
Una sera di circa quarant’anni fa, terminato un corso di informatica, camminavo per le vie di Roma in attesa di trovare un buon ristorante. Ad un tratto vedo un giovane in carrozzina che, agendo sui cerchioni fissati all’esterno delle ruote, sembra procedere a fatica lungo la strada in leggera pendenza. Lo seguo per un tratto osservandone l’aspetto trasandato, i capelli lunghi, la barba incolta ed i lineamenti spigolosi, marcati da chiari segni di sporcizia sul viso e sulle braccia scoperte. Le mani calzano dei mezzi guanti sbrindellati e lerci. Fissati alla carrozzina diversi pacchi che sembrano sul punto di scivolare tra le ruote. L’apparenza è di un ragazzo forte e alto, che io leggo come un disabile diseredato e che potrei aiutare, quantomeno a superare quel tratto di strada. Ci penso a lungo, poi lo avvicino e prendo saldamente i manubri della carrozzina borbottando qualcosa come: “Scusi, posso aiutarla?”. Lui si divincola senza voltarsi neppure, dà uno strappo alle ruote e si stacca, allontanandosi imprecando. Avverto vampate di caldo al viso ed un tremore per tutto il corpo. Lo raggiungo e lo affianco: “Guardi che volevo solo darle una mano, nient’altro”. Agitando minaccioso le mani guantate mi snocciola una serie di epiteti e si allontana con energiche bracciate, sempre inveendo. Pieno di vergogna e di rabbia mi guardo attorno, ma l’indifferenza è totale. Una bottiglia di ottimo vino ed una cena che ne bastava per due, non sono valsi a riassorbire un malessere che mi sono tenuto dentro per diverso tempo.
Ho raccontato questi due episodi pensando allo stereotipo del bisognoso, che noi vorremmo anonimo, immediatamente identificabile, ma che di se stesso non mostra neanche un lembo di pelle, solo la richiesta di aiuto, in modo evidente, tanto ostentata quanto impersonale. Ma così è troppo facile.

Gianpietro
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