"Meglio farsi straniero, che accogliere uno straniero"(E. Canetti). Un tempo, come molti europei occidentali, pensavo allo straniero come ad "un altro" che dovesse adattarsi alle nostre regole, o stare fuori. Più recentemente, ho cominciato a considerare una terza via, quella, appunto, degli ebrei: la "stranierità" come condizione umana, spesso non scelta, che accompagna tutta la vita, nella perenne ricerca delle proprie radici. E' una dimensione inquietante e destabilizzante, non semplice, sia quando l'abbiamo di fronte, sia quando ci riguarda; che, però, dilata esperienza e conoscenza, perché, se si accetta questa condizione, niente è dato una volta per tutte. Il difficile è che si deve continuamente abbandonare la casa, la strada già tracciata per noi, o che avevamo programmato, quella che ci dava sicurezza, e intraprendere la via della precarietà, del mistero, accogliendo anche quel lato oscuro, che ci abita silenziosamente, perché la "stranierità" è soprattutto dentro di noi. La malattia e la vecchiaia fanno spesso dire agli altri: "Non lo riconosco più" oppure a noi: "Non mi riconosco". Ma quando siamo più veri? Quando abitiamo la nostra terra, la casa paterna, nel lavoro di sempre, quando pensiamo che non potrà mai capitarci nulla di male, o nell'esilio di una situazione nuova e difficile? Ci sono persone con cui ho lavorato per anni, senza conoscerle; in un momento di difficoltà dell'azienda, ci siamo dispersi in cerca di nuove occupazioni, ma sono nate amicizie profonde tra di noi, perché in quel momento eravamo noi stessi, pellegrini e stranieri in casa nostra, senza un lavoro, con un futuro incerto, senza voglia alcuna di nasconderlo. Cristina
Einstein, alla domanda del funzionario di dogana: "Razza?", rispose "Umana". Eppure l'altro, che sia straniero o che semplicemente si esprima in un dialetto differente, è spesso valvola di scarico delle nostre angosce, sfogo alle paure (talvolta motivate) che i media si ostinano ad imporre alle nostre agende. Ma la "stranierità", per usare il tuo neologismo, riguarda soprattutto i mutamenti che ci coinvolgono direttamente e che, anche ammesso che sappiamo riconoscerli, raramente riusciamo a spiegare. A me capita, con sempre maggiore frequenza, di percepire una marcata dissociazione tra l'aspetto corporeo e le sue potenzialità, la competenza mentale e la percezione che ho di me stesso. Quando questi tre elementi confliggono, ed accade sempre più spesso, entro in una crisi profonda e anch'io dico: "Non mi riconosco". In quei momenti penso solo al suicidio. Gianpietro
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Einstein, alla domanda del funzionario di dogana: "Razza?", rispose "Umana".
Eppure l'altro, che sia straniero o che semplicemente si esprima in un dialetto differente, è spesso valvola di scarico delle nostre angosce, sfogo alle paure (talvolta motivate) che i media si ostinano ad imporre alle nostre agende. Ma la "stranierità", per usare il tuo neologismo, riguarda soprattutto i mutamenti che ci coinvolgono direttamente e che, anche ammesso che sappiamo riconoscerli, raramente riusciamo a spiegare. A me capita, con sempre maggiore frequenza, di percepire una marcata dissociazione tra l'aspetto corporeo e le sue potenzialità, la competenza mentale e la percezione che ho di me stesso. Quando questi tre elementi confliggono, ed accade sempre più spesso, entro in una crisi profonda e anch'io dico: "Non mi riconosco". In quei momenti penso solo al suicidio. Gianpietro
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