e porta anche le firme di Galla (Maria Maddalena) e di Taranis (Gianpietro). 
Lo ammetto, mi sono divertito vestendo talvolta i panni del saggio che dispensa consigli a giovani apprendisti. Ovviamente, per loro sarò stato solo un vecchio rimbambito, brontolone e sputasentenze. E’ un gioco che consente di interagire e, nel tempo, è possibile capire chi c’è dietro ai nickname. Gli stessi comportamenti di gioco, le reazioni alle strategie adottate, evidenziano in modo chiaro il trasferimento nel mondo virtuale di gran parte dei comportamenti adottati in quello reale. Nasce come passatempo, ma per qualcuno diventa una dipendenza (vero Laura?). Durante il gioco si diventa amici o nemici per la pelle, poi, quando finisce, qualcuno ti dà appuntamento ad un nuovo turno di gioco, come se fossimo i personaggi della canzone di Vasco: "... e poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxi bar, o forse non ci incontreremo mai ognuno a rincorrere i suoi guai ...". Ma se si è fortunati ci si imbatte in persone eccezionali, come Maria Maddalena, appunto. Gianpietro

22 aprile 2012

Come si esce dalla via della crescita illimitata

“Quale che sia il vostro livello intellettuale o emotivo, capire di che cosa potete fare a meno è uno dei mezzi più efficaci per convincervi che siete liberi. […] Proviamo a rinunciare a qualcosa, non per abbellire la nostra vita, ma per ricordare a noi stessi quanto siamo attaccati a questo mondo moderno così com’è, e come potremmo tuttavia farne a meno.”(Illich e Cayley, La corruption du meilleur engendre le pire)
I teorici della decrescita sostengono da tempo che se la società dei consumi ha prodotto inizialmente benessere per molte persone, la sua crescita non sarà illimitata, come non saranno illimitate le risorse del pianeta, che ha continuato a utilizzare, senza alcun senso della misura. Paradossalmente, dall’arricchimento e dal benessere iniziale, si passerà all’impoverimento della maggior parte delle persone, provocando disperazione, miseria e suicidi. Chi è vissuto, finora, con il pensiero che questo destino sarebbe toccato alle generazioni successive oggi viene messo di fronte a questa tragica realtà dalla crisi mondiale, causata dai mercati finanziari, perché il fatto determinante e caratterizzante di questa società della crescita illimitata è che la vita dell’uomo non viene regolata da valori come la felicità, l’amicizia, la solidarietà, il bene comune, ma dall’economia. E’ sotto gli occhi di tutti che è l’economia oggi a orientare le nostre vite e a livello teorico questo era il pensiero sia del capitalismo, ma anche di Marx, che affermò il principio che è “l’economia che muove la storia”, mentre per i teorici della decrescita, come Latouche, Castoriadis, Ivan Illich, Nicholas Georgescu-Roegen, André Gorz, solo per citarne alcuni, le  nostre vite devono essere regolate da altro. Il primo presupposto per la decrescita è l’uscita dalla società dei consumi, ma perché questo non provochi frustrazione, deve essere un atto gioioso e libero. Occorre, allora, osservare come agisce la società dei consumi, per obbligarci a consumare sempre di più e quello che vuole.

Latouche indica tre pilastri del sistema consumistico che sono: la pubblicità, che crea il bisogno di consumare, il credito che fornisce i mezzi per consumare anche a chi non ne ha la possibilità immediata mediante l’indebitamento, l’obsolescenza programmata, che prevede il rinnovamento continuo del prodotto di consumo. La prima domanda che dobbiamo porci sarà dunque: è possibile far fronte in qualche modo all’assalto di questi tre pilastri? Per il credito, penso sia facile: basterebbe acquistare per contanti solo quello che è nelle nostre possibilità e tralasciare il resto. Non è facile restituire carte di credito e bancomat, perché le banche e tutto il sistema cercheranno di rendere la cosa difficile, ma basterà aprire il conto in una banca vicino a casa e scegliere un conto a costo zero per i prelievi. Più difficile evitare la pubblicità, che ormai agisce anche in modo subdolo, senza quasi che ce ne accorgiamo ed entra nelle nostre case, attraverso la televisione, interrompendo programmi, in continuazione. La pubblicità si può solo contrastare non acquistando, per esempio, i prodotti che maggiormente hanno invaso la nostra vita. Sulla obsolescenza programmata, invece, temo si possa fare poco: escono continuamente software che rendono i vari dispositivi obsoleti e bisogna cambiarli. L’unico rimedio, al momento, che ho potuto adottare è stato quello di acquistare un computer di una marca non conosciuta e poco pubblicizzata, che costava un terzo di quello di prima, con le stesse prestazioni e adeguato all’utilizzo che ne dovevo fare. Naturalmente, non è possibile esaurire un argomento tanto importante per la nostra vita personale e sociale con un solo post e vorrei scriverne altri, se ci sarà l’interesse a svilupparlo con i vostri commenti e le vostre esperienze personali. Cristina

15 aprile 2012

Odio e sofferenza


(pag. 44) … aveva giurato vendetta, era pronto a combattere contro lo stormo all’ultimo sangue, E così si accingeva a fabbricarsi il suo piccolo inferno privato … è chiaro che non ami la cattiveria e l’odio, questo no. Ma bisogna esercitarsi a discernere il vero gabbiano, a vedere la bontà che c’è in ognuno, e aiutarli a scoprirla da se stessi, in se stessi.

Non credo esista ostacolo più difficile da superare. Più ancora che giungere ad amare la sofferenza. Questa richiede infatti solo un rapporto con se stessi, nel quale gli altri o sono esclusi o sono anch’essi vittime. Ecco che allora si può elaborarla, comprenderla, accettarla, fino ad amarla per l’opportunità di rinascita interiore che sa offrire. Naturalmente c’è anche chi la legge solo come un nemico da odiare e da combattere e allora ne rimarrà vittima senza coglierne gli aspetti positivi. Amarla non significa ricercarla o non curarla, tutt’altro, ma poiché essa esiste da sempre e può colpire in qualunque momento noi e coloro con i quali ci relazioniamo, ecco che possiamo scegliere tra incolparne la natura (o la divinità), o servircene per compiere un passo avanti nel cammino dell’evoluzione.
Differente è il discorso quando ci poniamo a confronto con il male. In questo caso l’identificazione del male in chi lo compie è, il più delle volte, automatica. È tutt’altro che sottile la distinzione tra le espressioni: “è un criminale” ed “è una persona che ha commesso un crimine”. L’individuo, qualunque individuo, è più delle azioni che compie e finchè il male ci porterà a nutrire solo odio nei suoi confronti, resteremo invischiati del nostro “piccolo inferno privato”. Gianpietro
1994 carestia in Sudan. Il bambino avanza lentamente verso il campo profughi dell'ONU, distante oltre un chilometro, sotto lo sguardo interessato di un avvoltoio. Tre mesi dopo, il fotografo, Kevin Carter, ha vinto il premio Pulitzer grazie a questa immagine. La settimana successiva Carter si è suicidato. Nessuno conosce la sorte del bambino.

12 aprile 2012

Asserzione

(pag. 22) Scegliamo il nostro mondo successivo in base a ciò che apprendiamo in questo. Se non impari nulla, il mondo di poi sarà identico a quello di prima e avrai anche le stesse limitazioni che hai qui.
pag. 23) Il paradiso non è un luogo. Non si trova nello spazio e neanche nel tempo. Il paradiso è essere perfetti.


Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere(Ludwig Wittgenstein - Tractatus Logico-Philosophicus). Se applicassimo alla lettera la “asserzione” del pensatore austriaco avremmo un mondo certamente meno assordante, ma assai poco divertente. E’ pertanto sforzo vano parlare di ciò che non si conosce? Personalmente non credo, una volta riconosciuto e accettato il limite. Le espressioni tratte dal libro di R.Bach vanno quindi prese come ipotesi formulate per calmare l’ansia originata da domande che, diversamente, cadrebbero nel vuoto. Tra le tante teorie sul destino dell’individuo e sullo scopo della vita, annovero quella dell’evoluzione dello spirito (comunemente nota come reincarnazione o metempsicosi) tra le più suggestive e per certi versi “ragionevole”. Ovviamente, per reggere alla prova della ragione, ha alla base un consistente insieme di postulati di fede, e quindi per loro natura indimostrabili. Provo ad elencarne alcuni. Per ogni individuo esisterebbe un’anima (o spirito) immortale. Il corpo sarebbe solo uno strumento preso in prestito alla natura (l’uomo sarebbe stata una delle opzioni possibili, ma non è detto che uno scarafaggio non potesse funzionare ugualmente). Per una qualche ragione l’anima, che è perfetta, si nasconderebbe in un corpo (da lei scelto?) che le sta stretto, pieno di difetti, limitato nelle potenzialità, veramente primitivo nei principi, barbaro direi, e decisamente duro di comprendonio. Il gioco si chiama ritornare al Padre, o espiare un peccato originale (?), o riscoprire la perla, più genericamente, evoluzione. Una specie di gioco dell’oca; in ciascuna casella ci sono le esperienze, gli ostacoli, gli stimoli, gli esempi, degli aiutini, gli studi, gli incontri, le sofferenze, più raramente le gioie, le cadute (se proprio si è zucconi i rimandi al via) e le risalite, a volte perfino i miracoli. Ad ogni progressione dell’anima corrisponderebbe una regressione del corpo. Anima e corpo sono impegnati in una lotta dove il bisogno morale si realizza solo con l’annullamento dei bisogni materiali. I cardini sui quali la natura ha plasmato l’uomo (la difesa, la sopravvivenza, il dominio) diventano i primi nemici dell’anima (Francesco che si spoglia era già sulla buona strada). Se, su queste basi, qualcuno pensa che con la morte fisica tutto sia compiuto, gli do il benvenuto nella lotteria dei 6 numeri su 90 ed una sola giocata a disposizione. E se anche c’è chi dura di più e chi finisce prima, chi vive in salute e chi in malattia, chi dispone degli strumenti e chi nemmeno li conosce, chi si impegna per aiutare e chi per sottomettere, ebbene tutto questo occupa lo spazio, insignificante, di un “amen”. Quali scale utilizzare allora? 1, 100, 1.000, 1.000.000 giri di giostra per ogni anima? e ripetuti per quante anime? E su quanti piani spaziali o temporali? E se il corpo servisse solo per la sgrossatura iniziale (diciamo i primi lanci del dado) e poi il gioco continuasse su dimensioni inimmaginabili? Tante individualità o, in proiezione, la fusione in un’unica amalgama (tante lingue di un’unica fiamma)? E dove si pone l’eternità? E l’infinito? Chi misura il risultato? Chi dice: “così può bastare”?
….
Il paradiso è essere perfetti. Se lo fossi, credo che me ne accorgerei. Ma così non è, non ancora, almeno. Gianpietro

11 aprile 2012

Il rapporto con il corpo

Nel servizio che svolgiamo presso persone che sono ammalate o anziane, ma anche nella vita di ogni giorno, osserviamo, sempre più spesso, come il corpo assuma una rilevanza straordinaria, al punto da dimenticare che esso non è più importante di ciò che si svolge al suo interno o dell’anima di chi lo abita. Ce ne accorgiamo quando, parlando di qualcuno, lo definiamo "il non vedente" o "il claudicante" o "il sordo", assimilando la persona alla sua malattia o a una caratteristica del suo corpo, come quando diciamo "la biondina" o "la mora". Scrive Roberto Assagioli, psichiatra: “Avere un atteggiamento corretto verso il corpo significa assegnargli il giusto posto nella coscienza. Quasi tutti si sentono tutt’uno con esso, si appropriano delle sue condizioni e sensazioni, affermando cose tipo: “Io ho fame, ho sete, io sono stanco”, e faticano o addirittura non riescono a concepire un’esistenza separata, indipendente dal proprio corpo. E’, questo, un materialismo vissuto da cui occorre liberarsi.” Il primo passo per liberarsi da questa identificazione con il corpo è riconoscere che esso è uno strumento prezioso, che va tenuto curato, pulito e ordinato, ma è come una abitazione, che non può essere più importante di chi la abita. Andando a trovare un amico, apprezzeremo il buon gusto con cui avrà arredato la casa, ma anche se gli manca qualcosa o un po’ di muffa rovinerà le pareti, non cambieremo la buona opinione che abbiamo di lui o questo rovinerà la nostra amicizia. E se la casa è la nostra, non ci faremo un problema se incomincia a invecchiare o se qualche elettrodomestico è diventato un po’ obsoleto. E per fare un altro paragone che renda l’idea, non ci interesserà il legno, pregiato o no, di cui è fatta la libreria di casa, perché ben più importanti sono i libri che essa contiene. Cristina

10 aprile 2012

Sulla educazione

Volevo fare alcune considerazioni personali, da non addetta ai lavori, come si usa dire oggi, sui diversi metodi educativi, precisando, comunque, che una vera educazione non può essere ristretta nell’ambito di una categoria soltanto, ma ha, lo stesso, delle caratteristiche salienti, di cui occorre tenere conto. A suo tempo, i miei genitori hanno scelto per me una educazione umanistica. I limiti che ho potuto riscontrare in questo tipo di educazione è che questa sia troppo radicata nel passato, per cui, una volta uscita dalla scuola, mi sono sentita a disagio nel mondo del lavoro, non conoscendo bene la tecnologia, il calcolo e una seconda lingua, della quale avevo studiato soltanto la letteratura antica. Venivo presa in giro dalle colleghe, che, avendo fatto le scuole tecniche, sapevano scrivere a macchina velocemente e senza guardare i tasti, e quando il capo ufficio mi vedeva alla macchina da scrivere, rideva e raccomandava ironico di chiudere le finestre, perché la velocità con cui scrivevo faceva volare i fogli. Per fortuna, dopo qualche anno, venne introdotto il personal computer e con quello ebbi la mia rivincita, perché mi appassionai subito alla novità e questo mi cambiò la vita. Ma anche l’educazione tecnica aveva i suoi limiti, perché era in funzione soltanto di una capacità produttiva e di scopi materiali, perdendo di vista l’uomo e la sua complessità. Quale educazione allora devono dare i genitori? Parlare di una educazione di tipo spirituale genera sempre fraintendimenti, perché la si assimila a una educazione religiosa, di tipo confessionale, mentre invece non è così. Una corretta educazione spirituale aiuta il giovane a uscire dall’ambito ristretto del suo io e della sua razionalità e a sviluppare la compassione e la solidarietà, a ridimensionare la tecnica al ruolo di strumento e non di fine e a rinnovare e contestualizzare i valori antichi di una educazione umanistica, rendendoli appetibili e adeguati al tempo in cui vive. I giovani devono conoscere i problemi che affliggono l’umanità ai nostri giorni e vanno portati nei luoghi del disagio, dai quali oggi vengono tenuti lontano: a frequentare le mense dei poveri, gli ospedali, le case della carità e i campi di lavoro che nel sud vengono allestiti, per dare una opportunità ai giovani e tenerli lontano dalla criminalità organizzata. Solo così i giovani possono apprendere che per i mali e la sofferenza del mondo ci può essere rimedio nella cooperazione e nella solidarietà degli altri uomini. A volte i genitori, lamentandosi semplicemente di come va il mondo, producono solo negatività, limitandosi all’aspetto rivendicativo e perdendo di vista quello costruttivo. E così, nel volontariato, raramente mi capita di vedere giovani: il servizio viene rimandato al tempo in cui si è  liberi dal lavoro, quando non è per niente necessario dedicare molto tempo, perché anche un semplice lavoro, restando in casa, può essere di aiuto per gli altri. Bisognerebbe anche insegnare ai giovani la concentrazione, attraverso la meditazione, o la preghiera, o la ginnastica yoga. Sbagliano, a mio avviso, i genitori che dividono i figli in potenziali credenti e non, perché tutti hanno bisogno della concentrazione, che deriva da momenti di raccoglimento e  non importa tanto quale attività essi desiderino di più praticare in quei momenti, basta che sia adatta ad operare un distacco dalla mente e questo lo può fare anche la semplice lettura di una poesia: la poesia non necessità di comprensione, può essere letta o recitata come un mantra e con senso di abbandono. Ma l’educazione più bella, che possono dare i genitori ai figli, è l’esempio: rinunciando alla autocommiserazione, per vedere la bellezza nella vita di ogni giorno, anche in una vita semplice e frugale, lontano dai consumi e dalle mete che la società moderna impone a tutti e che producono soltanto una felicità falsa e illusoria. Cristina

7 aprile 2012

Omologazione

(pag. 5) “Perché non devi essere un gabbiano come gli altri?”
(pag. 6) “Non scordarti, figliolo, che si vola per mangiare.”
(pag. 8) “Lascia perdere queste stupidaggini … accontentati di quello che sei.”

Cos’altro ci insegnano? Famiglia, scuola, società, ci spingono verso l’omologazione. Fai come fanno gli altri. Se vuoi il successo, il benessere, la considerazione, il potere (cos’altro esiste?)… adeguati, striscia, corrompi, calpesta … Non farti domande, tutto ti è lecito se nessuno ti scopre, ed anche in quel caso nega sempre. Non c’è spazio per i sognatori, non è questo il loro tempo. Disponi di una sola vita e sai che sarà breve. Arraffa fin che puoi, quello che puoi. Solo i fessi si pongono domande, intanto che gli altri godono. La spudoratezza viene eletta a ragion d’essere ed il sentimento della vergogna è cancellato dai dizionari. A squallide marionette, votate a meschini tornaconti, sono demandate le sorti di intere nazioni nel più generale disinteresse e senso di impotenza. Ricordatevi di HannaH Arendt “La banalità del male”: si fa l’abitudine anche al male assoluto. Il giorno nel quale faremo la fine della “rana bollita” ci ricorderemo, se ne avremo il tempo, della prima volta che abbiamo pensato: “Beh, in fin dei conti, che male c’è, e poi lo fanno tutti.” Gianpietro

1 aprile 2012

Lo Stormo

(pag. 4) "E fu data la voce allo Stormo."

Lo Stormo attende la voce della propria guida per dar inizio ad una nuova giornata, che di nuovo non ha proprio nulla, un susseguirsi di voli noiosi alla continua ricerca di cibo. Lo Stormo segue una guida. La mediocrità dello Stormo è dovuta alla guida che si è scelta e che per qualche ragione vuole mantenere lo stormo "ancorato a terra"? Oppure è lo Stormo che si è scelto una guida che lo rappresenta nella sua mediocrità? Se la voce che guida lo Stormo fosse quella di Jonathan le giornate dei gabbiani avrebbero ben altro profilo. Maria Maddalena

28 febbraio 2012

La memoria

"I ragazzi oggi non hanno memoria, e soprattutto non la coltivano, e tu sai che anche Michele non aveva memoria, o meglio non si piegava a respirarla e coltivarla. A coltivare le memorie ci siamo forse ancora tu, tua madre, e io, tu per temperamento, io e forse tua madre per temperamento e perché nella nostra vita presente non c'è nulla che valga i luoghi e gli attimi incontrati lungo il percorso. Mentre io li vivevo o li guardavo, quegli attimi o quei luoghi, essi avevano uno straordinario splendore, ma perché io sapevo che mi sarei curvato a ricordarli."
Così Natalia Ginzburg in “Caro Michele” coglieva il senso di un grande mutamento generazionale e anticipava quella perdita della memoria, individuale e collettiva, che potremmo anche chiamare la perdita del senso della storia, che caratterizza oramai tutto il nostro tempo. I ventenni di allora dovevano liberarsi del passato, per poter costruire un futuro diverso da quello dei genitori e questo era anche abbastanza comprensibile, perché non solo in quel periodo di grandi mutamenti, ma in qualunque periodo della storia, bisogna cercare di preparare un futuro migliore del tempo precedente. Quello che, a mio avviso, è sbagliato è non vedere la storia nella sua continuità, come se venissimo dal nulla, perché in questo modo non si può far altro che andare verso il nulla. Il presente deve per forza includere il passato, senza cancellarlo, senza esaltarlo, senza giudicarlo, ma cercando almeno di conoscerlo. Penso che questa operazione sia molto importante e per questo ho apprezzato il progetto chiamato “Locanda della memoria” di scrivere le biografie dei grandi anziani della nostra città. Ma più in generale penso che ognuno, indipendentemente dall’età, dovrebbe scrivere la propria biografia e, se è possibile, farlo in coppia, per conoscere meglio se stessi e anche l’altro. Credo che sia un buon esercizio che, se svolto correttamente, serve a riconciliarci con il passato e a godere meglio del presente, portandoci all’intima consapevolezza che le vicende del passato, che ci hanno fatto male, non possono più nuocerci, mentre il ricordo delle cose belle, che abbiamo vissuto, continueranno a rallegrarci per sempre. Cristina