
Certamente, ci sono anche forme di solitudine patologica, causate dalla incapacità di avere delle relazioni, ma queste restano nell’ambito della malattia e vanno curate per quello che sono. Io penso che una corretta pedagogia dovrebbe insegnare al bambino sia la solitudine, nella quale far crescere la sua capacità critica e creativa, sia la capacità di sviluppare relazioni corrette con gli altri. Osservo, invece, nei genitori un gran desiderio di vedere il bambino perfettamente integrato e socializzato e mal sopportano eventuali momenti di malinconia o di tristezza, quando lui si trova da solo e si annoia. Penso che quei momenti siano invece importantissimi per la sua crescita, perché impara a prendere coscienza della sua individualità e a ragionare con la sua testa e non come gli altri vorrebbero. Occorre anche dire che il percorso vero di relazione è quello lunghissimo e unificante del nostro mondo interiore con l’esterno e forse non basta una vita intera per imparare a percorrerlo. Non esiste però nessun percorso alternativo, nessuna scorciatoia. Certe droghe, e a volte anche l’alcool, producono questa profonda sensazione di armonia tra il dentro e il fuori, ma sappiamo bene che in quei casi è solo un’illusione e i danni che queste dipendenze provocano vanno ben oltre i benefici che si conseguono.
Anche tra gli anziani, che mi è capitato di assistere per il servizio, ho notato un uso eccessivo di antidepressivi, che io assimilo alle droghe, prescritti e somministrati il più delle volte senza nemmeno una psicodiagnosi attenta di un medico competente. Ma è chiaro che nell’età avanzata appare troppo tardi per fare qualsiasi altra cosa e l’educazione o l’auto apprendimento alla solitudine come valore andrebbero cominciati molto prima. Cristina
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